La nostra ricca e civile società, gli inclusi e gli esclusi

La nostra ricca e civile società, gli inclusi e gli esclusi.

Dove chi non serve o perde è da scartare

I

Personaggi che si addensano nella modernità della società del progresso, opulenta e civile. In una società liberale che ha messo al centro l’individuo e il suo legittimo utilitarismo degli interessi, affidandoli alla magica “mano invisibile” del mercato (che se poi tanto invisibile non è, pazienza). Una società globalizzata eppure frammentata. Ma non vivono lo scintillio dei rotocalchi, degli spot pubblicitari o della tv, l’iper-attivismo patinato e climbing delle professioni post-industriali, le colline splendidamente fotografate per i turisti fichi, le grazie dei cibi biologi, i salotti che paiono disegnati per essere immortalati in un museo. Sono l’ombra di un fantasma che s’aggira nei quartieri o nelle teste, o che vi si intrufola. Ma sono anche persone in carne, ossa e sentimenti, che vagano o “freneticano” quasi invisibili in molti paesaggi della nostra vita, paesaggi che incrociano, più o meno distrattamente, lo sguardo quotidiano oppure occasionale di chi li attraversa e chissà dove diretto.

A le volte, queste persone le incrociamo dritti con gli occhi, o messi in scena sui giornali, in TV, su internet; qualche volta nella nostra coscienza. Sono i poveri di vita o i privati della vita, intendo della decenza del vivere o della vita dignitosa: ora sono le vittime di catastrofi ambientali o di tragedie umanitarie, ora sono barboni, tossicodipendenti e prostitute male in arnese, ora persone afflitte da depressione acuta o sofferenti psichici, ora deboli vittime della criminalità organizzata o sbaragliate da una sopravvivenza delinquente. Altre volte sono gli immigrati a vario titolo irregolari o migranti economici, profughi di guerra, fatti merce di commercio e di sventure nel Mediterraneo o nei trasbordi da una parte all’altra del mondo. A volte sono i disoccupati, i sotto-occupati involontari, i lavoratori a basso costo o “flessibili”, con contratti di tre o sei mesi, ventenni e magari non più solo ventenni ma anche cinquantenni, che neppur più s’aspettano un lavoro fisso o con cui mettere in carreggiata una vita o una famiglia, e spesso accettano paghe da fame o riduzioni salariali pur di poter lavorare e dare un senso alla loro vita e un presente se non un futuro ai figli; oppure accettano condizioni di lavoro tanto sregolate da svuotare la vita – e che per di più alla fine la scambiano con l’ultimo smartphone.

Gli esempi potrebbero non finire. Sia il lettore a dare contorni più nitidi alle categorie più o meno azzeccate o troppo stilizzate che ho richiamata. Sia il lettore, se ne ha voglia o capacità, a meditare su questi personaggi che non sono senza autore, ma che non riescono nemmeno a essere personaggi in cerca di autore. Su questa gente e su queste vite.

II

Il filosofo sociale Bauman le ha definite «vite di scarto»: vite che la nostra società, oggi ancora oggi come in passato, continua a sprecare. Rifiuti da smaltire, perché non servono. Queste donne, questi uomini e i loro bambini non patiscono solo difficili condizioni materiali: sono loro preclusi sogni e progetti, restano senza punti di riferimento, senza fiducia in se stessi. Fino ad essere spogliati del “sentirsi utili”, dell’autostima e della dignità. Anime piene di crepe.

La nostra società pare girare su un doppio perno: produttori e consumatori. Le vite di scarto sono i suoi “rifiuti umani”: individui che non si adattano o non sono adattabili all’ordine sociale imperante e ai suoi valori. Da un lato, simili individui non sono utilmente impiegabili nella società dei produttori, perché questa richiede soprattutto tipi di beni che essa può ben produrre senza il loro contributo, e perciò il loro contributo sarebbe del tutto dis-economico, non redditizio. Dall’altro lato, tali individui sono “consumatori difettosi” per la società dei consumatori, perché privi del denaro sufficiente per accrescere il mercato dei consumi e, per di più, portatori di domande a cui l’industria del consumo non è davvero interessata, se non a condizione di “colonizzare” tali bisogni per far profitti. Così il nostro mondo è popolato, da un lato, dallo sciame irrequieto di tutti noi occupati (o impegnati a costruir carriere) e consumatori sempre a caccia di nuovi beni da esibire come status symbol o come vettori surrogatori di benessere, a volte barattando come merci di scambio pure moralità, affetti, tempo libero. Dall’altro lato, ci sono “loro”: i marginali, gli esclusi, gli acquartierati nelle discariche della vita. E però i confini tra “noi” e “loro” non sono sempre così netti, impermeabili. Le cronache di tutti i giorni o le nostre esperienze ravvicinate ci dicono che esiste e si sta estendendo una zona sociale incerta, una condizione liminare. Da qui ansie e preoccupazioni di molti: sul domani, sui figli o nipoti, sui nostri cari, sugli amici, o su chissà chi ci viene in mente. Anche su noi stessi. Dicono che sia la legge della meritocrazia. Ma davvero? E poi: quale meritocrazia? Ma qui lasciamo perdere questa questione spinosa ed ambigua, che spesso fraudolenta è solo un mito fraudolento con cui si abusa della coscienza morale degli umani.

Per Bauman il «fantasma delle vite di scarto» dà sembianza alle conseguenze della globalizzazione sulle persone. Per il filosofo americano Rorty, però, dietro questa fenomenologia pesa una trasformazione politica e dei luoghi del potere, che ha dei responsabili. Da tempo, la situazione di vita dei cittadini di un qualunque Paese non è più sotto il controllo delle leggi degli Stati, come apparentemente sembra. Ad esempio, osserva Rorty, «Le leggi del Brasile o degli Stati Uniti non possono imporre che il denaro guadagnato nel Paese sia speso nel Paese, o che il denaro risparmiato lì sia investito lì. Adesso abbiamo una super-classe globale che prende tutte le grandi decisioni economiche», e le prende piegando ai suoi interessi e alla sua visione della società tanto le legislazioni nazionali, e questo con buona complicità dei palazzi di Bruxelles (leggi: Unione europea), quanto a fortiori la volontà degli elettori.

È un modo di porre il problema, quello esemplificato con Rorty, a cui dovremmo dedicare pazienza e sapienza nel discuterlo, portandolo nei luoghi del confronto pubblico e pluralistico, fuori dalle enclave di idee più o meno settarie, dove ciò che più conta è delegittimarsi l’un l’altro e chiudersi nel proprio orticello, grande o piccolo che sia. Per la cronaca, ricordo che Rorty è stato un intellettuale liberaldemocratico: non un alfiere del complottismo, dell’anti-elitismo, del comunismo, del populismo o di Dio sa cosa.

III

Disporci su questa strada comporta, però, almeno dal mio punto di vista, la lucidità intellettuale e la forza politica di ricondurre il disagio odierno, e le sue vite di scarto, non tanto all’assenza di mezzi e risorse, quanto piuttosto alla loro distribuzione e re-distribuzione. Tuttavia, alle necessarie lucidità intellettuale e forza politica si frappone un durissimo ostacolo che sta al centro della cultura politica contemporanea: il tramonto di un serio “discorso sui fini” e sulle alternative. Verso quale tipo di società vorremmo ri-orientarci o spingerci? Se davvero la nostra società è la migliore possibile o l’unica realistica, come spesso si sente dire, allora dovremmo continuare a mettere in conto tante vite di scarto, e limitarci ad applaudire le denunce di Papa Francesco o a inebriarci della retorica dei diritti umani. La coscienza si sentirà forse confortata, magari aiutata da slanci di carità, di compassione e di impegno nel volontariato sociale. Meglio di niente. Ma il mondo andrà per conto suo. E gli ideali dovremo lasciarli a qualche moralista impenitente. Certo, dedicarsi agli ideali costa. E forse non serve. Ma costa anche rinunciarvi, e di sicuro la rinuncia non aiuta ad impegnarsi per un mondo migliore. Libertà ed eguaglianza, simul stabunt vel simul cadent.

Dimenticavo: Bauman ci ricordava, correttamente, che la modernità è nata insieme all’idea che il mondo si può cambiare. Per questo persisto nel sentirmi moderno, mentre tutt’attorno è tutto un fiorire di “post”.


(Pubblicato su questo sito il 14 marzo 2023. Una precedente versione è uscita su quotidiani del Trentino e dell’Alto Adige già nel 2017, ma quella attuale è aggiornata e arricchita)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *