Russiagate e accountability democratica. Perché il ministro Salvini deve riferire in Parlamento

(Uscito, con altro titolo e in versione leggermente diversa, su “Alto Adige”, 20 luglio 2019; “l’Adige”, 21 luglio 2019 – Pubblicato su questo sito il 22 luglio 2019)

Tante parole e tanta confusione sormontano la vicenda degli incontri tra la Lega di Salvini e la Russia di Putin. In verità sappiamo ancora poco e niente a proposito di un supposto accordo tra il vice-premier italiano e il governo russo su una compravendita di petrolio che – si dice – avrebbe previsto un finanziamento occulto (una tangente?) a favore della Lega, che peraltro non sarebbe andato in porto. Troppi “si dice che…” circolano sui mass media. Ma anche troppi fumi e silenzi da parte leghista, mentre il premier Conte, dopo giorni di imbarazzo, mette in agenda un suo intervento al Senato, rendendosi conto di quanto risulterebbe grave la situazione di un Presidente del Consiglio non al corrente di una trattativa commerciale e di politica internazionale che, nel caso, riguarderebbe lo Stato italiano.

Intanto, per l’osservatore esterno resta difficile farsi un’idea un minimo precisa e attendibile di cosa sia accaduto o meno: vero che gli arcana imperii sopravvivono anche nei tempi della pubblica trasparenza democratica, ma la situazione è ancora più ingarbugliata e indecifrabile in un clima politico, come quello italiano, che non ha mai metabolizzato fino in fondo, o lo ha fatto meno che altre democrazie consolidate, la cultura liberale e democratica dell’alternanza al governo tra forze e classi politiche antagoniste tra loro. Questo deficit di senso della democrazia finisce per trascinare nel fango le stesse istituzioni, regole e principi della vita politica, corrosi da una delegittimazione dell’avversario di turno che fa uso di ogni mezzo utile allo scopo (dalla grande stampa alla magistratura). Oggi, ancora una volta, non possiamo negarlo, la credibilità delle stesse istituzioni è al lumicino, e in condizioni persino peggiori (se possibile) si trova quella della politica e dei mass media: con la prima che vede i suoi protagonisti impegnati in una lotta senza esclusione di colpi per il potere o per la sopravvivenza, e i secondi schierati da una parte o dall’altra per partito preso, armati di “notizie e commenti” che usano troppo il machete e troppo poco il bisturi per incidere su un’opinione pubblica sfibrata, sprofondata in una ricorrente guerra tra Guelfi e Ghibellini.

In questo quadro politico e culturale avvilente e periclitante per i costumi democratici, dove perennemente si oscilla tra il dramma e la commedia, vogliamo dare credito a Sergio Romano, già ambasciatore italiano di lungo corso (anche a Mosca) e oggi “grande vecchio” dei commentatori sulle pagine del Corriere della Sera. Dice Romano, in un’intervista rilasciata pochi giorni fa al Giornale: «Quando una vicenda politica internazionale somiglia alla trama di un libro, la prima cosa da fare è esercitare l’arte del dubbio». L’ex-ambasciatore invita alla prudenza di fronte al Salvini-Russiagate, a non prendere per oro colato le notizie uscite su BuzzFeed, e aggiunge: «è visibile, in uno scenario infiammabile come quello italiano, l’interesse a sbarazzarsi di un avversario politico. Fino a quando non ci sono prove non credo che ci sia stato uno scambio di denaro tra la Russia e la Lega». E sia. Affidiamoci allora agli inquirenti che, nel nome della legge e del popolo italiano, hanno aperto l’indagine sul caso, fiduciosi che la corruzione che ha di recente travolto il Consiglio Superiore della Magistratura ha comunque lasciato al lavoro professionisti di specchiata fede nella legalità.

Ma fare nostro il sano consiglio alla prudenza che ci viene dall’ex ambasciatore a Mosca e aspettare, anche in questa occasione, che la magistratura compia il suo cammino, ci lascia in una posizione di attendismo astratto che stride con gli imperativi del lato politico della vicenda, e che non possono lasciare muto e passivo l’osservatore. Questi imperativi riguardano ciò che ci si aspetta da una “democrazia minima” ma che non sia democrazia solo per il nome che le diamo. E riguardano anche Matteo Salvini. Soprattutto il Salvini ministro e vice-premier.

In questi giorni, trovatosi un po’ in difficoltà, Salvini alla fine ha preso la sua posizione: «Non intendo parlare di soldi che non ho mai visto né chiesto», «Mi occupo di vita reale e non di spionaggio», «Fino a prova contraria, almeno che non si dimostri che qualcuno ha fatto qualcosa fuori posto io ho fiducia nelle persone. Se c’è uno stato di diritto liberale e democratico si è innocenti a meno che non si venga dimostrati colpevoli». Capisco il ministro. Ma come egli ben sa, non è così che funziona la politica, non è nel giudizio di legalità espresso da magistrati e giudici che si esaurisce la democrazia: un leader deve dare conto del suo operato (accountability), deve chiarire la sua condotta negli affari pubblici, compresi quelli che concernono i rapporti internazionali, perché è su questo piano che si giocano la sua responsabilità, legittimità e autorità democratica. Le parole di Salvini sono a fatica accettabili da un capo-partito. Non lo sono per niente in bocca a un alto rappresentante delle istituzioni. Salvini è ministro di tutti gli Italiani, anche di quelli che lo disprezzano, che non lo vogliono, anche di coloro che (sbagliando) lo delegittimano nel ruolo democratico, che lo vedono come un “usurpatore”, che lo accusano di razzismo e fascismo (ovvero reati per i quali la magistratura, peraltro, non lo sta perseguendo). Salvini è esponente di primo piano anche del “mio governo”. E in quanto tale ha l’obbligo politico e morale di spiegare cosa è successo negli incontri bilaterali con la Russia. E, una volta tanto, non lo faccia tramite tweet o facebook. In quanto ministro, che gli piaccia o meno, egli è uomo delle istituzioni, e quindi lo faccia, quando le circostanze lo richiedono, come in questo caso, nei luoghi e con i modi delle istituzioni. Non deve dare conto solo “ai suoi”, ai suoi elettori e simpatizzanti, ma a tutti i cittadini: si rechi in Parlamento, e spieghi ai rappresentanti del popolo italiano e all’opinione pubblica come stanno le cose, la versione dei fatti del ministro della Repubblica, con le sue “buone ragioni”; la esponga e si esponga al libero confronto critico.

Nel nome del popolo italiano che lei tanto ama, caro ministro Salvini, e con cui è tanto in sintonia, nel nome delle istituzioni repubblicane che è chiamato a rappresentare, raccolga l’invito. Si rechi in Parlamento: è un gesto di cui ha bisogno la nostra malconcia democrazia, un gesto che può giovare alla salute delle istituzioni, alla qualità della lotta democratica e del governo di cui Lei è parte importante, al suo partito e al suo futuro di leader politico. Onorevole Salvini, faccia il suo dovere istituzionale: stupisca tutti, faccia la sua parte per la democrazia.

One Reply to “Russiagate e accountability democratica. Perché il ministro Salvini deve riferire in Parlamento”

  1. Condivido la sostanza di quest’articolo. Mi sembra che la ricerca dei “panni sporchi” degli avversari faccia una parte normale del “gioco democratico”. Si tratta di una tattica che e’ sempre esistito ma forse sta diventando una tattica sempre piu’ usata, e mi viene in mente in proposito il titolo del libro di Bejamin Ginsberg e Martin Shefter, “Politics by Other Means”. Non so se la frequenza di accuse e scandali ecc. puo’ essere un indicatore valido della “salute” di una democrazia o meno…..

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