(Uscito in versione leggermente diversa e con altro titolo su “l’Adige” e “Alto Adige”, 7 novembre 2018 – Pubblicato su questo sito il 18 luglio 2019)
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Il quadro nella sostanza non è mutato: aggiornate ai tempi, le riflessioni sul rifacimento dell’ordine internazionale fatte alcuni mesi fa possono qui di seguito essere riproposte.
Il 6 novembre gli Americani rinnovano il Congresso. Le elezioni di mid-term ci diranno della forza della Presidenza Trump, del peso elettorale di due anni di clamorose manifestazioni pubbliche ispirate dal Partito Democratico contro Trump, se si andrà o no all’impeachment del Presidente. I sondaggi danno in testa i Democratici, anche se i Repubblicani di Trump sono dati in rimonta. Per l’opinione pubblica, americana e non, è un referendum su Trump. Staremo a vedere. Ciò che sappiamo fin da ora è che sul piano istituzionale ai Democratici non basta semplicemente vincere. Attualmente i Repubblicani hanno la maggioranza dei seggi sia alla Camera (235 contro 193), sia al Senato (51 contro 49). Per muovere a loro vantaggio i rapporti di forza in Congresso, i Democratici dovranno strappare ai Repubblicani almeno 22 seggi alla Camera e/o 2 seggi al Senato.
Quale che sia l’esito del voto, intanto l’Amministrazione Trump ha già contribuito al rifacimento della politica dei nostri tempi: della politica interna americana e, soprattutto, della politica internazionale. Da sempre la politica interna (specie di una grande potenza) e quella internazionale sono fittamente intrecciate. Cosa accade negli Stati Uniti ha effetti pesanti sul resto del mondo, sugli equilibri del sistema internazionale. Gran parte delle élites economiche e l’opinione pubblica transnazionali riflettono con preoccupazione sulle sorti dell’ordine internazionale liberale, quello cui associamo il benessere e la pace del secondo dopoguerra, anche se solo per alcune parti del mondo.
Per comprendere il rifacimento della politica dei nostri tempi e le forze che lo interpretano ci sono buone ragioni per preferire il concetto di politica anti-sistema a quello, correntemente usato, di populismo. Trump, infatti, è soggetto centrale della politica anti-sistema. Anche e soprattutto. Qui il “sistema” da cui la politica trumpiana prende distanze è quello dell’ordine internazionale liberale uscito dalla Seconda Guerra Mondiale, e ridisegnato come sistema “unipolare” dopo il tramonto dell’impero sovietico.
Un recente esempio della politica internazionale anti-sistema di Trump è l’annuncio, riportato dal Guardian, del ritiro americano dal Trattato INF (Intermediate-Range Nuclear Force) sui missili nucleari a medio raggio, sul disarmo e sul controllo nucleare che impegna, primi tra tutti, Stati Uniti e Russia, e siglato da Reagan e Gorbaciov nel 1987 a Reykiavik. Molti osservatori ritengono quel trattato pietra angolare del disgelo USA/URSS che pose fine alla Guerra Fredda e al mondo bipolare, aprendo le porte al “nuovo” ordine internazionale liberale. Per la grande stampa internazionale e la cultura politica dominante è l’ennesima riprova che Trump è il pericolo n° 1 per l’ordine mondiale e liberale: “La dottrina Trump sta vincendo e il mondo sta perdendo”, “La guerra di Trump all’ordine mondiale liberale”, “Salvare l’ordine liberale da Trump”, “Il leader del mondo libero vuole distruggere le alleanze, le relazioni commerciali e le istituzioni internazionali dell’ordine liberale”, “la politica di Trump, dettata da ignoranza e risentimento, rischia di portarci al disastro”, così sulla grande stampa internazionale e i commentatori di mezzo mondo.
Tra la Presidenza Trump e l’acuirsi della crisi dell’ordine liberale in effetti un legame c’è. Ma Trump è la causa o l’effetto della crisi? È la malattia o un suo sintomo?
L’ordine internazionale liberale nasce all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, in risposta alle crisi e ai violenti travagli, specie europei, della prima metà del Novecento, per volontà degli Americani e degli Europei, di Roosevelt e Churchill. E nasce sulla base di una condivisione di ideali (pace, libertà, prosperità e democrazia) e di interessi (economici, geopolitici e di sicurezza) declinati in chiave occidentale e a leadership americana. A dargli corpo operativo sono ONU, Bretton Woods, Piano Marshall, Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale, NATO, GATT (poi Organizzazione Mondiale del Commercio).
All’Amministrazione Trump si imputa la responsabilità di aver aggredito e, forse, seppellito, questo ordine. Ma l’architettura ideologica ed istituzionale dell’ordine liberale del dopoguerra era cominciata a sgretolarsi ben prima della comparsa di Trump, su entrambi i suoi pilastri. Primo, a livello “fattuale” e del potere: a causa di una progressiva redistribuzione internazionale delle risorse economiche, di potere e di prestigio avviatasi alla fine della Guerra Fredda a vantaggio di nuovi sfidanti degli Stati Uniti; a causa della sempre più difficile condivisione tra Stati Uniti e suoi alleati dei costi di gestione dell’ordine internazionale; a causa di una declinante volontà da parte americana a sostenere il peso della propria egemonia. Secondo, a livello “normativo” e dei valori: i valori “universalistici” dell’ordine internazionale liberale da tempo sono entrati in collisione con i valori che vengono proclamati in differenti aree del mondo, caratterizzate da peculiarità politiche, economiche e culturali che rendono sempre più difficile per l’America e il suo ordine liberale l’imposizione o la condivisione della politica internazionale plasmata dall’Occidente.
Tutto ciò, alla fine, ha reso impossibile escludere da una gestione “efficace” dell’ordine e dell’economia internazionali grandi potenze (Russia e Cina) o potenze regionali (Turchia, Iran, Arabia Saudita, Pakistan, ecc.), Paesi non esattamente congruenti con l’universo liberaldemocratico. Cartina di tornasole del declino del “nuovo” ordine internazionale liberale e dell’America suo storico regista ed interprete è stata la guerra contro l’Iraq condotta nel 2003 dall’Amministrazione Bush jr. in tandem con la Gran Bretagna di Blair, che ha sbugiardato la credibilità morale dell’ordine liberale e segnato, prima, il fallimento dell’ingegneria geopolitica dell’”esportazione della democrazia” e, poi, l’inefficacia della sua revisione da parte della Presidenza Obama.
Ben prima dell’irruzione politica del tycoon americano, la Russia di Putin era già impegnata in una diffusa sfida al modello di ordine internazionale alimentato dagli USA e dai suoi alleati, provocando frizioni tra Europa e Stati Uniti, in Europa e nella NATO, rafforzando la sua posizione strategica nella sua area o in Medio Oriente, cercando raccordi con Iran o Turchia, come evidenzia lo scacchiere della Siria. La Cina già prima della Presidenza Trump aveva di fatto abbandonato la strategia di sfruttare i benefici dell’ordine liberale e iniziato a spingere per un cambiamento degli equilibri internazionali, proponendosi come nuovo centro dell’economia globale, e trovando ascolto persino al Forum di Davos. Già prima della comparsa di Trump, buona parte degli Stati piccoli o periferici sono diventati più inclini a riorientare le loro alleanze, perseguendo i loro interessi vitali in accordo alle potenze emergenti, qualora queste assicurino vantaggi superiori rispetto a quelli della lealtà al vecchio ordine. Tutto ciò, sia beninteso, vale anche per i Paesi europei, Italia compresa.
Quando Trump arriva alla Casa Bianca si trova a dover definire una politica internazionale obbligata a confrontarsi con un sistema internazionale che non è più quello liberale unipolare del dopo Guerra Fredda; si trova ad agire in un sistema che vede una superpotenza globale (Stati Uniti) affiancata da due grandi potenze macroregionali (Russia e Cina) oppure sfidata da un nuovo asse (quello sino-russo) con pretese egemoniche. Ma Trump si trova anche a fare i conti con una crisi della stessa cultura politica dell’ordine liberale. Egli la intercetta, interpreta, alimenta e condivide.
Sostenere che il modello liberale di ordine internazionale abbia perduto presa sotto i colpi della Presidenza Trump significa non comprendere le correnti profonde che hanno cambiato il sistema internazionale e che hanno portato al processo di rifacimento della politica tutta.
Certamente Trump e’ un sintomo della crisi del ordine liberale internazionale, ma e’ anche una causa ed e’ giusta, secondo me, l’interpretazione per la quale e’ il pericolo numero uno per l’ordine mondiale e liberale. Il problema e’ che le sue mosse, come il ritirarsi dall’accordo nucleare con l’Iran e cosi’ via, hanno effetti negativi non solo nell’immediato ma anche a lung’andare perche’ aumentano la clima di sfiducia in un circolo vizzioso. Anche se, un giorno, il suo posto fosse preso da uno piu’ saggio e euqilibrato, egli avrebbe difficolta’ enormi sul piano internazionale perche’ gli accordi non si fanno se non c’e’ la ragionevole certezza che quegli accordi saranno rispettati anche dai successori di chi li firma.