Orizzontalità e verticalità della politica: se mai significa qualcosa, dà da pensare…. Forse quella rivoluzione, che Imilla disegnava in lontananza, alta nel cielo, partendo da qualche punto tra il capo Horn e la regione antartica, forse è proprio quella rivoluzione, che è tanto più affascinante, quanto più sconosciuta ai geografi, la rivoluzione che in tutta la sua verticalità di iceberg surclassava l’orizzontalità di Ruben?
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Una nota in premessa. A proposito di un romanzo sulla rivoluzione, dell’incontro tra un uomo e una donna, e dell’uso che qui ne faccio
In questo articolo ho fatto miei, riproponendoli in modo selettivo (ora alla lettera, ora nello spirito, ora in silenziosa libertà, ora con mie interpolazioni), alcuni passaggi di un “romanzo politico” della seconda metà del Novecento[1]. L’uso che faccio del materiale romanzesco è un espediente narrativo attraverso cui delineo un embrione di quadro concettuale che credo proficuo per riflettere sul tema dell’azione politica; qui tuttavia rilascio un quadro concettuale deliberatamente lasciato implicito, e ciò allo scopo di trattenere la cifra letteraria della vicenda rinarrata e dei connessi temi politici che essa evoca con il linguaggio romanzesco. Con la sapidità della parola romanzata, delineo le figure di una polarità, forse archetipa, della politica: una polarità di certo classica che ben si presta a fungere (per dirla con Max Weber) da schema analitico ideal-tipico utile per indagare quel macro-fenomeno che è la politica. Mi sto riferendo alla polarità “orizzontalità e verticalità” della politica. Qui tuttavia traduco questi concetti analitici in “concetti narrati”.
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Il sole è alto. Luogo, tempo, azione
Il sole è alto, sulla città di… Cominciamo male: smemoratezza? Riservatezza? Civetteria della vaghezza? Accontentiamoci del fatto che la scena si svolge dispersa nell’America Latina. E sia. Però l’anno? Nessuno lo sa. O non si vuole dire. Chissà: per pudore o per capriccio, pure quello resta incerto, come l’incertezza di quei periodi durante i quali la pallina della storia e della vita rimbalza imponderabilmente tra speranze e lutti, e mai si cheta. Ma ai nostri personaggi qualcosa sfuggirà, a vantaggio della curiosità del lettore. Ma a proposito, e l’azione? Ci si dica almeno qual è l’azione che si svolge in questa città velata eppure soleggiata, in questo tempo sfuggente ma non assente: quali i motivi che la muovono? Quale il suo inizio, quale lo svolgimento e come va a finire? No. La richiesta è legittima, ma le risposte (ammesso che a qualcuno risultino presenti e chiare), ahimè, le risposte rattrappiscono quel poco di enigmatico arcano e di magica fantasia che si vorrebbe custodire e porgere al lettore.
Nella sua Poetica, Aristotele aveva affermato che «la favola deve essere compiuta e perfetta», che ogni narrazione deve esibire un definito luogo, un definito tempo e una definita azione (inizio, svolgimento e fine)[2]. Delle categorie dell’unità di tempo, di luogo e di azione del canone narrativo stabilito dal sommo filosofo di Stagira qui possiamo e vogliamo fare a meno. Con grande gaudio dei cantori del postmoderno, s’intenda questo come cifra dell’arte o del pensare o persino del vivere nella nostra epoca.
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I personaggi: Ruben e Imilla
Ruben, un tappo di sughero sull’acqua. Sulla memoria politica di un raccoglitore di frantumi di storie degli altri
Non l’aveva vista arrivare, si dice Ruben. Ottuso come un tappo smerigliato, l’aveva vista solamente passare davanti a sé, fare un cenno a qualcuno e tirare dritto per la sua strada: non è certo ciò che si direbbe ‘vedere arrivare qualcuno’, tanto che la memoria non registra la scena come Tizia che arriva all’incontro con Caio, forse a seguito di un appuntamento o solo per caso, bensì come la scena di Tizia che passa davanti a Caio, distratta dalla concentrazione e rapida, con in testa altre destinazioni, nel mentre Caio è soltanto lo spettatore assente di un film muto.
Ruben non è uomo superficiale: è lucido, riflessivo, persino auto-riflessivo, quando, tra sé e sé, e su di sé, si cuce addosso una faccia color disincanto e linee agrodolci. Davvero infotografabile. Se non gli mancasse la parola, sarebbe proprio la faccia di un uomo. Ma la parola a Ruben non manca! No… E a le volte la rivolge a se stesso: «Non è facile avere una storia personale, quando si galleggia sul proprio tempo come un tappo di sughero sull’acqua, in balia degli incontri. Tanto meno un destino, specie se si è un po’ miopi e non si ha una buona memoria per le date, o per le frasi scambiate casualmente. Ci vuole orecchio fine e occhio di lince, per obbedire al suggeritore che bisbiglia dalla buca. Ottuso… non l’hai proprio vista arrivare!». Come la mettiamo? Ritratto di uno scialbo perdente o ritratto di un eroe della tenerezza ammaliante? Fate voi, tanto qui la cosa deve solo fare da sfondo cinematografico. E intanto, per rincarare la dose, strappiamogli un ultimo pensiero che, veloce, gli passa per la testa: «Non sono fatto per le parti da protagonista… la mia parte consiste nel raccogliere i frantumi delle storie che capitano agli altri». Caspita! Tutto qui? No, non ci si lasci ingannare dalle presentazioni…
Imilla, due occhi ritrattili occupati dall’Informazione. Sulla concentrazione distraente di una cacciatrice di stelle per un mondo guasto
«Cretino! Ti sto parlando di Imilla… quella che si occupa dell’informazione». Il cretino è Ruben, a scuoterlo è l’amico che lavora nell’organizzazione rivoluzionaria. Ruben, torna in sé, a suo modo: «Un’indiana quechua, immagino, con la bombetta in testa e sette gonne di cotone l’una sull’altra». Ma l’amico rivoluzionario non ha tempo da perdere né voglia di scherzare: «Ma va’ là, è la brunetta che abbiamo incontrato l’altro giorno, vicino alla piscina, la gringa».
Il lavoro d’apparato e la divisione organizzativa dei compiti non mancano nemmeno nei movimenti rivoluzionari o guerriglieri. La sezione ‘Informazione’ opera generalmente su due fronti: da una parte, il c’è il lavoro dell’’informazione aperta’, che si occupa di quanto viene detto e scritto dai mezzi di comunicazione che operano in pubblico, raccoglie il materiale, lo cataloga e lo analizza, lo fa circolare tra i membri del movimento e lo smista a seconda dell’oggetto ai vari gruppi di lavoro o ai vertici politici; dall’altra parte, c’è l’‘Intelligenza’, che opera sulle informazioni segrete, ha a che fare con spie e spionaggio, con antenne da istallare presso il nemico, è alle prese con tutto ciò che può rivelarsi utile per scoprire i piani del nemico e le sue mosse future. Imilla lavora con l’intelligence: compiti delicati, trame fitte e complicate che richiedono forbici sottili, cuciture creative e lucida astuzia. La sua è una posizione di responsabilità, che la lega alla Commissione centrale, da cui ora dipende direttamente. «Ruben, perché non le dai una mano?», gli propone l’amico.
- In un ufficio da perfetta segretaria. La politica tra Ruben e Imilla: “In Cile si sta per votare, e le cose non sono messe male”. “La felicità attraverso le urne? Auguri, ma non è il nostro problema”
Seduta di sbieco davanti al tavolo, Imilla gli indica una poltrona. Ruben fotografa con lo sguardo: «Un vero ufficio da perfetta segretaria: macchina da scrivere, cestino per la posta, classificatori di metallo, blocchi di appunti, matite ben appuntite. Stanza impeccabilmente in ordine. Alle pareti, un ritratto di Ho chi-min, stile pop, e due foto: il Che e gli Inti Illimani. Parecchie carte geografiche: Bolivia, Cile, Argentina. Piante su larga scala, disegnate a mano, coi pennarelli colorati. Dalle porte-finestre che danno sul terrazzo, la baia, il mare, il cielo s’ingolfano in questo ufficio troppo ufficiale, e il riverbero costringe a portare la mano a visiera davanti agli occhi, come per guardare lontano. Imilla gli sorride nel sole, vicinissima, caposquadra girl-scout in uniforme: espadrillas, blue jeans e sahariana, la camicia con le spalline militari delle miliziane, con le tasche gonfie. Un sorriso confezionato su misura, ‘franco e leale’, di quelli che ispirano solo inquietudine (…). All’angolo degli occhi, quando sorride, qualche zampetta d’oca: è sulla trentina».
Ruben è arrivato da poco dal Cile e le racconta che da quelle parti le cose vanno così così, ma che stanno preparando le elezioni e che per Allende e compagni le prospettive non sono poi tanto male. Imilla vede la situazione assai diversamente, e non glielo nasconde. La conversazione s’avvita presto sull’ironico e sul sarcastico, e passo dopo passo mette a nudo quanto le visioni dei due militanti rivoluzionari siano divergenti. Lei graffia: «Già. La felicità attraverso le urne… Gli auguro ogni bene. Non è il nostro problema, ti pare?». Lui le restituisce un supponente: «Un pochino sì, comunque. Se cade il Cile, non vedo proprio cosa sarà di voi. E poi non è la stessa lotta…?». Imilla lascia cadere un gelido: «La lotta? Ah, sì, davvero…». Il tono che le trasporta inietta in quel pugnetto di parole un bel flacone di arroganza. Un po’ fuori misura, pensa Ruben, per non suonare falsa sulla bocca di lei, e così, forse senza volerlo, finisce per stupire la giovane donna con un asciutto: «Fanno quello che possono e se possono poco, che colpa ne hanno». Imilla non capisce, non riesce proprio a capire: come è possibile che un uomo intelligente, impegnato a rivoluzionare l’ordine delle cose veda la situazione e la politica in quel modo? E allora preferisce lasciar cadere la discussione. Comincia a dire delle faccende di cui si sta occupando. Comincia a mostrargli i suoi materiali di lavoro: tira fuori «un fascio di ritagli un po’ sgualciti aggraffati a dei fogli bianchi dove, in alto, è scritta la data, l’argomento in stampatello viola, e poi un mucchio di cablogrammi d’agenzia, dei volantini a ciclostile». E mentre dispiega qua e là, accompagna i gesti con uno sconsolato commento sulla qualità delle cose che le era possibile fare: «Ogni tanto ricevo i giornali da…, con quindici giorni di ritardo, in media. Le radio sono difficili da prendere. Ma ci sono i telefax d’agenzia, tutte le mattine: poca roba, insomma». Lui, mentre sfoglia i dossier: «Lavoro perfetto», la cortesia di Ruben qui strabocca.
Improvvisamente, quasi stizzita, Imilla chiede: «Ma tu, in Cile, cosa ci facevi?». Lui, beatamente, manco fosse un bancario a cui si chiesto come avesse passato le ferie al Sud: «Spiaggia, pesca, bagni di mare. Ma preferisco qui: l’acqua è meno fredda». Imilla si sforza di un sorriso: gli occhi le si increspano, ma il cuore rimane ben freddo. Forse perché gli sta sfuggendo qualche punto (quale che sia), forse perché fa facendo un suo gioco (quale che sia), Ruben prende gusto a parlare di vacanze: «Non ci vai mai, tu, alla spiaggia?». Imilla non ci sta un minuto di più: «Senti, non ho nessuna voglia di scherzare. Prima della fine della settimana devo consegnare una relazione ai compagni. Se non ti va d’aiutarmi, dimmelo pure. Me la caverò da sola. Non sarà certo la prima volta». Ruben non batte ciglio, e con delicatezza: «Non t’arrabbiare. Possiamo benissimo lavorarci insieme, al tuo compitino per le vacanze. Se lo ritieni utile». Sarà che Ruben è proprio fatto così: un ‘uomo impossibile’, punto e basta. Un ‘impossibile’ che però vorrebbe evitare ogni contrasto sulla politica: una cosa giusto giusto impossibile date le circostanze, e data Imilla. ‘Un impossibile’, appunto. E così, vista l’ora, si rifugia nel terreno meno accidentato del “Mangiamo qualcosa? Che ne dici?». Lui propone di fare un salto al ristorante dell’albergo, lei preferisce un panino, dell’acqua e magari un succo di frutta sul posto di lavoro. Restano nella stanza di lavoro a mangiare pane casareccio e bere acqua. Irremovibile, la gringa.
Giù l’ultimo boccone, e Imilla riattacca sulla politica. Fasciata di candore, o di impertinenza, chi sa?, va sulla via del dialogo, a cercare qualche punto d’intesa. Ma le cose non vanno esattamente in quella direzione. Ruben non perde occasione per seminare dubbi soavemente abrasivi. Lei, armata di buone intenzioni, cerca allora di prendere la faccenda un po’ più alla larga, con considerazioni condite da punti di domanda che inseguono convergenze, dopotutto, come si dice, non è l’unione che fa la forza? E vai con la prima: «Il regime è in piena decomposizione, non è vero?»; e vai con la seconda: «Non c’è mai stata una congiuntura più favorevole di questa, sei d’accordo?». Ma lui, impassibile, scortica la realtà dei rapporti di forza: «Per chi ha i mezzi di rivoltarla a suo vantaggio, sì. Vedi in Bolivia, la destra militare non perde un’occasione». Imilla, raccoglie la sfida e indispettita risponde pan per focaccia: «E noi, cosa credi, che resteremo a braccia incrociate? Vedrai se la dittatura torna come prima…». Ruben si fa serio e, quasi con dolcezza, colpisce duro: «Cerchiamo di guardare in faccia la realtà, Mimì!».
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Orizzontalità e verticalità della politica. Scintille tra Imilla e Ruben
Ruben lascia il freno e si lancia in un lungo resoconto su come vede le cose: «Qualche centinaio di minatori o di contadini, in questa fettina di luna sospesa tra cielo e terra, non sarebbe che un particolare in più. Comunque, nelle miniere di stagno, la durata media della vita non raggiunge mai i quarant’anni. Che fare, se i minatori con la silicosi preferiscono dilapidare i loro centocinquanta franchi di salario mensile all’osteria piuttosto che nelle farmacie, del resto inesistenti? Non mi attarderò dunque su queste futilità, che non interessano alla gente seria. E tu, Imilla, sei una persona seria. Hai stabilito come tua patria una cometa aspra e glaciale. Hai scelto di occuparti dei mitragliatori e di trincerarti nel campo dei mitragliati. Ma i particolari scocciano anche te». E mentre Ruben passa a dire dei contatti presi con alcuni ambienti dell’opposizione in esilio, Imilla, con fare giusto un po’ annoiato, lo interrompe: «Compagno… le contraddizioni intra-borghesi permettono un margine più ampio di manovra, ma non risolvono i problemi delle masse. La contraddizione fondamentale, dovresti pur saperlo, è tra…». Lui la guarda a bocca aperta. Ma anche lei lo guarda a bocca aperta, e forse gli attribuisce una bella dose di crassa ignoranza. Dopo qualche istante di silenzio, la discussione si fa serrata:
LUI: «D’accordo, d’accordo. Ma non si fa la politica coi proverbi. Al massimo si fanno dei martiri o delle cretinerie. O tutt’e due le cose».
LEI: «Non credi più alla lotta armata? O è l’organizzazione che non è più all’altezza, secondo te?».
LUI: «Al contrario, sarebbe meglio che si abbassasse un po’. Per vedere quel che succede in questo piccolo mondo».
LEI: «La questione è sapere se si crede o no a qual che si fa».
LUI: «Già, ma cosa si fa in questo momento?».
LEI: «Ricordati una cosa, Ruben: non c’è orizzonte, per chi resta rasoterra».
Forse era Ruben a non essere all’altezza? Forse quella rivoluzione, che Imilla disegnava in lontananza, alta nel cielo, «partendo da qualche punto tra il capo Horn e la regione antartica», forse è proprio quella rivoluzione, «che è tanto più affascinante, quanto più sconosciuta ai geografi», la rivoluzione che in tutta «la sua verticalità di iceberg» surclassava l’orizzontalità di Ruben? E qui rispunta l’eterno conflitto, interiore e politico, tra l’etica delle convinzioni e l’etica delle conseguenze di weberiana formulazione: è la sfida più radicale in cui si imbatte l’agire in politica, quella che può mandare in cortocircuito il senso stesso della ragion politica.
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E arriva la sera
Ormai s’è fatto tardi, è ora di andare a dormire, si dicono i due rivoluzionari divisi dalla rivoluzione, che per uno o è “orizzontale” o non è, e che per l’altra è esattamente l’opposto: o è “verticale” o non è. I due intanto devono fare mente locale all’agenda per l’indomani. Non mancano le cose da fare: svariate iniziative, lavoro di comunicazione, analisi degli sviluppi in divenire del quadro politico locale e continentale, e qualche panino. Prima di salutarla, Ruben dà ancora un’occhiata circolare all’ufficio della giovane donna: una stanza spoglia e luminosa, classificatori e mappe appese ai muri, una radio e un’infinità di matite colorate perfettamente temperate sulla scrivania, armadietti metallici semi-aperti e altri ben serrati, un appendiabiti rossofuoco con una giacca e un giubbino e uno zainetto grigioazzurro. E poi una donna discreta e luminosa, ma spoglia anche lei: «tempie diritte, naso diritto, sguardo diritto». Tanta dirittura sconcerta un po’ l’uomo: si dice che «l’eterno femmineo preferisce l’obliquità», ma Imilla «si lancia a volo radente, a viso scoperto, senza timore di essere giudicata, aggredita o sconfitta». Quella donna, ora silenziosa, sembra dire che l’imbroglione è lui. Ruben è affascinato da quella sua franchezza e dalla sua grazia inesplicabile. Il mondo chiuso di Imilla, attraversato da strade diritte e nettamente divise, per quanto gli apparisse fuori dal mondo, lo inchiodava. Staccarsene era fatica.
«Imbarazzata, Imilla tamburellava sui tasti cromati d’un registratore». Nell’aria le note delle Bachianas brasileiras di Villa Lobos. «Ti piace, questa musica?». Lei: «Mi fa un po’ paura, ma mi fa bene. Quando tutto diventa troppo facile… metto questa musica… e torno con i piedi sopra la terra». A posare lo sguardo su Ruben è ora un’altra donna, una sconosciuta: dietro ai suoi occhi così trasparenti s’intravede una piccola angoscia, «retrattile e scura, una pupilla segreta» che sta dietro. Fino a pochi minuti prima, Ruben aveva accostato solo gli occhi pubblici di Imilla, gli occhi di giorno. «Gli altri, forse, si schiudono solo di notte. E in ogni caso erano proprietà privata, proibito l’accesso».
L’uomo la saluta mormorando qualcosa tipo ‘domani dobbiamo riprendere il discorso sulla orizzontalità e sulla verticalità dell’azione politica, la cosa non mi è molto chiara’. Dalle labbra della donna vola via qualcosa come ‘Lo so… è così’.
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Una nota in appendice. A proposito di Régis Debray
Régis Debray, intellettuale, scrittore e professore, è nato a Parigi nel 1940, dove si è laureato in filosofia all’École Normale Supérieure. Ha vissuto molti anni in America Latina. Negli anni ‘60 dello scorso secolo ha militato nei movimenti rivoluzionari sudamericani, al fianco di Fidel Castro e di Che Guevara, con in quale prese parte al fallito tentativo di rivoluzione in Bolivia. Alla fine degli anni ’60 è rinchiuso per tre anni in carcere dal regime militare boliviano, instaurato a seguito di un colpo di stato guidato dal generale Barrientos Ortuño. Nel 1969 un appello per la liberazione di Debray fu firmato da decine di intellettuali europei, tra i quali gli italiani Federico Fellini, Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini, Vasco Pratolini, Ignazio Silone e Giuseppe Ungaretti. In quegli anni Debray è coinvolto nelle polemiche internazionali sui misteri attorno alla cattura e alla morte del Che, con l’accusa di tradimento. Nel 1973 ritorna in Francia, dove ricopre vari incarichi ufficiali presso il governo francese, insegna filosofia all’Università Jean Moulin di Lione e sviluppa un contributo originale nel campo degli studi mediologici. Nel 2017 ha pubblicato un saggio in cui si interroga sul successo di Emmanuel Macron alle elezioni presidenziali francesi, e che individua nel neo-protestantesimo che va diffondendosi in tutta Europa e nella società mediologica le chiavi per comprendere le trasformazioni politiche, culturali e comunicazionali che stanno investendo il mondo contemporaneo[3].
NOTE
[1] Si tratta del romanzo La neige brûle, uscito dalla penna di Régis Debray, pubblicato dalle Editions Grasset & Fasquelle nel 1977. Tradotto in italiano con il titolo La gringa, Bompiani, Milano, 1978. Le citazioni a sergente che riporto nel testo, dove non diversamente indicato, sono prese da questo romanzo.
[2] Vedi Aristotele, Poetica, Rizzoli, Milano, 1987.
[3] Vedi R. Debray, Le nouveau pouvoir, Les Editions du Cerf, Parigi, 2017 (trad. it. Il nuovo potere, Angeli, Milano, 2018.
(Pubblicato su questo sito il 5 dicembre 2022)
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Articolo che, come scritto in introduzione, “dà da pensare….” su temi molto importanti come “il senso stesso della ragion politica”. In particolare c’è una frase/domanda che colpisce e stimola il farsi altre domande, anche attuali, ed è quando Imilla dice (graffiando): “Già. La felicità attraverso le urne… Gli auguro ogni bene. Non è il nostro problema, ti pare?”