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Crisi e potere, ovvero paura e libertà
Quando la politica è avvolta nel paradigma o nella narrazione della crisi, la democrazia viene rinchiusa nel recinto della paura. In uno spazio dove non c’è posto per la libertà, ma autostrade per la fuga dalla libertà. Nulla di nuovo, beninteso. La storia politica e quella del “fatto democratico”[1] sono state costantemente attraversate da fenomeni del genere: fenomeni che non esprimono altro che dinamiche politiche e socio-culturali, logiche di potere e di contro-potere, di governo e di opposizione, di obbedienza e di disobbedienza, di conservazione o di mutamento dell’ordine costituito. In tutti questi casi, la libertà è una posta in gioco cruciale, ma alla quale, persino quando è ufficialmente ben vista, viene riservata una stanza in soffitta e non già il salotto buono di casa. Accade ancora ai nostri giorni. Anche nel mondo occidentale che si autodefinisce democratico (o liberaldemocratico) e che siamo soliti considerarlo tale, almeno convenzionalmente. Tutto ciò sta accadendo anche in queste settimane in Italia, nella campagna elettorale per il voto del 25 settembre: nel suo piccolo, un caso esemplare di una tendenza storica generale, che tuttavia ai nostri tempi va acquisendo crescente visibilità rispetto al passato, e forse anche più forza.
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La campagna elettorale del 25 settembre. Cioè?
Nelle (moltissime) pagine dei mass media (vecchi e nuovi) riservate alla cronaca o al commento della campagna elettorale, abbonda l’energia dedicata (dagli attori e dagli osservatori “rappresentatori” politici e mediatici) alle alleanze elettorali, agli accordi o ai mancati accordi di un polo o dell’altro o dell’altro ancora, tutti finalizzati a trovare la chiave per vincere o per non perdere troppo o per non fare vincere troppo la controparte, dove gli interessati mirano a trovare un posto nelle liste e, più ancora, all’accaparramento personale dei collegi elettorali “blindati” o delle circoscrizioni stimate come favorevoli. In questa frettolosa e spiccia campagna elettorale, le parti anziché parlare di sé, della loro identità politica e dei loro programmi stra-parlano anzitutto degli altri (con particolare prontezza e generosità a “sinistra”). Stiamo assistendo al teatro dell’“inverosimile ma vero”, su cui non intendo spenderci manco una riga in più.
Ma in questa campagna elettorale davvero balneare, e non perché si svolge in periodo vacanziero, c’è anche dell’altro su cui, a fasi alterne, cade l’impegno dei giocatori. In modo diretto o indiretto, esplicito o implicito, e spesso indipendentemente dal posizionamento politico o dai motivi di ciascuno, la competizione per il voto del 25 settembre ci restituisce, infatti, una diagnosi preoccupante sui nostri tempi: una diagnosi che mostra l’incombere di minacce e pericoli un po’ per tutti i gusti.
Sotto questo profilo, cosa ci dice la campagna elettorale sulla nostra società nel suo insieme, cioè su una società osservata dal punto di vista “sistemico” e non da quello dell’uno o l’altro partecipante al gioco? A tenere banco è un susseguirsi di richiami, allarmi e ammonimenti sulla crisi economica e delle finanze pubbliche, sulla crisi sociale o su quella climatica e ambientale, sulla crisi demografica o migratoria, su quella idrica o energetica, sul pericolo fascista o comunista, populista o elitista. Insomma, nel discorso pubblico (chissà, però, quanto “pubblico”) campeggiano nell’aria slogan e parole d’ordine ascrivibili pressoché esclusivamente alla “politica della crisi”. Si tratta di una sorta di paradigma politico, o almeno di una narrazione (sempreverde), a cui Ian Bremmer, docente di Scienza politica all’Università di Colombia, ha recentemente dedicato un libro[2].
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Il potere della crisi
Bremmer offre una sintesi del paradigma della crisi. Il suo quadro teorico-esplicativo è di certo meno penetrante di quello elaborato negli anni ’70 del Novecento da Jürgen Habermas[3], e tuttavia ben ritrae i termini della narrazione e delle sensibilità in tema di crisi oggi dominanti sia nel discorso pubblico che in quello specialistico. Bremmer individua tre principali crisi che caratterizzano il mondo contemporaneo:
1) la crisi sanitaria, associata alla lotta contro virus sempre più contagiosi e pericolosi, una crisi e una lotta che accompagneranno il nostro futuro e quello delle generazioni a venire, e di cui la crisi e la lotta riguardanti il coronavirus rappresentano solo l’inizio;
2) la crisi ecologica, prodotta dall’intensificarsi del cambiamento climatico, che avrà un impatto dirompente non solo sull’ambiente naturale, ma anche su quello sociale ed economico, i cui sconvolgimenti finiranno per provocare massicci movimenti migratori a livello planetario: milioni di rifugiati nel mondo occidentale, provenienti dalle aree più povere o sottosviluppate, che generano tensioni e conflitti tra “indigeni” e “immigrati” nelle società liberaldemocratiche, nonché la necessità di ripensare in profondità gli stili di vita e i modelli culturali e valoriali consolidatisi nell’Occidente moderno-contemporaneo;
3) la “crisi tecnologica”, associata allo sviluppo delle nuove tecnologie, a partire dalla crescente efficienza e pervasività dell’intelligenza artificiale e dalla rivoluzione quantistica in corso in campo informatico e dei Big Data, che ridisegneranno dinamiche, funzionamento e governo delle società domestiche e del sistema internazionale, alterando i modelli culturali e comportamentali della società, non meno che i criteri e le norme dell’ordine sociale tipici della tradizione liberaldemocratica (investendo, ad esempio, la sfera della privacy, dei diritti e dei doveri, dell’ingegneria sociale e genetica, della procreazione).
Bene. Se questi sono i termini della crisi contemporanea, dobbiamo tuttavia non distrarci dal fatto che, per usare una formula di Murray Edelman, «Tutti i tempi sono “tempi del cimento dell’animo umano”»[4]. Pressoché ogni epoca, per un motivo o l’altro, con ottimismo o pessimismo a seconda dei casi, è stata vissuta dai suoi contemporanei come epoca di crisi; questo in special modo da quando la circolazione veloce delle notizie in spazi sempre più allargati e la lettura di gazzette e giornali sono diventati fenomeni diffusi, prima tra gruppi ristretti di élite e poi tra le masse.
Consideriamo, inoltre, il fatto che quello di trovarsi a vivere e a dover fronteggiare tempi di crisi è un argomento tipico delle classi dirigenti, non ultime quelle politiche e quelle che orientano e che tengono in moto la macchina della comunicazione pubblica. L’argomento talora (perché no?!) è sostenuto anche con buone ragioni; nondimeno, solitamente è agitato per giustificare decisioni sgradite ai governati, decisioni che potrebbero suscitare risentimenti, proteste, resistenze nella società. Tutte le società, dopotutto, hanno bisogno di vivere ben “oleate” dal e nel consenso; nemmeno chi governa o coloro che stanno in cima alla piramide sociale possono fare del tutto a meno di questo consenso. In particolare, perciò, nei regimi votati ai principi della democrazia (come convenzionalmente intesa) si tratta di ispirare (o conculcare) nei cittadini una profonda convinzione che il mondo in cui vivono si trovi realmente in condizioni critiche, che su di esso pesano realmente pericoli e minacce a cui porre rimedio: è da questa profonda convinzione che deriva, per lo più, quell’ampio consenso intorno ai provvedimenti governativi richiesti a motivo dell’emergenza, ovvero un consenso a favore di chi (leader politici e istituzioni) li propone e che detiene il potere e l’autorità di vararli. La riuscita e la misura del consenso, va da sé, dipendono dalla credibilità o dalla reputazione di cui socialmente godono i soggetti che operano dalle stanze delle autorità istituzionali (politiche in senso stretto o largo), non meno che dalla profondità delle convinzioni da parte dei governati sul fatto che le cose stiano così come sono pubblicamente proclamate e rappresentate: perciò, persuasione, propaganda, retorica e (perché no?) manipolazione (foss’anche “a fin di bene”) giocano un ruolo decisivo in tutta quella che possiamo chiamare “la politica della crisi”, innervano la “macchina del consenso”.
Si badi, non stiamo parlando di perversioni della politica contemporanea, ma di quella fisiologia della società alla cui base sta, per lo più, la inattingibilità (intanto per il cittadino comune, ma non solo per lui) dei fattori specifici che starebbero oppure no a monte di una data situazione di crisi, fattori i quali raramente risultano “a portata di mano” o “immediatamente” decifrabili. Insomma, detto diversamente, quando parliamo di chi e come definisce cosa è e come si configura una crisi, ci riferiamo, in effetti, a un processo squisitamente politico, che concerne la variegata famiglia dei meccanismi e degli strumenti del potere, di cui quelli decisivi e “decidenti” non sono esattamente “visibili” allo sguardo di tutti o sotto il controllo pubblico. Di conseguenza, quando consideriamo la politica come “logica del potere” è sbagliato sottovalutare l’importanza dei simboli e del linguaggio che tessono la vita collettiva e politica. La dimensione simbolica della politica occupa un posto tanto importante nella società perché la vita collettiva non è trasparente: insomma, per dirlo in modo icastico, non sappiamo se è «veramente il re che governa dietro le porte del palazzo»; e perciò la dimensione simbolica, inevitabilmente, «pervade ogni cosa perché tutto è pervaso dall’esitazione e dal sospetto»[5].
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Crisi e retoriche dello screditamento
A integrazione di quanto fin qui osservato, dobbiamo aggiungere che le idee e le soluzioni su come affrontare e superare una crisi non sono mai del tutto univoche, nemmeno quando esse risultano (per un motivo o l’altro) fortemente maggioritarie tra le élite, tra i loro intendenti e tra la massa della cittadinanza: di fatto, le idee e le soluzioni sono, tipicamente, “le nostre idee” e “le nostre soluzioni”, quelle che proponiamo noi o che noi condividiamo, idee e soluzioni che guadagnano non pochi “punti di vantaggio” su quelle altrui se noi siamo o ci sentiamo dalla “parte giusta” della storia, con Dio o con la scienza, o dalla “parte giusta” della piramide sociale. Mai, tipicamente, o mai del tutto, sono le idee o le soluzioni che vengono dagli altri o dalla controparte, ad esempio da una minoranza, da un’opposizione o da una contro-élite avversa allo status quo esistente negli equilibri del potere. Immancabilmente, infatti, le idee o le soluzioni sostenute dalla controparte sono sottoposte al fuoco di sbarramento di quella che, con Albert Hirschman, possiamo chiamare la “retorica dell’intransigenza”[6].
Soffermiamoci un momento su questa retorica. In proposito, a dire il vero, Hirschman adotta un’“ottica partigiana” (di ascendenza storica liberale-progressista di lontana matrice illuminista-settecentesca) che lo porta a qualificare come retorica dell’intransigenza quella che egli attribuisce alle forze politiche e alle culture conservatrici. Noi, invece, adottiamo un’“ottica sistemica”: riteniamo che, oggi forse più che mai, tale retorica valga tanto per le forze etichettate come conservatrici, quanto per quelle etichettate come progressiste, e che essa venga usata tanto a destra quanto a sinistra, da chi sta al governo come da chi sta all’opposizione[7].
Le strategie di respingimento delle indicazioni su come trattare o risolvere una crisi elaborate e sostenute dalla parte avversa, tali strategie, detto in breve, sono imperniate su alcune principali “tesi screditanti”, alle quali si fa abbondantemente ricorso nei molteplici campi del polemos (a partire dal campo politico e da quello giornalistico-mediatico). Le strategie possono essere così schematizzate[8]: 1) la tesi dell’effetto perverso: “le vostre soluzioni, comunque arrangiate, serviranno solamente ad esacerbare la crisi a cui vorreste rispondere”; 2) la tesi della futilità: “le vostre soluzioni sono del tutto vane, semplicemente non riusciranno a fare fronte alla crisi”; 3) la tesi della messa a repentaglio: “il costo delle vostre soluzioni è troppo elevato e finisce per mettere a rischio l’una o l’altra delle conquiste conseguite in passato”.
Visto sotto un’altra luce, il confronto tra le controparti e tra le loro rispettive proposte di superamento di una situazione di crisi si rivela essere un altro capitolo della “legge di Clausewitz”: la politica non è altro che una continuazione della guerra sotto altra forma e con altri mezzi rispetto a quelli militari. Così, anche nell’ordinaria vita dei regimi liberaldemocratici sono in scena dinamiche e dibattiti politici nei quali ciascuna delle parti in conflitto è perennemente in cerca di argomenti per schiacciare l’avversario, argomenti tesi a svilire o distruggere la bontà degli argomenti e la stessa identità e legittimità politica della controparte.
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Trasformare le crisi in opportunità? Organizzazione Mondiale dei Dati e Nuova Burocrazia Internazionale
In calce a questo schizzo sul “potere della crisi” e sul paradigma o narrazione della crisi in cui esso si inserisce, facciamo un ultimo passo avanti nel nostro discorso. Torniamo a Bremmer. Il suo libro ha suscitato molto interesse, fino a essere accolto come un punto di vista “nuovo” e illuminante attraverso cui guardare alle crisi e trovare vie di uscita. Riprendiamo allora, brevemente, il suo giudizio sulle crisi e i suoi suggerimenti su come risolverle. Secondo uno schema concettuale, invero classico e tutt’altro che nuovo, Bremmer volge i pericoli associati alla crisi in opportunità. Così, il paradigma della crisi, in cui rientra la sua analisi, approda a quella che molti commentatori hanno presentato come una “dottrina shock”, che capovolge il pessimismo o gli allarmi critici alla Noemi Klein in ottimismo di aspettative positive per la società, oltre che per l’ordine internazionale: a patto – ammonisce l’autore – che i governi sappiano governare i processi e le sfide in corso, e che la politica faccia il suo lavoro.
Come esempi di strumenti a cui fare ricorso per raggiungere gli attesi risultati positivi nel fronteggiamento delle crisi in corso e per partorire un futuro migliore per “tutti noi”[9], Bremmer indica la creazione di una Organizzazione Mondiale dei Dati (OMD) oppure lo sviluppo di una nuova e altamente competente burocrazia internazionale. Come simili strumenti di governo, di regolazione e di amministrazione possano essere in grado di superare il Far West delle libertà e degli arbitrii dentro il quale ben si muovono i grandi poteri sulla scena internazionale, a partire dalle grandi compagnie tech, non è dato sapere. Né è dato sapere quali implicazioni simili strumenti abbiano per le libertà e la vita delle persone sottoposte a questo ulteriore salto di qualità dei sistemi di sorveglianza. E neppure ci si dà pensiero di quanto tali strumenti possano fungere da base tecno-amministrativa per configurare sistemi di “cittadinanza a punti” disegnate sul modello del sistema del “credito sociale” in uso in quella Cina che consideriamo una dittatura: un modello, quello del “credito sociale”, che in Occidente e anche in Italia sta già trovando applicazione nelle varianti imitative di diversi progetti-pilota, e che lascia intravedere sperimentazioni nella regolazione dell’ordine sociale i quali guardano oltre i principi etico-politici e istituzionali identificanti lo status di cittadinanza tipico della tradizione politica democratica occidentale. Probabilmente non è dato sapere nemmeno a Bremmer come e quanto le soluzioni delle crisi e gli strumenti pensati allo scopo portino a soluzioni delle crisi deprimenti per il valore della libertà.
Su questi ultimi aspetti del problema, la discussione che ha accolto il suo libro è stata scarsa e marginale: un segno dei tempi, di tempi grigi per la libertà. Il punto che ora ci interessa evidenziare è il seguente: stiamo osservando, oggi come in altri momenti della storia, un crescente venir meno della fiducia nella libertà anche tra i cittadini comuni, cioè anche tra i beneficiari di diritti e libertà acquisiti faticosamente nel tempo, e non solo tra le élite del potere, che hanno storicamente compiti di governo della società e quindi l’obiettivo di regolare le masse di cittadini e di tenerne sotto controllo la libertà – élite che, peraltro, possono sempre godere di privilegi anche sul versante delle libertà.
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Nessuno è più cieco di chi non sa o non vuole vedere
La campagna elettorale del 25 settembre tace su questi temi, vere sfide del presente-futuro: Media e forze politiche che si contendono la “coppa della democrazia” non sono interessati a o non sono in grado di guardare oltre la punta del loro naso. E il “pubblico-elettore” vive di quello che passa il convento. E poi ci si scandalizza con chi, deliberatamente, sceglie di non andare a votare? Ma ci si scandalizza solo fino a giorno prima del voto, confortati dalla prescrizione del dottore di turno. Dal giorno dopo, ci si accomoda quasi tutti (chi più e chi meno comodamente e distrattamente) in democrazie elettorali che viaggiano facendo tranquillamente a meno degli elettori e di milioni di voti. Tutti: classi dirigenti e masse di cittadini. Ciascuno con il suo posticino o posticione a tavola, quale che sia la tavola. Nessuno è più cieco di chi non sa o vuole vedere. Ma fino a che punto le cose che non si vedono davvero non esistono e perciò non ci toccano?
NOTE
[1] Vedi G. Nevola, Il “fatto democratico”, in Democrazie in movimento (a cura di A. Millefiorini), Mimesis, 2022.
[2] Vedi I. Bremmer, The Power of Crisis, Simon & Schuster, 2022.
[3] Vedi J. Habermas, La crisi della razionalità nel capitalismo maturo, Laterza, 1976 (il titolo dell’edizione originale tedesca suona: Legitimationsprobleme in Spätkapitalismus).
[4] M. Edelman, Gli usi simbolici della politica, Guida, 1987, p.77.
[5] Le due ultime citazioni sono tolte da P. Veyne, Il pane e il circo. Sociologia storica e pluralismo politico, il Mulino, 1984, p. 66.
[6] Vedi A.O. Hirschman, Retoriche dell’intransigenza, il Mulino, 1991.
[7] Notiamo che differente e più complesso è il caso quando consideriamo lo spettro politico in base alla linea di divisione che contrappone forze politiche pro-sistema e forze politiche anti-sistema (o forze politiche “pro altro sistema”). Ma su questo dobbiamo qui passare oltre.
[8] Di seguito riformuliamo in modo sintetico e semplice le tre tesi screditanti con cui Hirschman caratterizza le strategie della retorica dell’intransigenza.
[9] Sebbene il “noi” richiamato da Bremmer sia riferito a volte agli americani, a volte all’umanità intera. Uno slittamento di referente singolare, se non sintomatico.
Pubblicato su questo sito il 18 agosto 2022; uscito in “Sinistrainrete” il 23 agosto 2022.
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