L’informazione non è solo ‘informazione’. Polittico su infodemia, infopenia, potere e libertà nella società dell’informazione

L’informazione non è solo ‘informazione’

Polittico su infodemia, infopenia, potere e libertà nella società dell’informazione 

 

Premessa sul concetto di informazione: una definizione

Oggi viene correntemente sostenuto che viviamo in gran parte immersi in un’enorme e vorticosa massa di informazioni, più che in ogni altra epoca del passato. Se prendiamo per buono questo ritratto della società in cui viviamo, la situazione così dipinta, come un po’ tutti riconoscono, ha una serie di risvolti positivi, utili e graditi. Nondimeno, detta circostanza è anche generatrice o amplificatrice di problemi: per un verso, rende difficile identificare le “informazioni che contano” (quelle rilevanti o significative); per un altro verso, rende complicato distinguere le informazioni di “specchiata qualità”, accurate e ben vagliate dalle così dette “informazioni spazzatura”. Insomma: informazioni che contano e di specchiata qualità, dicerie, fandonie e rumors, per così dire, viaggiano insieme e spesso sullo stesso treno rubano l’un l’altra il posto a sedere. Ma che cos’è l’informazione? O meglio: come possiamo definirla?

Non è facile definire con poche parole cosa significhi “informazione”. Il termine deriva dal verbo latino in-formare, vale a dire “dare forma alla mente”, “mettere in forma qualcosa”, mettere in ordine. Insomma, si riferisce al modo in cui facciamo conoscenza, ovvero prendiamo contezza delle cose che incontriamo nel mondo e le “discipliniamo” (verbo ereditato dal latino discere, imparare). Detto in altri termini, le informazioni sono tali in quanto ci mettono a conoscenza delle “cose presenti nel mondo” (eventi, situazioni, fenomeni, problemi). Le informazioni riguardano la sfera della natura e quella della vita collettiva e individuale delle persone che vivono nella società, e riguardano altresì il fatto che danno conto e ci aggiornano sullo “stato dell’arte” nei più disparati settori dei “campi del sapere” (scienza, conoscenze specialistiche, tecnologie, arti).

Per quanto a taluno possa risultare assai vaga o generale, e addirittura troppo generica, ritengo che questa definizione sia la migliore per identificare a colpo d’occhio, per denotare e connotare l’oggetto appellato informazione. E, come emergerà via via da quanto qui sosterrò, la ritengo una definizione più pregnante di altre a cui oggi si fa correntemente riferimento e che dal mio punto di vista si rivelano essere non poco problematiche: penso, ad esempio alle definizioni elaborate nel campo dell’informatica o dell’economia, che a prima vista sembrano più precise e univoche, ma che se considerate con attenzione risultano piuttosto elusive (tanto nella denotazione, quanto nella connotazione del fenomeno “informazione”).

In questa sede, sulla base della definizione di matrice etimologica sopra introdotta, propongo la seguente definizione teorica e formale di informazione: l’informazione è un elemento costitutivo del processo di percezione tramite il quale un soggetto percepisce e ha conoscenza delle “cose del mondo” (siano queste un oggetto o un altro soggetto), ovvero percepisce e conosce una qualche cosa intesa come un dato (ciò che esiste, che è in essere) oppure come un costrutto (ciò che è creato, che è posto in essere). Così definita, l’informazione ha due facce: quella del suo contenuto e quella della sua trasmissione (circolazione) attraverso i quali si ha conoscenza del mondo o di segmenti del mondo.

Se sul piano analitico l’informazione può essere separata da altri aspetti della conoscenza delle “cose del mondo” (descrizioni, idee, concetti, opinioni, valutazioni, giudizi), sul piano empirico e fenomenologico una tale distinzione resta comunque problematica, se non impossibile, poiché ciò che chiamiamo informazione vive nel mondo con-fusa con essi.

 

  1. Pannello I: Signore e signori, ecco a voi l’infodemia

L’infodemia è un aspetto non banale di un’epoca, come la nostra, in cerca di una bussola per orientarsi nel mare aperto dell’informazione. Il termine infodemia viene riferito a un’abbondanza o eccesso di informazioni che circolano nei canali della comunicazione sociale, e che sono comunemente ritenute sprovviste di vaglio critico o decontestualizzate, al punto che soddisfare l’esigenza di “separare il grano dal loglio” (le informazioni accurate da quelle inaccurate) non è cosa a portata di mano. Da qui il rilievo assunto, ad esempio, dal così detto fact-checking, la “verifica dei fatti”, una tecnica peraltro problematica o ingenua proprio per il metro di misura con cui essa definisce la “buona informazione”: ossia “il fatto”.

Infodemia è un neologismo che si è imposto all’attenzione pubblica, fino a entrare rapidamente nel linguaggio corrente, a partire dal 2020, quando l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), nel dichiarare lo stato di pandemia da Covid-19, utilizzò il termine per riferirsi a una “epidemia da informazione”, dove il virus contagioso e pericoloso è rappresentato da una sorta di overdose di informazione, spesso di cattiva qualità o scriteriata. Il conio del termine sarebbe da attribuire a David J. Rothkopf, che in un articolo dell’11 maggio 2003, comparso sul Washington Post, parla di un’epidemia informativa (ovvero “infodemia”) che si sovrappone all’epidemia da SARS. Il termine oggi ricorre nei documenti ufficiali dell’OMS, come in quelli dell’Unione Europea. Il fenomeno è persino diventato l’oggetto di studio che qualifica una nuova scienza, l’infodemiologia, in analogia con l’epidemiologia che si occupa della diffusione dei virus biologici: vale a dire, una scienza che studia la circolazione e l’eccesso di informazioni come se fossero virus che contagiano “i cittadini che si informano”, scatenando malattie collettive che colpiscono la società.

Correntemente si ritiene che l’infodemia acceleri la sua diffusione in situazioni critiche e di emergenza, quando crescono gli stati di ansietà delle persone e le paure collettive. In situazioni del genere, l’impatto psicologico, sociale e politico del fenomeno infodemico, comunque lo si voglia valutare, diventa tale da compromettere e destabilizzare il tessuto delle relazioni sociali delle persone, il normale funzionamento della società e il suo governo da parte delle istituzioni pubbliche; in tale situazione, l’infodemia arriva a mettere in discussione o a danneggiare pure la reputazione di scienziati ed esperti, i quali faticano a offrire alla società risposte efficaci o convincenti sull’uno o l’altro problema, provocando con ciò insicurezze tanto più profonde quanto più il problema è considerato pericoloso.

L’infodemia può a buon diritto essere considerata figlia della società dell’informazione. Pertanto, al fine di meglio comprendere la natura dell’infodemia e la sua profondità storico-sociale, è opportuno collocare il fenomeno nel contesto di alcune importanti trasformazioni che hanno attraversato la società contemporanea nel corso degli ultimi decenni, e che trovano sintesi proprio nella così detta società dell’informazione[1].

Teniamo perciò presente, fin da ora, che il problema dell’infodemia, trovando le sue radici nella società dell’informazione, ha alle spalle già mezzo secolo di storia e di sviluppi che ne tratteggiano i caratteri principali. I lineamenti dell’infodemia sono cioè profondi e “strutturali”. Vale a dire: essi vanno ben oltre l’uso che si è fatto del termine (in modo piuttosto superficiale, spesso polemico e contingente) nel clima dell’allarme pandemico virale a cui il termine deve il suo recente successo. Ciò detto, l’odierna grande attenzione prestata all’infodemia si spiega con il fatto che in occasione della pandemia virale dichiarata dall’OMS nel 2020, nel contesto di una crisi e di uno smarrimento psicologico, esistenziale e sociale legato all’emergenza virale, si è certo avuta una diffusa circolazione mediatica (tramite canali tradizionali e nuovi, grandi e piccoli, “ortodossi” o “eterodossi”) di una grande mole sia di informazioni di varia o incerta affidabilità, sia di opinioni spesso contrastanti e controverse o incontrollate (ad esempio, in merito al Covid-19, in merito alle sue origini, alle modalità del contagio e delle misure per contrastarlo, in merito al “vaccino” o alla sua obbligatorietà). L’infodemia, in questo caso, si è associata al fatto che le informazioni, le opinioni e le valutazioni sui vari aspetti della crisi pandemica non erano corredate da sufficienti o adeguate evidenze empiriche, né da dati epidemici e/o laboratoriali pubblicamente controllabili e scientificamente ben definiti ed esaminati. La qualità controversa e divisiva di tali informazioni e valutazioni su molteplici aspetti della “crisi virale”, ha caratterizzato ogni livello della società: il mondo degli esperti del settore medico-scientifico e della loro comunicazione pubblica; il mondo della politica e delle sue decisioni istituzionali; il mondo dei mass media tradizionali (giornali, tv, radio) e nuovi (social, blogger), inclusi i canali di “informazione alternativa”; il mondo della vita quotidiana e dei discorsi del cittadino comune.

Il 5 maggio 2023, l’OMS ha ufficialmente dichiarato la “fine della pandemia”. Siamo però ben lungi dal registrare che, per ciò stesso, abbiano avuto termine l’infodemia e la “caccia all’infodemia”, sulle quali oggi si richiama l’attenzione riguardo ad altri temi di interesse pubblico (ad esempio: crisi geopolitiche internazionali, la guerra russo-ucraina che coinvolge tutto l’Occidente e L’Europa stessa, crisi ambientale, cambiamento climatico, manipolazione genetica, Intelligenza Artificiale, “carne sintetica”, “farina di insetti” ecc.), temi che talora sono all’ordine del giorno da ben prima dell’emergenza “covidiana”. Diciamolo, quindi, in modo esplicito: Il problema dell’infodemia continuerà a porsi anche dopo il regno del Covid, come peraltro progressivamente era andato ponendosi già prima. Che piaccia o meno, per un motivo o l’altro, il tema dell’infodemia e della “cura dell’infodemia” è entrato nell’agenda pubblica: quella del dibattito culturale, mediatico e sociale, quella delle autorità istituzionali e dei Big Media. E proprio per questo è opportuno che il fenomeno dell’infodemia sia messo a fuoco collocandolo in una prospettiva di ampio respiro temporale, sociale e culturale. Sopra ho già notato che l’infodemia è figlia della nostra società dell’informazione. Perché?  E cosa significa mettere la questione sotto questa luce?

 

  1. Pannello II: La società dell’informazione

L’infodemia fa riflettere sulla “società dell’informazione”. L’infodemia è un effetto sociale della società dell’informazione, con la quale tendiamo a qualificare salienti caratteri della società del nostro tempo.

Il concetto di società dell’informazione si riferisce a quel tipo di società che nella seconda metà del Novecento ha visto progressivamente un’estensione territoriale e sociale delle reti infrastrutturali urbane, un ampliamento del ceto medio, una crescita dei livelli di istruzione e che, in ultimo, ha reso disponibile un po’ a tutti (ma non a tutti né a tutti allo stesso modo o con la stessa efficacia) quelle tecnologie che rendono possibile la produzione, l’accesso e la condivisione di un gran numero di informazioni. Le tecnologie informatiche (internet e pc connessi alla rete) e comunicative (ad esempio, social network e blog) hanno comportato: 1) un allargamento dell’utilizzo, passivo e attivo, degli strumenti e dei contenuti delle reti informatico-comunicative a una massa crescente di singoli individui e a gruppi più o meno organizzati, che un tempo ne erano esclusi o marginali; 2) il venir meno del monopolio delle informazioni e dei mezzi di informazione e comunicazione da parte delle istituzioni politico-amministrative e delle grandi imprese; 3) una reazione da parte delle imprese di Big Tech e delle autorità pubbliche, in senso regolamentativo o legislativo, di fronte al processo di liberalizzazione nel campo della libera circolazione delle informazioni – ad esempio attraverso tecniche quali espulsione, sospensione o “invisibilizzazione” di taluni soggetti attivi nei circuiti della comunicazione pubblica e nelle reti social, come pure attraverso tecniche quali screditamento o delegittimazione di taluni contenuti informativi e d’opinione volta a volta etichettati come fake news, hate speech, “politicamente scorretti”, complottisti, negazionisti ecc. Entrambe le tecniche ci pongono dinnanzi a nuovi scenari e a più sottili problemi inerenti le pratiche e le logiche dell’info-censura: scenari e problemi che, pur non essendo del tutti inediti, nello specifico si presentano con tratti peculiari della società dell’informazione. A questi scenari e problemi, da un’altra angolatura, si affiancano quelli che delineano uno scenario che solo apparentemente è paradossale: una società dell’informazione che si sviluppa in simbiosi con una “società della sorveglianza”.

Il tema della società dell’informazione è stato introdotto e trattato negli studi sociologici e politologici che, già a partire dagli anni ’60-70 del Novecento, offrono analisi sfaccettate sulle trasformazioni delle società sviluppate dell’Occidente. In quel contesto viene messo in risalto l’emergere di un nuovo tipo di società: una società caratterizzata proprio dalla “ricchezza dell’informazione”. Dopo la società agricola e la società industriale, nel contesto di una “società post-industriale” (ossia la società centrata sui servizi, sul tempo libero e sui consumi di massa), a prendere forma è la nostra società dell’informazione o, come viene altrimenti declinata, la società del “capitalismo dell’informazione”: una società basata sulla e veicolata dalla rivoluzione tecno-informatica e delle telecomunicazioni. La società dell’informazione, come già anticipato, vede un ruolo centrale della conoscenza, di una conoscenza socialmente diffusa e sostenuta da una crescita dei livelli di istruzione di massa. Secondo il sociologo americano Daniel Bell, pioniere nel tratteggiare il profilo della nuova società emergente, le risorse della conoscenza e dell’informazione diventano risorse strategiche primarie per lo sviluppo della società e prendono il ruolo un tempo svolto dalla risorsa-lavoro e dalla risorsa-capitale: tanto in ambito strettamente economico-produttivo, quanto in quello sociale più in generale. Negli stessi anni, all’immagine tendenzialmente armonica della società dell’informazione delineata da Bell, si affianca quella del sociologo francese Alain Touraine, che mette invece in risalto i nuovi conflitti sociali che la accompagnano, dove la posta in gioco sono la distribuzione e il controllo proprio delle conoscenze e delle informazioni. I poli di questo nuovo conflitto sociale vedono contrapporsi, da un lato, il ceto dei tecnocrati che orbitano intorno agli apparati di governo e della grande impresa; dall’altro lato, una massa eterogenea e frammentata di cittadini comuni.

In tale quadro socio-politico e culturale, ben presto prende profilo un problema critico per la qualità democratica di quella che, parafrasando Popper, potremmo chiamare la “società aperta dell’informazione”. Sintetizzo il nocciolo del problema con un semplice interrogativo: chi controlla o dovrebbe controllare i messaggi, le conoscenze e i loro contenuti informativi e connesse opinioni? Il problema non va rimosso. Men che meno oggi, quando si tende a considerare l’infodemia come una malattia sociale epidemica e si rimarca la necessità di porvi rimedio tramite mobilitazioni dell’opinione di massa e misure regolamentative o legislative dirette contro una varietà di fenomeni e orientamenti culturali che sono visti imperversare nella sfera della comunicazione pubblica o dell’informazione mediatizzata, e che sono solitamente stigmatizzati con etichette quali “anarchismo incontrollato e dannoso” o “libertà a briglie sciolte” nella sfera della comunicazione pubblica o dell’informazione mediatizzata. Detto diversamente, nemmeno la “società aperta dell’informazione” sfugge al pervasivo e storicamente cangiante fenomeno del potere, e ciò nella misura in cui le dinamiche del potere si trasferiscono (in non piccola parte) nel campo del controllo dell’accesso alle reti e in quello della gestione/incanalamento dei flussi informativi.

Negli anni ’70 e fino a circa una decina di anni fa, nella società dell’informazione il problema del controllo e delle barriere riguardanti la libera circolazione dell’informazione era affrontato con senso critico. Ogni idea di  “misure terapeutiche” contro l’eccesso di varietà delle informazioni e che si dicevano essere tese a proteggere la libera circolazione della “buona informazione” ostacolando quella “cattiva”, suscitava reazioni preoccupate: molti intellettuali e ambienti sociali e culturali ritenevano e temevano che provvedimenti del genere sarebbero facilmente sfociati in un dominio sulla società da parte di coloro che disponevano dei mezzi (economici, politici, culturali) per esercitare forme di “controllo terapeutico” della malattia infodemica, ovvero da parte di coloro ai quali venisse delegata una tale funzione. Oggi tale sensibilità critica rispetto al problema del controllo dell’informazione appare non poco appannata: basti solo osservare la posizione tenuta al riguardo dalle forze politiche, dalle istituzioni pubbliche nazionali (governi e parlamenti), dall’Unione Europea, dai grandi organi di stampa e mass media, da intellettuali e accademici, dalla maggioranza (silenziosa o meno) dei cittadini. Nondimeno il problema persiste. Anzi: è divenuto ancora più delicato, tanto che dovrebbe suscitare preoccupazioni ancora più serie. Oggi più di ieri, l’interrogativo “Chi controlla o dovrebbe controllare i contenuti informativi dei messaggi e le opinioni in circolazione nello spazio mediatico?” trascina con sé numerose, diverse e intricate questioni che richiedono costante attenzione. Mi limito a richiamarne sommariamente un paio.

In primo luogo, esercitare forme di controllo e di selezione sulla qualità delle informazioni dette in libera circolazione comporta qualcosa di più profondo di quanto comunemente si pensa: tali forme di controllo e selezione toccano infatti la formazione delle opinioni e dei giudizi, incidono sui comportamenti e sulle scelte del cittadino (che le informazioni contribuiscono a nutrire)[2]. Indipendentemente dalle buone intenzioni con cui si motiva l’obiettivo di espandere i controlli sulle informazioni e sulle connesse opinioni, l’effetto è lesivo delle libertà di pensiero, di opinione e di parola per come tali libertà sono definite e celebrate dalla cultura politica, dalle società e dalle istituzioni che identifichiamo essere di tipo democratico. In secondo luogo, non è affatto cosa semplice e incontroversa, come invece può sembrare, stabilire cosa sia o quale sia l’informazione “spazzatura” o “distorta”. Del resto, sebbene quando si discute di temi quali quelli della società dell’informazione o infodemia spesso non vi si faccia riferimento, né la prima né la seconda questione sono estranee al tema delle (molteplici) facce del potere, della conoscenza e della libertà. Come ben sapevano gli antichi: sapere le cose del mondo è potere sul mondo (potere è sapere), così come lo è “definire il mondo”, ovvero definire cosa è buona o cattiva informazione. È su tali ingombranti e sfuggenti ma essenziali questioni che si gioca il destino della libertà in una società dell’informazione che oggi tende a essere diagnosticata come afflitta da infodemia.

 

  1. Pannello III: Tra infodemia e infopenia

Il passaggio all’informazione digitale è stato un passaggio decisivo per lo sviluppo e il compimento della società dell’informazione. Ha comportato una “rivoluzione silenziosa” (culturale e sociale): un cambiamento tanto importante da essere paragonabile a quello dell’avvento della macchina a stampa, e i cui effetti politici sono tuttora in pieno svolgimento e da decifrare fino in fondo. Nella nostra epoca contrassegnata dall’informazione e dalla circolazione digitale delle opinioni e dei contenuti del sapere, si dice (e non a torto), che è cambiato significativamente tutto il mondo della conoscenza: la diffusione, la qualità, la quantità di conoscenze disponibili, i tipi, le modalità e la consistenza del conoscere. Oggi, la conoscenza, l’informarsi e il farsi un’opinione su un’enorme varietà di campi si caratterizza per una combinazione unica di proprietà mai avutesi prima. Le informazioni, ad esempio, possono viaggiare per il mondo alla velocità della luce; possono essere conservate in spazi piccolissimi senza spesso subire danni irreparabili; possono essere copiate e trasmesse facilmente, con perfetta fedeltà e a costi irrisori; quale che sia la loro natura d’origine (cartacea, video, audio), possono essere trattate ed elaborate da un computer minimamente sofisticato.

Queste proprietà rafforzano l’assimilazione dell’informazione digitale e delle modalità della sua circolazione a un virus che opera nella mente delle persone e dell’intera società: un virus che può diffondersi e arrivare con incredibile velocità pressoché in ogni angolo del mondo e della vita quotidiana, al punto da risultare difficilmente arrestabile. Per gli stessi motivi, le proprietà di internet possono anche trasformare l’informazione digitale in un agente patogeno quanto mai potente e contagioso.

La “patologia dell’informazione” in tempi di infodemia rappresenta, in effetti, l’altra faccia della società dell’informazione. Intanto in quanto con il digitale l’informazione ha visto mutare la sua condizione economica: da bene scarso e perciò prezioso quale era in altre epoche è diventato un bene apparentemente abbondante (persino inflazionato). Una società, quella digitale, dove l’informazione si lascia alle spalle il regno della scarsità e fa ingresso nel regno dell’abbondanza che sarebbe forse apprezzato persino da Platone e dai fervidi paladini dell’Illuminismo radioso disegnato nell’Età dei Lumi. Nondimeno, per altri aspetti, oggi l’abbondanza di informazioni in circolazione pare aver generato una sorta di svalutazione dell’informazione circolante: una perdita del suo valore positivo e una messa in guardia contro la sua libera circolazione. Da qui il carattere paradossale dell’allarme infodemico che revoca l’apprezzamento della libera e abbondante informazione associata alla società dell’informazione digitalizzata.

Sull’immagine aurea e luminosa della società dell’informazione digitalizzata, che qualifica questa come caratterizzata da informazione abbondante, ricca e in libera circolazione, oggi, a ben vedere, esistono (al di là di talune sfumature anche significative) due principali orientamenti critici, che di seguito sintetizzo e stilizzo a grandi linee.

I due orientamenti, pur convergendo nella critica, sono tuttavia espressione di due generali posizioni politico-culturali (ossia ideologie o culture politiche)[3] differenti, persino contrapposte; inoltre, più in specifico, essi identificano motivi apparentemente divergenti quanto alla critica dell’immagine ottimistica della società dell’informazione, motivi che in un caso chiamano in causa l’infodemia e nell’altro quella che chiamo infopenia.

Sul piano generale, ideologico e politico, il primo orientamento si pone a difesa degli assetti politici, ideologico-culturali e socio-economici di tipo neo-liberale, neo-capitalistico e tecno-amministrativo su cui si reggono le “democrazie del nostro tempo”, mentre il secondo sottolinea i profondi difetti di tali assetti e considera le società occidentali al più delle postdemocrazie se non poco più che democrazie di facciata, pseudo-democrazie, para-democrazie ovvero democrazie più di nome che di fatto. Per comodità espositiva etichetto il primo come “orientamento pro-sistema”, vale a dire ispirato nel complesso al mantenimento dei caratteri e degli equilibri del sistema (sociale) esistente; il secondo lo etichetto come “orientamento anti-sistema”, ossia che contesta il sistema (sociale) costituito, auspicando e reclamando il suo superamento o cambiamento a favore di un altro sistema (sociale) che incarni meglio (di fatto e non solo sulla carta) quei valori che associamo alla democrazia liberale, quei valori che sono ritenuti ormai traditi o sfigurati (libertà, eguaglianza, giustizia, pluralismo, legittimità del dissenso, tutela delle minoranze).

Sul piano più specifico, come ho già osservato poco sopra, entrambi gli orientamenti criticano l’immagine originaria della società dell’informazione, benché si contrappongano l’uno all’altro quanto agli argomenti e alle diagnosi riguardanti lo stato dell’informazione nella società di oggi. Semplificando un po’ la modulazione che assumono all’interno di ciascun orientamento, i loro argomenti e le loro diagnosi critiche possono essere così riassunti: il primo orientamento vede nella nostra società dell’informazione digitalizzata un eccesso di informazione che porta alla patologia dell’infodemia; il secondo orientamento vi scorge invece un serio difetto di informazione che porta a una patologia opposta che denomino infopenia.

Il primo orientamento trova espressione nel fatto che in molte sfere della vita collettiva i soggetti “centrali” o egemonici nel sistema esistente (autorità pubbliche, potentati privati, circuiti dell’opinione pubblica e cittadini comuni) lanciano crescenti allarmi contro l’infodemia intesa come patologia e una crescente domanda di una cura della malattia tesa a porre un freno all’abbondanza e alla libera circolazione dell’informazione.

Il secondo orientamento trova espressione nel fatto che in molte sfere della vita collettiva (culturale, economica, politica) le contro-élite e i soggetti “periferici” del sistema esistente criticano o negano che la nostra società dell’informazione digitalizzata sia una società dell’abbondanza di informazioni e della loro libera circolazione. Su queste basi si ritiene e si rileva, piuttosto, che la società dell’informazione non sia affatto degenerata in società dell’infodemia quanto, semmai, in quella che ho sopra chiamato società dell’infopenia, dove il problema non è costituito dall’eccesso (smisurato rispetto al passato) di informazioni e, perciò, dalla necessità di curare con misure regolative e di controllo la sindrome virale infodemica (che non esiste), bensì dall’esiguità e dalla povertà delle informazioni oggi disponibili o in circolazione (la sindrome dell’infopenia, appunto). Considerata con gli occhi di questo secondo orientamento, l’informazione abbondante e in circolazione, di cui tanto si sente parlare, spesso non è altro che pseudo-informazione e pseudo-abbondanza, e perciò, come direbbero gli economisti, la “cattiva moneta caccia via la buona moneta”, producendo una svalutazione della moneta circolante (ovvero dell’informazione circolante).

Entrambi gli orientamenti, insomma, mettono in evidenza due situazioni regressive o scolorite rispetto a quanto è tende a suggerire o promettere l’immagine della società dell’informazione e della conoscenza. Entrambi ritraggono una società dove, per così dire, aleggia o addirittura la fa da padrone, il ritorno del fantasma dell’oscurantismo, o di un neo-oscurantismo.  In entrambi i casi si denuncia un oscurarsi della nostra conoscenza del “mondo delle cose”: ma nel primo caso lo si ritiene causato dalla diffusione e grande disponibilità di informazione, nel secondo caso lo si ritiene causato non già dalla ricchezza o eccesso di informazione bensì dal persistere, di fatto, di una condizione di povertà e difetto di informazione.

A ben considerare, tuttavia, mentre entrambi gli orientamenti nelle loro tesi e nel loro confronto divergono sul tema della quantità dell’informazione, il problema che invero sollevano è quello della qualità dell’informazione. I due orientamenti tendono inoltre a contrapporsi nell’individuazione dei soggetti, degli attori, dei luoghi ritenuti responsabili della cattiva qualità dell’informazione in circolazione; e quindi tendono altresì a divergere riguardo alla natura delle misure necessarie o utili per affrontare il problema e cercare di porvi rimedio.  Qui, en passant, mi limito a marcare il fatto che, in tema di cattiva qualità e povertà dell’informazione in circolazione, il secondo orientamento, a differenza del primo, attribuisce grande responsabilità (anche, se non soprattutto) alle istituzioni politiche (nazionali, internazionali e sovranazionali), ai grandi e accreditati organi di informazione e di comunicazione, alla grande industria dei mass media (tradizionali e digitali), per via del fatto che questi dispongono di ingenti e potenti risorse[4]. Questa rete di soggetti è considerata responsabile primaria del fatto che ciò viene comunemente chiamata informazione si dissolve spesso in una serie ripetitiva e ridondante di messaggi ad effetto, slogan, sollecitazioni emotive, “scatole informative” prive o povere di contenuto effettivamente informativo. Quella che per il secondo orientamento è vera e propria informazione si perde o si mescola in un mare di rumors che non aggiungono davvero informazioni e conoscenze sulle “cose del mondo”, ma piuttosto confondono, sottraggono o manipolano le informazioni su “come stanno le cose del mondo”. E tuttavia è bene notare che è proprio di questa pseudo-informazione che spesso si nutrono coloro che si informano (i così detti “cittadini informati”, persino “bene informati”, l’opinione pubblica istruita e colta). In una società dell’informazione così ritratta, riassumendo le conclusioni a cui perviene il secondo orientamento, l’informazione degna di questo nome, “se c’è, è difficile da trovare, se non introvabile”.

 

  1. Pannello IV: L’informazione digitale: una rivoluzione epocale in chiaroscuro

Se osserviamo oggi la società dell’informazione tenendo conto dei due orientamenti critici sopra tratteggiati, quale che sia in giudizio di valore di ciascuno sulle loro rispettive tesi, possiamo fare emergere fenomeni rilevanti che tendono a sfuggire all’attenzione dei più. Mi riferisco, in particolare, a un complesso di tendenze, atteggiamenti e comportamenti da parte di una consistente parte di persone (spesso giovani e/o con elevate credenziali educative, ma non solo queste): tendenze, atteggiamenti e comportamenti che segnalano una certa perdita di interesse (addirittura di desiderio) a informarsi o a fare i conti con il problema della qualità dell’informazione. Per un verso, troviamo chi è frustrato dalla povertà dell’informazione in circolazione (che incarna il fenomeno dell’exit informativo, ovvero dell’abbandono delle pratiche informative); per l’altro, chi è incline a lasciarsi cullare dall’assuefazione o anestetizzazione delle informazioni circolanti (che incarna il fenomeno del conformismo informativo, ovvero della routinizzazione delle pratiche informative). Per meglio cogliere e approfondire il senso di questi fenomeni odierni è necessario tornare brevemente a volgere lo sguardo all’informazione digitalizzata.

Lo stesso tema dell’infodemia si inscrive in questo articolato scenario e cela un problema cruciale che si riferisce soprattutto alla qualità (prima ancora che alla quantità) delle informazioni che circolano nella società dell’informazione digitalizzata.

La rivoluzione digitale ha mutato profondamente i modi in cui raccogliamo informazioni sul mondo, la quantità e qualità delle informazioni disponibili e circolanti nella società. Ma non è tutto. Nella società dell’informazione digitale si è avuto anche un cambiamento nel modo e nella possibilità di manomettere e alterare le informazioni che noi stessi o altri raccolgono e mettono in circolazione. Dato che, diversamente da quanto diamo per scontato (taken for granted), informazione, conoscenza, valutazione, opinione e giudizio sono fortemente intrecciati tra loro, è bene non sottovalutare la profonda e complessa portata dell’informazione digitale e la questione della sua qualità. È per questo che, non a caso, il tema dell’infodemia veicola anche (e soprattutto), lo ripeto, la questione della qualità delle informazioni: una questione ben più complicata e delicata di quella della quantità. Infatti, quando si parla di “pandemia informativa”, è opportuno sottolineare che non ci si riferisce alla circolazione contagiosa di un virus qualunque, “innocuo” o di per sé non dannoso, bensì a un virus patogeno e assai nocivo che lavora ad ampio raggio lungo tutto il processo della conoscenza, su tutti i meccanismi di quella “macchina” individuale e collettiva che porta le persone e la società a “sapere le cose del mondo”. Non dobbiamo infatti dimenticare che, come chiarito con la definizione formulata in apertura, “informazione” deriva dal latino: dal sostantivo informatio e dal verbo informare, il quale significa “dare forma (alla mente)”, “mettere in ordine”, “disciplinare”, “istruire”, “insegnare”. L’informazione, cioè, è qualcosa che riguarda (tiene insieme) l’intero processo conoscitivo e tutti i meccanismi che ci portano a “sapere le cose del mondo”. I meccanismi che entrano qui in gioco sono molti, diversi e sebbene siano analiticamente distinguibili, a livello empirico restano tuttavia fluidi e sfumano l’uno nell’altro: sono tanto le descrizioni del come stanno le cose del mondo quanto le spiegazioni del perché esse stiano in un modo o nell’altro, tanto le valutazioni tecniche quanto i giudizi politici e morali sulle cose del mondo e sulla preferibilità di alcune cose e non altre. Da tutto questo possiamo intuitivamente cogliere la delicatezza e la complessità sia della questione della manipolazione dell’informazione, sia della questione dello scadimento della sua qualità. La rilevanza del tema dell’infodemia e dei rimedi da opporvi fa leva su tutto questo.

Manipolare in modo sistematico le informazioni, metterle rapidamente in circolazione su larga scala, fino a dare forma su larga scala a una “realtà alternativa” conforme alla manomissione informativa, è storicamente stata un’operazione che richiedeva risorse imponenti, grandi apparati organizzativi, complesse e sofisticate tecnologie, il controllo assoluto dei media e delle informazioni consumate dalle persone. Era, insomma, un’impresa di cui solo uno Stato con finalità e poteri “totalitari” poteva disporre: basti pensare alla potente, minuziosa e capillare organizzazione di quella società dell’informazione che George Orwell ha romanzato in 1984. Ebbene, grazie allo sviluppo e alla diffusione delle tecnologie informatico-comunicative, oggi un’impresa del genere, anche se in effetti non a portata di chiunque, è tuttavia almeno in linea di principio realizzabile (in una qualche misura) anche solo da una piccola organizzazione o da persone attrezzate e interessate a farlo.

L’allargamento delle possibilità di manipolazione dell’informazione produce un duplice esito. Da un lato, l’esito è quello di dare vita a una costruzione di “realtà multiple” e “realtà parallele”, a una sorta di “pluri-verso”, di sub-universi che premono sull’“uni-verso”. Dall’altro lato, l’esito è che nella nostra società dell’informazione digitalizzata (inclusa l’Intelligenza Artificiale) infuria una guerra (più o meno silenziosa) la cui posta in gioco (per un accresciuto numero di soggetti) è niente meno che la possibilità di definire “quale è” e “come è” la realtà, ovvero la possibilità di plasmare le identità e le relazioni sociali, nonché i comportamenti di ciascuno, la possibilità di manipolare e influenzare in profondità (in una direzione o l’altra) le credenze e l’agire dei membri di intere società. Sotto questo profilo, non è esagerato osservare che la società dell’informazione è attraversata e permeata da una “guerra dell’informazione” in cui le armi sono le informazioni e il controllo delle informazioni.

I conflitti intorno alle informazioni vedono protagonisti alcuni Golia (Stati, organizzazioni internazionali, grandi corporations economiche e mediatiche), ma anche miriadi di più o meno piccoli Davide (inclusi singoli cittadini). A quest’ultimo riguardo, pensiamo al fenomeno dei “blogger” (o anche più di recente degli “influencer”): ossia, quell’utente di Internet che tramite il suo sito web introduce nella rete e fa circolare informazioni, ma anche opinioni e idee, “fatti” e “voci” più o meno ponderati. È stato calcolato, ad esempio, che già una quindicina di anni fa 12 milioni di americani avevano aperto un blog (ancora di più in Giappone). Ben presto, in tutto il mondo, giornali ed emittenti radiotelevisive hanno preso l’abitudine di citare regolarmente, per un motivo o l’altro, i blog. Esistono, naturalmente, blogger “ortodossi” e blogger “eterodossi”. Tanto i primi quanto i secondi ritengono di essere o sono considerati talora dei citizens journalists. Ma quelli più eterodossi, i così detti operatori di controinformazione o di alter-informazione, non di rado sono stigmatizzati (dalla cultura e dall’opinione pubblica dominanti) come complottisti, diffusori di fake news, propagandisti o “manipolatori e falsificatori delle realtà”, ecc. Ciò detto, va tenuto presente che :1) oggi, forse più ancora che in passato, è fuorviante parlare di opinione pubblica al singolare, ed è più appropriato parlare dell’esistenza di “opinioni pubbliche”, al plurale; 2) l’odierna esistenza di molti Davide dell’informazione non deve indurre a ritenere che siano venute meno le diseguaglianze delle risorse e le dissimmetrie di potere tra i Davide e i Golia dell’informazione, né a immaginare che essi si fronteggino con pari possibilità di successo.

 

  1. Pannello V: Vade retro infodemia? Il bambino e l’acqua sporca[5]

Nella nostra epoca non sono mancati profeti e laudatori della società dell’informazione. L’hanno salutata e persino esaltata come l’avvento di un “mondo nuovo” e senza precedenti per l’umanità. Come un mondo di ricchezza quanto a libertà, informazioni e conoscenze, quanto a pluralismo, quanto ad autonomia e crescita della persona umana, quanto ad auto-espressione dell’identità umana e civile che riposa dentro ciascuno. Di fronte a questo inedito Rinascimento tecnoumano si sottolinea, ad esempio, come un tempo eravamo chiusi e “presi in ostaggio” nel villaggio in cui si nasceva o si viveva; che in seguito siamo stati dipendenti dalla rete telefonica o dalla distribuzione territoriale dei giornali, dalla disponibilità di una biblioteca o di una libreria; e che oggi, invece, siamo (per lo più) interconnessi in maniera tale da poter facilmente comunicare e scambiare conoscenze con una quantità virtualmente enorme di persone e sulla base di una varietà di fonti informative. Il mondo, in effetti, pare essere diventato più piccolo e più a portata di mano. Riflettiamo un momento su questa immagine del mondo associata alla società dell’informazione. E cerchiamo di farlo senza scivolare in facili o edificanti retoriche.

Mettiamola così. È innegabile quanto nel nostro “mondo nuovo” l’informazione digitale rappresenti uno strumento straordinariamente potente, cioè uno strumento dotato di un grande e pervasivo potere. Ciò riconosciuto, tuttavia, nemmeno ai profeti e laudatori del nostro “Rinascimento digitale” sfugge (o dovrebbe sfuggire) il fatto che degli strumenti o mezzi informatico-digitali e del “potere-informazione” è possibile fare (come accade per ogni strumento/potere in ogni epoca) usi differenti, anche estremamente diversi tra loro, perseguendo finalità tanto discrepanti tra loro da risultare magari inaccettabili o intollerabili ora a una parte della società, ora all’altra. Stiamo toccando una questione sfaccettata e di grande rilievo, che articoliamo a grandi linee nei seguenti principali punti: 1) il tema del “cattivo uso” dell’informazione, degli strumenti e del potere informatico-digitali, sollevato dall’allarme sull’infodemia che compromette la qualità delle informazioni; 2) il tema dell’uso “partigiano” (cioè di parte) dell’informazione, del potere e dei mezzi di informazione, della loro strumentalizzazione rispetto ai fini apprezzati, desiderati e perseguiti dai diversi soggetti che si muovono nel campo delle culture politiche[6] a cui si ispirano; 3) il tema della “libera e abbondante informazione” che tali strumenti e potere consentono di fare circolare nella beneamata società dell’informazione. Per lo più si è soliti affrontare tale triplice tema portando l’accento sul fatto che, immersi come siamo in questo mondo-informazione, dopotutto, non si tratta che di imparare a individuare, neutralizzare e debellare quella “cattiva informazione” che arriva a manipolare le nostre idee, le nostre valutazioni delle cose e di conseguenza le nostre scelte e i nostri comportamenti, che di informazioni si nutrono (anche attraverso fake news, manomissioni, deformazioni, ecc.). Ma attenzione: trattare il tema dell’informazione in questa chiave significa semplicemente eludere lo spinoso problema che si annida al suo interno, oppure cercare di risolverlo “a valle”, mentre esso si colloca “a monte” (e dove, perciò, resterebbe intoccato).

 

  1. Pannello VI: Imparare a riconoscere le “buone informazioni”. Un’odissea

La questione in ultimo evidenziata presenta numerosi profili, che provo a richiamare dando conto di alcune salienti tappe di quella sorta di avventura “alla ricerca della buona informazione”.

1) Ciascuno di noi, nella gran parte delle circostanze della vita, in un qualche modo, per un motivo o l’altro si trova a muoversi o a orientarsi in settori di cui è privo di quelle conoscenze o del padroneggiamento di conoscenze che potrebbero permettergli di distinguere le informazioni buone e valide da quelle cattive o false che circolano in un dato settore: in fondo, nessuno è onnisciente”

2) Per chiarirci le idee, allora, tipicamente ci rivolgiamo agli esperti di settore: ma già questo passo, a ben considerare, comporta che per arrivare a comprendere come stanno le cose su una certa faccenda, di fatto, rinunciamo a quella che riteniamo la nostra autonomia di giudizio o la nostra individuale libertà (libero arbitrio o indipendenza di pensiero), fino al punto che per orientarci nel mondo, più che su noi stessi, facciamo riferimento a un’autorità “altra”.

3) Nel momento in cui chiediamo lumi (informazioni) all’autorità di chi è competente in materia, ci rendiamo conto che, invero, su ogni dato argomento ci troviamo a confrontarci non con un’autorità unica o univoca, bensì con l’esistenza di autorità molteplici, diverse e che ci danno risposte anche molto differenti tra loro.

4) Così, quando entra in scena la “scienza in persona” (i suoi operatori, gli esperti, i competenti titolati) ci rendiamo ben presto conto di una cosa di cui in effetti abbiamo già avuto modo di avere vivida esperienza nella vita quotidiana, senza aver bisogno di apprenderla dai libri di epistemologia o di scienza, ad esempio quando siamo coinvolti nei circuiti diagnostici o terapeutici su una malattia: ci rendiamo conto del fatto che la scienza (nel nostro esempio quella medica) è essa stessa divisa su questioni cruciali (quali quelle riguardanti le analisi, le diagnostiche, le terapie sullo stato di salute, sulla salvaguardia della vita o nell’evitare la morte). E così, dopo essere passati da un luminare all’altro, dopo esserci rivolti alle cliniche o agli ospedali meglio attrezzati e specializzati nel settore che ci interessa, non di rado arriviamo a sfiorare con mano quella che è una difficile sfida per la mentalità e per l’educazione scientifiche correnti: una sfida che disorienta e spaventa nella misura in cui  la scienza, con tutta la sua potenza, diversamente da quanto tendiamo a pensare, non è il regno delle certezze o dell’“oggettività”, ma è invece essa stessa plurima, divisa, “strutturalmente limitata”.

5) In un quadro del genere, per il profano è un’impresa molto difficile, ed esposta a controversie i cui contenuti per lo più gli sfuggono, stabilire quale autorità scientifica sia attendibile e quale inattendibile; in altre parole, dare ascolto a un certo esperto o a un altro, a un luminare o all’altro, è essenzialmente una questione di fiducia.

Morale della favola: in generale, per chi si informa e cerca di scegliere tra le informazioni e le conoscenze provenienti persino da fonti dotate di autorità pubblicamente riconosciuta si tratta di fare affidamento sull’una o sull’altra autorità competente. Insomma, la questione che “a valle” viene trattata in termini di “cattiva” informazione o qualità della conoscenza, “a monte” rivela l’esistenza di un problema relativo alla mancata univocità/oggettività della conoscenza, inclusa quella scientifica e fornita dalle autorità epistemiche e dalle comunità di esperti, ossia proprio quelle autorità e comunità preposte a definire, vagliare, tutelare e diffondere la buona conoscenza non meno che le buone informazioni.

Tenendo presente le considerazioni fin qui fatte, possiamo fermare un paio di punti.

Primo. Nell’abbondante e varia messe di informazioni a cui ciascuno può (più o meno) accedere, spesso non è faccenda semplice, come parrebbe, stabilire quali informazioni siano degne di credito e quali invece no. Lo sforzo di distinguere le une dalle altre implica (come si è richiamato poco sopra) un articolato processo costellato di opacità, di incertezze e di molteplici meccanismi di selezione e di fattori di convalidazione delle informazioni e delle conoscenze: meccanismi e fattori dei quali non si ha sempre nemmeno adeguata consapevolezza.

Secondo. L’informazione digitale rende più facile accedere a informazioni, autorità o tecniche (relative a un settore o l’altro) non ufficialmente riconosciute. Di conseguenza diventa ancora più difficile l’intero processo informativo, poiché ci si trova a giostrarsi tra opzioni alternative a cui si ha accesso ma di cui non si è in grado di stabilire la “veridicità”, la “consistenza” o la “solidità”.

 

  1. Pannello VII: Attenti con l’imperativo retorico del “curare l’infodemia”: il caso delle “spinte gentili”. Excursus su libertà e democrazia

 La tradizione “liberale” della democrazia, oggi di gran moda nella cultura dominante e difesa a spada tratta nel mondo occidentale, sostiene, come fissato da John Stuart Mill, che il miglior giudice degli interessi e del benessere di un individuo è l’individuo stesso, se egli non soffre di condizioni di “minorità”[7]. Le scienze del comportamento, evidenziando che gli esseri umani prendono decisioni spesso deleterie anche per se stessi, di fatto allargano e “normalizzano” lo status di “minorità” del cittadino delle società di massa.

Orientarsi nella vita e nelle scelte giuste esercitando la propria libertà di scelta, dicono i teorici delle “spinte gentili” (nudges), si rivela essere spesso cosa frustrante, faticosa e che espone se stessi o gli altri a pericoli: vuoi per la mancanza di informazioni adeguate, vuoi a causa di inganni, manipolazioni o errori di valutazione, si sbaglia strada.

Ma cosa sono le “spinte gentili”? Si tratta di una tecnica che mira a persuadere le persone e a orientare le loro scelte, talora gravose o gravide di conseguenze importanti per il singolo e per la collettività. Tale tecnica nata da una teoria al crocevia tra scienze del comportamento ed economia, scienze cognitive e della comunicazione, diritto, scienze sociali e filosofia politica. Il concetto di nudge è stato reso noto da Richard Thaler e Cass Sunstein[8]. La “spinta gentile” che qui interessa è quella accreditata da autorità riconosciute, siano esse istituzioni politiche oppure organizzazioni private, le quali operano all’insegna della competenza e grazie alla macchina tecno-scientifica. Dopotutto, osservano gli “spingitori gentili”, l’individuo compie le proprie scelte all’interno di contesti comunque già dati e predefiniti: e l’ambiente condiziona sempre le scelte. Insomma, le nostre scelte avvengono all’interno di una “architettura delle scelte” e sono soggette a questa. L’“architettura delle scelte” non fa molti sconti alla libertà: possiamo insistere all’infinito sulla libertà di scelta, ma non possiamo tirarci fuori dall’architettura che avvolge e definisce le nostre scelte. Nel campo dei consumi, per esempio, è sempre all’opera una struttura (che sia la vetrina del negozio o una pagina online) dove alcuni articoli vengono visti prima, altri per ultimi e altri ancora restano defilati, non visti o non presenti. Ma è la stessa società nel suo complesso a essere ordinata secondo una struttura analoga a una vetrina, e per di più assai più sottile, pervasiva e insinuante. Neppure le scelte politiche (in senso lato) o quelle economiche o del lavoro, quelle valoriali, esistenziali o nella sfera della socialità sfuggono alla trama di “primi piani” e “sfondi”, di colori, accenti, accostamenti, luci e angolature, sussulti emotivi, distrazioni, suggestioni o “magie” che ora attraggono o respingono, ora confondono l’individuo alle prese con le sue scelte. Ma le “vetrine”, come sappiamo, non cadono dal cielo, e infatti ormai esistono sofisticati “architetti della scelta”, i “progettisti dell’ambiente sociale”: ad affermarlo e riconoscerlo sono autorevoli accademici, esperti, studiosi e scienziati, inclusa una varietà di personalità della cultura progressista, non persone più o meno ignoranti o disturbate, maniaci di dietrologie, complottisti e “negazionisti” di ogni risma.

Tutto questo vale anche a proposito delle scelte informative e per il complesso processo conoscitivo che vi è sotteso: scelte informative e processo conoscitivo che stanno alla base di ogni particolare scelta che facciamo in qualsivoglia ambito. Secondo Thaler e Sunstein, gli “architetti della scelta”, meglio se legittimati e regolati dalle istituzioni democratiche, possono aiutare le persone nelle loro libere scelte fornendo informazioni, valutazioni, pareri, suggerimenti che rimediano a tutti  quei pregiudizi, manipolazioni, suggestioni fuorvianti, difetti di conoscenza e fattori accidentali che inducono non di rado a compiere scelte sbagliate: tali architetti, “gentilmente”, spingono verso una scelta anziché l’altra, verso quella che essi ritengono sia la scelta “razionale” e “giusta” per il benessere dei singoli individui e quindi della collettività, se solo le persone e la società nell’insieme accettano le “gentilezze” e ne fanno tesoro.

La libertà di scelta è cosa di cui avere molta cura, ammettono gli sponsor del nudge, ma (aggiungono, da esperti quali sono) non basta. E spiegano: fortunatamente, oggi le tecnostrutture sociali e comunicative permettono di predisporre programmi di intervento per migliorare la “navigabilità” della vita e della società, e per trovare la scelta giusta; i nudges funzionano come “mappe segnaletiche” che portano ciascuno alla destinazione che desidera. Ma la destinazione preferita da ciascuno non è che un prodotto essa stessa della “spinta gentile”: che piaccia o no, è questa che “costruisce la preferenza”. Tuttavia gli individui sono in fondo felici della spinta ricevuta e riconoscenti agli “spingitori”. Così Thaler e Sunstein.

Prendiamo atto del fatto che le “spinte gentili” sono nel mondo: attivate, con particolare incidenza, dai mercati, da grandi aziende, media e pubblicitari, da lobby e da esperti (consulenti finanziari, immobiliari, di coppia, medici, ecc.). E plasmano anche le informazioni che circolano nel mondo. Le “spinte gentili” sono attivate dagli stessi governi e dalle istituzioni pubbliche che, dicono Thaler e Sunstein, possiedono i requisiti democratici (consenso, trasparenza, rappresentanza, confronto pubblico ecc.), oltre che avvalersi di comitati tecnico-scientifici, e che pertanto esercitano “spinte” forse preferibili e più rassicuranti. Allora perché non aprire le porte alle “spinte gentili”, ai loro protagonisti e operatori? Già, perché no? Basta che verifichiamo le loro credenziali, e via. Dubbio: ma i cittadini di cui dicono i teorici del nudge hanno forse, a questo punto, magicamente acquisito la capacita di scegliere bene per quale “spinta gentile” o “architetto dell’ambiente” optare? O si dovranno rivolgere, anche per questo caso di scelta, agli “architetti della scelte e delle spinte gentili”?

Mettiamo pure da parte i dettagli della tecnica del nudge e le contraddizioni in cui cadono i suoi teorizzatori. Qui, a questo punto, preme trarre spunto dalla teoria per riflettere sulla “democrazia oggi” e su qualche aspetto delle sue attuali trasformazioni. La filosofia e la tecnica dei nudges sono un sintomo e un indicatore di come in effetti funziona oggi una società detta democratica. Oggi le “spinte gentili” spingono (gentilmente) verso un modo di vedere e di valutare la democrazia stessa in base a cui la sua giustificazione e legittimazione non è più misurata con il metro degli ideali (ossia il metro di “ cosa e come dovrebbe essere una democrazia per essere considerata tale”), ma piuttosto in base al modo in cui la democrazia funziona nella realtà: se per l’idealismo hegeliano “l’ideale è il reale”, ora con ben minore robustezza teoretica, si afferma che “è il reale a essere l’ideale”. C’è qualcosa di preoccupante in questa nuova tendenza? Sì. Questo scambio di funzione tra la dimensione ideale e la dimensione reale segna una chiusura degli orizzonti che ha il sapore di un neo-totalitarismo “dolce” in cui il potere strutturale, anziché esercitarsi tramite violenza e repressione dirette o censura esplicita, si esercita attraverso “spinte gentili” e “architettura delle scelte” che avviluppano il cittadino in una visione del mondo “a senso unico” che stride con l’idea della libertà democratica.

E qui il “navigato” Panglos, con il suo “viviamo nel migliore dei mondi possibili”, silenzia Candide. Oggi un Candide, invecchiato, getta la spugna. Qui, non altrove, sta il disagio profondo che dovrebbe inquietare le nostre società. A dispetto di quanto propagato dalle narrazioni dominanti.

La democrazia è qualcosa di enigmatico, persino di confuso: porta un “nome” che non cambia da secoli. Ma la “cosa” democrazia, a guardarla nella sua vicenda storica, è sempre diversa. La democrazia è una “cosa” polimorfica, che si trasforma nel tempo, mantenendo il medesimo nome. In fondo, verrebbe da dire, la democrazia è “cosa” indeterminata. Tanto che persino uno dei suoi valori fondanti, l’eguaglianza nella libertà e nell’autodeterminazione personale, ora è diventato un problema, non solo per gli altri o per la collettività, ma per se stessi. Sulla scorta dell’elogio della “spinta gentile” sembra che il cittadino chieda sempre più il supporto “amichevole” e paternalistico di chi lo governa e dei suoi esperti in progettazione di ambiente sociale e di architettura delle scelte. Forse è proprio così. Anni fa l’economista Fitoussi parlò, a proposito dell’Ue, di “dittatore benevolo”: quasi l’erede dei quel despota illuminato caro a Voltaire. Il tema della società dell’informazione digitalizzata e della conoscenza, dell’infodemia (e dell’infopenia), a ben vedere, hanno molto a che fare con tutto questo. Sarebbe ora di tornare a meditare sui nomi e sulle cose.

Epilogo. Sacrificare la libertà di pensiero?

Il problema è aperto e non risolto.

Se l’allargamento “indiscriminato” del “campo informativo” ci rende maggiormente soggetti a disorientamento e incertezza, il problema della “qualità” dell’informazione sollevato dal tema infodemia e della cura dell’infodemia si impone all’ordine del giorno. Stando al punto di vista della cultura dominante sembrerebbe quasi che l’allarme dell’infodemia voglia mettere in guardia dal fatto che stiamo passando da un oscurantismo associato a ignoranza e a difetto di informazioni a un oscurantismo dovuto a conoscenza e a grande disponibilità di informazione. Una parabola che, vista così, avrebbe del paradossale. La cura proposta, mirante a “controllare” l’informazione rallentandone e ostacolandone la circolazione, mette tuttavia a rischio direttamente (ad esempio tramite censura) e indirettamente (ad esempio tramite “spinte gentili”) la stessa libertà di pensiero e, con essa, la nostra capacità di giudizio. È un sacrificio che siamo pronti a correre?

Chi pensa che questo sia un sacrificio necessario è davvero pronto a fare questo sacrificio in prima persona, e quindi rinunciare alla propria libera convinzione secondo cui tale libertà di pensiero va limitata?

NOTE

[1] Vedi paragrafo seguente.

[2] A questo proposito nel paragrafo 6 dirò qualcosa anche sulle tecniche delle “spinte gentili” (nudges).

[3] Utilizzo il concetto di ideologia in senso tecnico-neutrale, ovvero come Weltanschauung (visione del mondo) secondo la tradizione di pensiero alimentata, in particolare, dai sociologi tedeschi Max Weber e Karl Mannheim.

[4] Faccio riferimento a risorse quali: capitale economico-finanziario, capitale sociale, capitale culturale, capitale politico di autorità e di legittimità, capitale infrastrutturale (tecnologico e organizzativo) e “capitale umano” nel senso tipicamente inteso dalla scuola economica di Chicago.

[5] Gettare via il bambino con l’acqua sporca: si dice di chi, con azioni e modi avventati o distratti, rischia di perdere qualcosa di fondamentale e prezioso.

[6] Il lettore non si lasci ingannare dal concetto di cultura politica: questo non include solo la sfera della cultura nel senso comunemente inteso, bensì anche quella del potere (ovvero la forza) e degli stessi interessi economici. In proposito rimando a G. Nevola, Lo studio della cultura politica, in “Quaderni di Scienza Politica”, 2, 2017.

[7] J. Stuart Mill, On Liberty (1859).

[8] R. Thaler, C. Sunstein, Nudge: Improving Decisions about Health, Wealth, and Happiness, Yale University Press, New Haven, 2008.

Ringrazio Gilda Fusco con la quale ho avuto modo di discutere (animosamente) una precedente versione di questo contributo e che mi ha indotto a correggere o rivedere alcuni passaggi poco chiari o che talora andavano fuori strada. Resta sulle mie spalle la responsabilità per le idee e il libero pensiero che qui mi è riuscito di esprimere. Ma anche dei loro limiti.


(Pubblicato su questo sito il 28 giugno 2023 – Uscito in due parti e con altro titolo su “Ars Scriven”, il 22 e il 27 giugno 2023)

One Reply to “L’informazione non è solo ‘informazione’. Polittico su infodemia, infopenia, potere e libertà nella società dell’informazione”

  1. Il tema è trattato con una chiarezza “didattica” accattivante e problematica. Molto convincenti le esplicazioni su infodemia e infopenia informativa.
    L’informazione è nel sistema del mercato e questo la vincola alle sue regole. La democrazia e il suo contrario , a loro volta, sono esse stesse in questo ingranaggio. Non vi è democrazia che non obbedisca ad interessi precisi. Così dicasi delle autocrazie.
    Illusorio pensare all’efficacia della controinformazione che ha due strade : restare un “faro” a rischio su un promontorio isolato, costeggiato da qualche barca fuori rotta e accontentarsi di fare luce a pochi ( chi ha interesse a capire ciò che veramente succede dietro le quinte del teatro del mondo ? ) oppure finire per essere comprata. Il caso Assange ( la cui moglie è stata ricevuta proprio ieri dal papa) è significativo. Di contro, proprio in questi giorni, un famoso giornalista , definito ancora indipendente sui canali ufficiali controllati dai giganti del web, è stato ” smascherato” in quanto manipolatore per conto del “nemico”, nella fattispecie gli Stati Uniti.
    Molto interessante il pannello sulle spinte gentili che nell’epoca dell’intelligenza artificiale , ritengo, saranno superflue. Per il momento funzionano con i vari esperti pagati per indirizzare benevolmente le tendenze dei consumatori ( noi , al di là dell’essere un insieme di opinioni. siamo fondamentalmente unità di consumo) e persuaderli alla narrazioni dominanti. Il Mercato condiziona le governance Insieme pianificano agende , apparentemente, senza fretta, certi di raccoglierne i frutti. L’informazione ? No problem. Ovunque è sotto il controllo di chi comanda. Mi scuso per la banalità e la semplificazione.

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