(E)Lezioni americane. Il voto e la fede democratica (ai tempi di Trump & Biden, i nostri)

(Pubblicato su questo sito il 21 novembre 2020 – uscito, con latri titoli, su “Alto Adige del 23 novembre 2020; su “l’Adige” del 28 novembre 2020)

Per stabilire chi è il 46° presidente degli Stati Uniti si andrà a finire davanti alla Corte Suprema? O lo decideranno i rappresentanti degli Stati al Congresso, cosa mai avvenuta dopo il 1875, come ricorda Caroline Fredrickson, docente di diritto alla Georgetown University? Brutta faccenda, quella delle presidenziali americane. Anche se ci si fermerà a un metro dalle porte della Corte Suprema. Come ha ben colto il ministro della Difesa tedesco, Heiko Maas, <<La situazione è esplosiva>>, può portare a una crisi costituzionale degli Stati Uniti. Ma è già una crisi politica, sociale e della cultura democratica, che colpisce al cuore idea, istituzioni e valori della democrazia, e non solo in America. Biden, e chi lo sostiene, anche in Europa, ha ben poco da festeggiare pure se sarà ufficialmente eletto, e non solo proclamato dai media, a partire da Cnn e New York Times, come è stato inauditamente fatto in questi giorni. E ben poco da rallegrarsi ha Trump, e i suoi sostenitori, comunque vada. Essere partigiani per l’uno o l’altro colore politico è una cosa; essere partigiani della democrazia, un’altra. In troppi faticano a capirlo. Consideriamo le cose dal secondo punto di vista, e cerchiamo di ragionare.

La democrazia ha tante facce. Assume differenti profili, ideali e valoriali; dà contorno a speranze e obiettivi collettivi, alle paure e ai danni che uomini e donne vogliono evitare, sia quando vanno d’accordo tra loro sia quando sono in disaccordo; prende forma grazie a pratiche e regole che definiscono il suo funzionamento “concreto”. La democrazia “è” tante cose, e “non è” tante altre cose, più o meno desiderate a seconda dei punti di vista. Diverse sono le idee con cui la rappresentiamo o che circolano nell’immaginario democratico, tra le élites e le masse, tra intellettuali, esperti o cittadini comuni. Tutto ciò va riconosciuto. Ma vero è pure che le nostre democrazie, volens nolens, sono essenzialmente “democrazie elettorali”: questa è la definizione “minima” di democrazia, quella su cui convergono convenzionalmente tanto la scienza politica quanto il senso comune. Questa centralità del voto e “sacralità” delle elezioni costituiscono il fondamento del “credo democratico” condiviso dalla gran parte delle persone. Un credo, così recita la dottrina moderna della democrazia, che non deve essere messo in discussione, vilipeso o sconfessato, oltraggiato o tradito. Il voto, per così dire, incarna il “dio-democrazia”: il suo verdetto, perciò, può non piacere, può essere contestato, ma va rispettato e messo in pratica. A patto, ovviamente, che il voto sia libero, pluralistico, segreto e riconosciuto a tutti i cittadini, espresso secondo modalità rispettose del principio di eguaglianza (una testa, un voto; ogni voto vale, ossia conta, allo stesso modo). Ma a patto anche, e altrettanto ovviamente, che il voto sia regolare e corretto, che si svolga secondo procedure e tempistiche chiare, certe e definite in anticipo riguardo a tutte le pratiche e i passaggi che lo innervano e lo accompagnano: dal momento in cui l’elettore mette il suo segno sulla sua scheda al momento in cui il suo voto arriva al conteggio finale. Ed è proprio qui che nascono i problemi, quelli resi particolarmente clamorosi, seri e inquietanti dalla vicenda americana.

Ecco perché siamo nel pieno dello “scandalo democratico” quando il “mondo di Biden” accusa Trump e i suoi di non rispettare il voto e il suo esito; quando il “mondo di Trump” denuncia irregolarità e brogli nelle modalità e nel conteggio dei voti, e accusa Biden e i suoi di frode; quando l’Election Day non ha dato un presidente agli USA ma ha riempito di tensioni le piazze di sostenitori dell’uno e dell’altro fronte, che tuonano contrapposti: “Count every vote!” e “Count every legal vote!”, dove la differenza tra i due slogan è sottile ma decisiva. Quando si mette in mano ad avvocati, giudici e tribunali, per la democrazia la frittata è fatta, poiché giudici della competizione politica non sono più gli elettori, il tribunale che emette il verdetto non sono più i cittadini che votano. Il gioco così passa ad altri: avvocati che preparano carte bollate, giudici “chiusi” in camere di consiglio, corti togate che sentenziano. Può capitare, per carità. È già capitato in passato, anche nelle consolidate liberaldemocrazie del nostro tempo. Mai però con la radicalità e con la serie di episodi sconcertanti di queste elezioni: qui è una democrazia che fallisce.

La frittata è fatta. Siamo alla “caduta degli dei” dell’Olimpo democratico? Al “dio (democratico) è morto”? Non lo so. È difficile per i contemporanei vedere e capire mutamenti profondi di questo tipo in tempo reale, mentre hanno luogo. La storia è aperta, e le sue narrazioni pure: è sempre l’epoca successiva che mette ordine, secondo i suoi criteri, a quelle precedenti, e che stila i suoi giudizi, quelli che prevarranno “dopo i fatti”. Ma la “questione democratica” gira nell’aria da tempo, ed è più insidiosa di quanto si voglia credere. Ciò a prescindere dal modo in cui gli americani riusciranno a ricomporre l’elezione del loro presidente. L’osservatore può vagliare e commentare i sintomi di una crisi, di un passaggio d’epoca, il suo significato, cercando di guarda oltre la superficie.

Il conflitto elettorale negli States equivale ad un terremoto per il credo, la “fede” democratica: investe “la più grande democrazia del mondo” (per alcuni) o “una democrazia di fantasia” (per altri). Perché a essere urtata è la fiducia dei cittadini in quel totem politico che sono le elezioni. Il problema non è più Trump o Biden, ma coinvolge decine di milioni di persone che li hanno votati. Molti di loro, un po’ alla volta, rifluiranno nel quieto vivere. Ma il dubbio invece resterà dentro la società, lieviterà, magari in sordina, in qualche angola della testa dei cittadini, nella cultura politica dei nostri tempi: vivrà anche se latente. E il dubbio si mescolerà a rabbia, apatia o rancore; alimenterà scetticismi verso il “gioco democratico. Sono umori, questi, che le nostre democrazie elettorali non possono permettersi in un’epoca afflitta da una sfaccettata crisi di fiducia. Sono dubbi e umori che assaliranno ora gli uni ora gli altri, a seconda di come vanno le cose, a seconda di chi vince e chi perde. E sono dubbi e umori contagiosi. Riguardano anche l’Europa. È l’altro virus. Quello che corrode la qualità del tessuto democratico delle nostre società. Indicarne la malefica causa nel populismo o nel sovranismo, nel negazionismo o nel fascismo è una scorciatoia troppo comoda e per di più fuorviante. È come prescrivere del paracetamolo per curare un’infezione e sostenere che il paziente guarisce perché gli cala la febbre. Ma i don Ferrante restano abbarbicati a spiegare e rispiegare, senza posa, le cause di una peste confondendole con gli effetti o i sintomi, mentre il virus spadroneggia. Se c’è un diavolo che mette sottosopra le nostre democrazie, non è quello contro cui puntano l’indice i don Ferrante. Se c’è, non lo si scordi: il diavolo è un ottimo trasformista, è facile scambiare le sue maschere per la sua faccia. Nel mentre, tutto è condito dalle emergenze, dalla confusione, dalle tensioni legate al pandemico coronavirus e alla sua gestione politica. Per la salute sono proprio tempi difficili.

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