Il governo Conte, la scienza politica e il cantastorie. Una crisi tra spiagge, Parlamento e potere *

(Pubblicato su questo sito il 16 agosto 2019)

Crisi del (singolare) governo pentastellato-leghista guidato da Giuseppe Conte. Di più: fine (forse) del “governo del cambiamento”. Siamo anche, come sostiene importante parte del mondo politico e degli analisti, al tramonto definitivo della politica anti-sistema che in questi anni è emersa come alternativa di governo alle forze pro-sistema? Difficile a dirsi. Un conto sono gli auspici che ciascuno può legittimamente nutrire, altro conto è cercare di capire cosa sta accadendo nella politica di oggi, non solo in Italia, che pure è, sotto questo profilo, un caso da copertina. Ciò che possiamo dire, e lo diciamo da tempo, è che quella tra politica pro-sistema e politica anti-sistema è una vera e propria lotta per il potere e per l’egemonia politica, ancora aperta, dove gli schieramenti dei due campi sono frastagliati e misurano la loro forza: capacità di persuasione dell’elettorato e di raccolta del consenso, controllo delle risorse di potere economico e culturale, insediamento dei loro esponenti nelle posizioni apicali delle istituzioni e nelle strutture tecno-burocratiche (sistema bancario e finanziario, presidenza della repubblica, magistrature, università, media, autorità di controllo), a livello sia locale che nazionale, negli apparati dell’Unione europea o negli organismi e nei rapporti internazionali.

Pensare che il potere sia qualcosa che si conquista con facilità, e solo e semplicemente ottenendo una maggioranza alle elezioni o andando al governo, è un mito (quello democratico) che non fa i conti con la storia e con la vita della politica, di ogni società: una credenza ingenua che forse acchiappa i semplici e i neofiti della politica, oppure un’ideologia (o narrazione) usata come strumento di lotta da tutte le parti in gioco, e con particolare maestria dalle élites consolidate, che la sanno lunga. Sostenere che, dopo pochi mesi di governo, Lega e M5S costituissero essi l’establishment poiché sono al governo, come tra altri ha fatto negli scorsi mesi il noto costituzionalista e già giudice della Corte Costituzionale Sabino Cassese, è semplicemente falso o superficiale. Il potere democratico che si misura sul piano elettorale e delle cariche istituzionali è solo una parte del potere, e nemmeno la fetta più grande, accanto al quale pesano poteri, domestici e internazionali, di natura oligarchica, aristocratica, plutocratica, tecnocratica e persino “banditesca”, che per lo più si fanno sentire “dietro le quinte del palcoscenico democratico”. Quel lato del potere e della politica che è stato definito “invisibile” è difficile da documentare e misurare empiricamente, ma  (con buona pace di Dahl e i suoi epigoni) con acume e realismo politico è stato evidenziato da una lunga tradizione di analisi politica di cui, dopo i contributi degli anni ’60 di un Wright Mills o di un Bachrach, si sono sostanzialmente perse le tracce in gran parte della scienza politica dei nostri giorni, nonostante i più recenti richiami da parte di alcuni studiosi della sinistra democratica italiana, come ad esempio Pizzorno o Giorgio Galli. Il “potere visibile”, quello che si esprime attraverso le istituzioni, il voto e il “metodo democratico” (Schumpeter), è però importante, non meno del “potere invisibile”: è, dopotutto, quella parte del potere che ci sta a cuore, stante i valori, la cultura politica e il “credo democratico” (Schumpeter) con cui legittimiamo e giustifichiamo nelle nostre società la distribuzione del potere, delle risorse economiche, della considerazione sociale. Ma guai a confondere una parte con il tutto.

Ma torniamo all’Italia di questi giorni e alle turbolenze politiche di questa estate, innescate da una spiaggia di Pescara dal capo della Lega Salvini, nel clima vacanziero del litorale abbruzzese, davanti ad alcune migliaia di persone acclamanti, a pochi contestatori e a qualche faccia pensosa e interrogativa. Con la carica e la retorica di un comizio, Salvini ha detto “basta!” al governo Conte: al governo nato dopo il voto del 4 marzo dell’anno scorso e di cui “il capitano” è vice-premier e ministro dell’Interno, la Lega colonna portante assieme al Movimento 5 Stelle guidato da Di Maio, anch’egli vice-premier e ministro di peso. Il lettore può trovare altrove ricognizioni e commenti sulla dinamica della crisi di governo in corso, sulle sue cause, sulle procedure istituzionali che la regolano, sulle alternative possibili di fronte alla necessità di avere comunque un governo (con quale profilo, con quale mandato, “tecnico” o “politico”, “di scopo” o di legislatura), se ci saranno o no elezioni anticipate in tempi brevi, brevissimi o più lunghi, su cosa vogliono o possono fare i vari partiti, quali le loro convenienze, quali le loro responsabilità presenti, passate e future. Al momento qui interessa riflettere sul significato di questa crisi di governo; ma anche, più in generale, riflettere, sine ira et studio, sul laboratorio italiano della politica anti-sistema al governo: un’esperienza che rappresenta un’eccezione nelle democrazie dell’Europa occidentale, perché diverso è il caso delle neo-democrazie dell’Europa centro-orientale post-sovietica.

Per riflettere su tutto ciò, al linguaggio analitico della scienza politica abbiniamo quello evocativo di un poeta con la chitarra in mano. Ci aiuterà un De André che rititoliamo: “Il governo della politica anti-sistema: una storia sbagliata?”. Allora… Quella della politica anti-sistema è una storia da dimenticare? È una storia da non raccontare o da svillaneggiare? No: è una storia un po’ complicata. Ma attenti a tirare un respiro di sollievo e a infangarla come una storia sbagliata: chi lo fa dovrebbe poi avere il coerente coraggio intellettuale di aggiungere che allora è una storia sbagliata quella della democrazia. Quella del governo giallo-verde, infatti, è una tessera della nostra democrazia, un pezzetto di storia democratica difficile, contorta, che ci mette di fronte al processo di rifacimento della politica  da anni in corso in tutto il mondo, che mostra l’irruzione della dialettica tra il “mondo di sopra” e il “mondo di sotto”, del conflitto tra, da un lato, élites e chi bene o male è accomodato nel “primo mondo” e, dall’altro lato, contro-élites, ultimi e penultimi incastrati e frustrati nel “secondo mondo”. Siamo alla contrapposizione tra la rivolta delle élites anticipata dall’americano Lasch e la rivolta delle masse analizzata oggi dal francese Guilluy.

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È una storia, quella del “governo (anti-sistema) del cambiamento”, cominciata sotto l’incanto (benefico? malefico?) della luna, dice il poeta; con il voto del 4 marzo e l’euforia delle stelle, con l’ingarbugliamento post-elettorale e l’indisponibilità di Renzi capo del Partito Democratico a offrire la mediazione del Pd per un governo con il M5S, come avrebbe fatto uno statista con senso di responsabilità istituzionale e politica. Mattarella, all’epoca, fu paziente. Ma anche sottilmente scaltro e condizionatore (caso Savona, pressioni per alcuni ministeri chiave) nell’accogliere un governo pentastellato-leghista. Lo fece per il bene del Paese, senza dubbio. Ma tenendo presente ciò che la politica pro-sistema (forte, allarmata e vendicativa) intendeva per “bene del Paese”, dell’Europa, dell’economia, dei risparmi degli Italiani, tutelati dalla Costituzione. E proprio a tutela della Costituzione, Mattarella non poteva chiudere la porta in faccia alla maggioranza parlamentare che gli si presentò davanti dopo le estenuanti trattative post-elettorali tra i partiti.

È una storia, quella del “governo del cambiamento”, che (forse) finisce con un fiume di inchiostro: di “noi l’avevamo detto”, “non poteva che finire così”, “meno male che finisce, la democrazia è salva”, “cosa aspettarsi da un governo proto-fascista e proto-analfabeta?”. Sarà. Ma è, questa, la democrazia difficile dei nostri tempi difficili: una storia un po’ sputtanata, una storia poco scontata. Una storia sbagliata? Direbbe il poeta: è una storia diversa, per gente comune; una storia speciale per gente normale. E chiederebbe ai critici: cos’altro sapete dare a queste vite ingiallite; e cosa saprete fare ora che il cielo e gli dei al cuore le han colpite, dopo che “cielo e dei” ai bordi le avevan già scolpite?

È una storia concitata. Oggi vestita a lutto o a festa. È una storia arrabbiata. Vogliamo farne una storia da basso impero o usarla come remo del nostro veliero? È una storia di periferia, canta il poeta. Ma è una storia di una botta e via? È una storia del tutto sconclusionata? Solo una storia sbagliata? Ci accontentiamo che sia una storia che ci lascia con una spiaggia ai piedi del letto? Non sappiamo fare di meglio per dare sostanza politica a quell’incantevole e incantatore mito che è la democrazia?

E Mattarella? Il Presidente della Repubblica nella democrazia parlamentare italiana ha un ruolo e poteri che solo una scienza politica abbarbicata nei suoi conformismi disciplinari non riesce a vedere, tanto che nei manuali universitari ci sono ampi capitoli dedicati a partiti, parlamento, governo, gruppi di interesse e movimenti sociali, politiche pubbliche, leggi elettorali, ma solo poche, scarne e vuote righe al Presidente della Repubblica, sparse qua è là. E invece il Presidente, specie nei momenti di crisi politica, e cioè sempre più spesso, è un attore non solo istituzionale ma anche, a tutto tondo, politico. Mattarella, oggi, ha margini di manovra molto più ampi di quelli che gli si attribuiscono. Ad esempio, può dare un secondo mandato a Conte, verificare se in Parlamento, organo supremo in materia, si esprime una maggioranza. È in Parlamento che in una democrazia parlamentare va verificato se esiste una nuova maggioranza; o se, attraverso una crisi, si ricostituisce quella vecchia, che ritrova un suo senso politico, con i protagonisti che ritornano a più miti consigli: con lucidità, sguardo lungo e responsabilità, per un verso, la Lega dovrebbe ritirare la mozione di sfiducia, per l’altro, il M5S dovrebbe aprire a una revisione del “contratto di governo” trovando un accordo che dia priorità ai fini comuni e mediando sul modo che ciascuno ha in testa per realizzarli; entrambi dovrebbero trovare un più sobrio equilibrio nel definire la politica di regolazione dei flussi migratori, mettendo fine alla strumentalizzazione partigiana dei “porti aperti/porti chiusi” che a causa degli opportunismi politici e ideologici di maggioranza e opposizioni, di ministri e magistrati, di media e Unione Europea, sta sgretolando il senso delle istituzioni statali e facendo scempio del significato di autorità in una comunità politica.

Ovvero, è in Parlamento che va verificato se ci sono le condizioni per rinnovare il mandato a Conte, per dare vita ad un Conte-bis con il compito minimale di varare la manovra di bilancio, indicare all’Ue il commissario italiano e nel caso gestire le elezioni, eventualmente anche come governo di minoranza se la Lega rinuncia a stare al governo (sarebbe uno dei tanti governi di minoranza che oggi pullulano in Europa). Avremmo così un governo politico, sostenuto, come minimo, dalla forza politica relativamente maggioritaria uscita dalle ultime elezioni e presente nell’attuale parlamento. Un governo, ovviamente, in carica per affrontare le urgenze di questi mesi. Poi le elezioni, dato che la democrazia ha bisogno che gli equilibri tra le forze in Parlamento rispecchino in una qualche decente misura quelli tra le forze politiche nella società. Un governo del genere sarebbe comunque preferibile ad un governo “tecnico”, che tecnico non può essere affatto e che a forza di riproporsi alla guida del Paese sfiata il senso di ciò che chiamiamo democrazia, e rende colpevole il lamento per il “populismo” dei cittadini. E sempre in Parlamento va verificato se ci sono oppure no le condizioni per un serio governo di legislatura, che non interrompa la vita del Parlamento eletto il 4 marzo e che porti ad affidare ad un governo di legislatura e a questo Parlamento la responsabilità di decidere sul taglio del numero dei parlamentari, di riformare o meno la democrazia rappresentativa italiana con iniezioni (e quali) di democrazia diretta, di scegliere le importanti cariche istituzionali che andranno in scadenza nel frattempo, compresa quella del Quirinale. Questo ci si aspetta da una politica creativa e responsabile. E che le maggioranze e le opposizioni maturino idee e una visione di una società che sta cambiando, guardando con attenzione ad un “mondo di sotto” che chiede ascolto e risposte ai suoi problemi.

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