Venti di guerra culturale, guerra civile strisciante. Abbassare il tono delle “verità”

(Uscito in versione leggermente diversa e con altro titolo su “l’Adige”, 4 aprile 2019; – Pubblicato su questo sito il 14 luglio 2019)

Il dibattito politico-culturale è desolante. La serenità del confronto laico è alle corde. Estremizzazioni e fanatismi impediscono il “dialogo tra diversi”. Ovunque. Specie su questioni da prendere con le molle poiché toccano l’identità di ciascuno, riguardano come vediamo e giudichiamo noi stessi e gli altri, la società cui vogliamo vivere, sensibilità personali e tabù collettivi. Come fare di fronte all’immigrazione?  Cosa comporta avere fedi religiose o credo ideologici? Cosa è “famiglia” o coppia? Maschi e femmina sono identità definite o “fluide”? Eguaglianza tra donna e uomo significa essere uguali o no, e perché? Temi difficili, controversi. Le idee sono in contrasto, ma ciò di per sé non disturba. A preoccuparmi è il modo in cui i loro sostenitori si pongono l’un l’altro. Nel discorso pubblico, e pure nella quotidianità, si respira ”odio” alternato a profonda diffidenza: si sprigionano parole e sentimenti di ostilità, tesi a sopraffare o tacitare chi sta “dall’altra parte”; con “l’altra parte” non si cerca neppur di parlare, perché non le si riconosce legittimità o ragion d’esistere, e la si boccia come moralmente e scientificamente sbagliata. Punto. Screditare pare l’imperativo morale; caricatura e delegittimazione, le cifre dell’approccio con l’altro. Venti di “guerra culturale”: una “guerra civile fredda” con la cultura come arma, dove la posta in gioco è “chi siamo”, cosa è bene fare o no, come deve essere una società apprezzabile.

La società è spaccata in schiere contrapposte, è un “noi contro loro”. Si parla tanto di inclusione e solidarietà, nei giorni pari; ma nei dispari si nutre una “società separata”, di estranei che faticano a “vivere insieme” comunità e differenze. Il fanatismo rivela un deficit di “senso del noi”, e sfigura la democrazia. Dobbiamo cambiare direzione. Per farlo, il primo passo è rendersi conto di quanto sia importante che ciascuno si spinga oltre il suo stretto punto di vista, riconoscere che anche gli altri, pur se ne disapproviamo le idee, hanno legittima libertà “di pensiero e di fare”, e (ovvio) pari cittadinanza dentro i vincoli democratici.

Nel discorso pubblico troviamo quotidiani attacchi a ciò che non risponde alle nostre visioni delle cose: allarmi di baratri. Con enfasi e disinvoltura si tuona contro razzismo e xenofobia, “famiglia naturale” o stereotipi su uomo e donna. Il risultato: nella vita, nella cronaca e su internet atteggiamenti e linguaggi di sapore razzista o discriminatorio non calano, aumentano. Ciò deve farci riflettere, con pazienza, lucidità. I comportamenti etichettati con disprezzo e certezza come, ad esempio, razzisti o omofobi sono, più di quanto pensiamo, spie di altro: trasudano paure culturali o disorientamenti personali, sollevano questioni non banali. È scorretto e ingiusto rinchiudere cose diverse nei linguaggi del razzismo o dell’omofobia. Dobbiamo stare attenti alle “trappole” cognitive, culturali, morali, essere meno sbrigativi o apodittici. Se no rischiamo di vedere “realtà” distorte, con conseguenze perverse. È qui la responsabilità, in primis, di chi la società designa come scienziati, giornalisti, intellettuali. Intendiamoci: prestare attenzione significa impegnarsi ad ascoltare e capire, non giustificare. Circolano paure verso lo straniero, ambivalenze o chiusure verso identità sessuali che sono o si vogliono fluide; sconcerto o dilemmi morali quando tecnologie, medicina e diritto permettono di fare al corpo o alla “natura umana” cose fino ad ieri incredibili, ad esempio su come generare figli. Radicati abiti mentali, antropologici, morali, poco conta quanto “costruiti”, subiscono scossoni. Non è facile governare cose del genere. Ma questo è il punto.

La scienza non risolve ogni problema o incertezza, non di rado è divisa, dà risultati contraddittori o poi smentiti. Il dubbio è il suo suo metodo. La tecnica offre “mezzi”, non risposte risolutive sui “fini”. La morale dà poche risposte univoche o “assolutamente giuste”. La vita è un mare di domande aperte e dubbi, più che di risposte granitiche e verità.

Su tutto questo le élites culturali paiono talora sorde e mute. O schierate, come attivisti militanti a favore delle loro idee di scienza e di giusto. Così, però, finiscono per restringere il perimetro del confronto con chi ha posizioni differenti. E restringono pure il confronto con parti della cultura popolare, magari meno avvezze ai discorsi pubblici o all’uso di sofisticati strumenti argomentativi. Ma non per questo militanti sono, per definizione, meno “sagge”, prive di “buon senso”, o non “cittadinanza”. Coltivare “maggioranze silenziose” non fa bene a nessuno.

Queste élites sbagliano. Volenti o nolenti, restano imprigionate in visioni unilaterali o limitate della scienza, della morale. Sbagliano anche strategia: nei mezzi usati rispetto ai fini che dicono di perseguire. Ad esempio, movimenti e associazioni che vedono solo razzismo in chi ha problemi con l’immigrazione o oscurantismo nel “maschio/femmina secondo natura”, producono effetti perversi: alimentano movimenti “contro-gli-anti”, riducendo lo “spazio di riconoscimento” per chi avverte disagi o pone problemi davanti all’immigrazione o alla “fluidità di genere”, ma non perciò è necessariamente razzista e ottuso. In questo gioco di specchi tra anti- e contro-anti, le posizioni si allontanano di più. Si acuiscono le guerre identitarie.

La nostra società non è immune da idee e persone razziste o omofobe. Ma è bene usare prudenza con le etichette. Anche per evitare cortocircuiti culturali: a forza di sentirsi dire, con disinvoltura o superiorità, “razzista” o “omofobo”, anche chi probabilmente non lo è può scivolare in atteggiamenti censurabili, irrigidirsi nelle idee per contrapporsi alle “verità” anti-razziste o anti-omofobe di chi lo riduce a mostro, idiota, fascista. “Teoria dell’etichettamento” ed ”effetto stigma” docent. È improprio, ingiusto e improvvido dare del troglodita medievale o cattolico oscurantista a chi ha paure, dubbi o idee differenti dalle nostre. Dobbiamo abbassare il tono delle “nostre verità” per poter ascoltare quelle altrui. Solo così possiamo chiedere altrettanto agli altri. È il caso di cominciare subito. Da qualunque parte o posizione. Il mio appello, però, è rivolto anzitutto alle élites culturali “progressiste”. Esse possiedono credenziali massimamente riconosciute nei campi della conoscenza, nelle università, abilità nel forgiare discorsi pubblici, hanno la ribalta dei più accreditati circuiti mediatici. Ma, proprio per questo, hanno anche maggiori responsabilità nell’evitare che il “contrasto dialogato” ceda all”ostilità amico-nemico”.

One Reply to “Venti di guerra culturale, guerra civile strisciante. Abbassare il tono delle “verità””

  1. E’ certamente preferibile un confronto sereno al posto di un confronto estremizzato, non c’e’ dubbio. Il problema e’ che opporsi a chi sta “dall’altra parte” — serenamente o meno — delegittima per definizione le sue posizioni — e accordarle lo status di “espressioni di legittime paure” implica accreditarle in qualche maniera e cosi’ renderle piu’ pericolose che mai. Purtoppo, in stato di Guerra, rinunciare all’uso delle armi implica semplicemente lo sconfitto sicuro. E’ un peccato il clima culturale in cui viviamo, ma cosi’ e’, e non possiamo fare altro che accettarlo e difendere con fermezza i valori in cui crediamo. Purtroppo non so che altro fare. Mi fa venire in mente un’osservazione attruibuita a Churchill nel film, “Darkest Hour”: “You cannot reason with a tiger when your head is in its mouth”.

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