(Pubblicato su questo sito il 24 aprile 2020)
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«Nessun vuoto decisionale. Già dal 20 gennaio avevamo pronto un piano secretato e lo abbiamo seguito. La linea è stata di non spaventare la popolazione e contenere il contagio». Così un alto dirigente del ministero della Salute, come si legge sul Corriere della Sera di qualche giorno fa. Bene. Anzi, perplessi. Ma ritorneremo più avanti su questa “politica della sedazione”. Ora in Italia la crescita del contagio pare in calo. Non in altre parti del mondo, lo si ricordi. Avremmo potuto evitare o limitare stress collettivo, confusione, morti, impreparazione del sistema sanitario e produttivo, intervenendo subito con misure emergenziali di massima precauzione anziché rincorrere il precipitare della crisi secondo l’equivoco principio della “proporzionalità”. Notizie e immagini da Wuhan, sconcertanti, inondavano i nostri media. La percezione di uno scenario di contagio senza confini faceva capolino, ma pochi hanno avuto il coraggio di dire a voce alta che uno più uno, a volte, fa proprio due: viviamo nel “mondo della globalizzazione”, milioni e milioni di persone si muovono per mille motivi da un angolo all’altro del pianeta, una globalizzazione del contagio era nell’aria. Invece, in troppi han reagito con un mix di superficialità e supponenza. È del 27 febbraio, ad es., l’hashtag #Milanononsiferma di Sala, sindaco di Milano capitale economica, che negli stessi giorni si faceva riprendere con lo stesso slogan sulla t-shirt o a mangiare nei ristoranti cinesi del centro per associarsi a una surreale guerra contro il virus del razzismo e della discriminazione. Farà dietro-front solo un paio di settimane dopo, dando tempo al moltiplicarsi dei contagi. Un caso da vetrina, non isolato. Non me ne voglia il sindaco: è stato in buona compagnia politica, con Salvini o Zingaretti. Sono mancati “buon senso” e “intelligenza” (dal latino intelligere, intendere) di fronte a cosa stava accadendo: «Quando il potere è solo stupido», ha notato Massimo Nava. Ora prevalga il buon senso e i comportamenti si mantengano a massima precauzione. Misure e divieti dei governi nazionali e locali lo impongono. Anche il senso civico ha fatto la sua. Ma a fare di più è stata la paura.
Il tempo nelle decisioni pubbliche è cruciale: non si sbagli di nuovo sulla “fase 2”. Anche qui molte le questioni sottili. Sulle urgenze intrecciate (sanitarie, sociali, economiche, di finanza pubblica), il “buon senso” non paralizzi però la capacità di riflettere, non diventi nemico del “senso critico”, necessario pure “ai tempi del coronavirus”. All’intellettuale va chiesto di dare al “buon senso” la parte che merita e di darne una anche al “senso critico”. La gestione della crisi da coronavirus farà interrogare sulla nostra civiltà, su un intero modus vivendi, sul paradigma della società neoliberale, sulla globalizzazione “spensierata”. Sulla politica e, a dispetto delle apparenze, sul mondo della scienza. L’attraversamento del deserto richiede pure questo.
Nel decidere contenuti e timing delle decisioni in situazioni di emergenza, i governi si affidano agli esperti. La storia dice che è sempre stato così: ieri sciamani e sacerdoti, oggi scienziati e ricercatori. “La salute prima di tutto”, così i media han sintetizzano i numerosi decreti del governo Conte 2. Vale anche per la salute socio-economica o culturale del Paese. Nelle (troppe) conferenze-stampa miste a video-facebook, il premier ripete: «Le nostre decisioni le assumiamo sulla base di indicazioni tecnico-scientifiche». In quella del 10 aprile ha comunicato (tra l’altro) l’istituzione di un nuovo “comitato di esperti” socio-economici per il “passaggio di fase”. Oggi i governi non possono non abbracciare la scienza per definire misure a difesa della vita e della salute pubblica, per contenere il virus, per definire quali e quante realtà economiche e sociali da assistere, “quale ritorno a quale normalità”. L’alleanza tra politica e scienza è doverosa. Ma ha molti risvolti. I governi, infatti, si affidano a esperti e istituzioni scientifiche anche per legittimare le loro decisioni, e sfruttano la fiducia del cittadino nel mondo della scienza. Ciò vale doppiamente in tema di salute, vita e morte. Negli ultimi anni la fiducia negli esperti ha però subìto scompensi: ora silenti, ritorneranno. Perciò non trascuriamo come e perché ci si era arrivati. Il caso della salute è paradigmatico. E ritorniamo alla “politica della sedazione”.
Vent’anni fa, su Nature si faceva risalire lo scetticismo dell’opinione pubblica verso la scienza all’epoca dell’esplosione della trasmissione dell’encefalopatia da bovini agli uomini (la “mucca pazza”), quando tra i cittadini lievitavano nuove paure e insicurezze per la salute. Preoccupato, il governo britannico compie una scelta di gestione della crisi che si rivelerà nociva anche per la credibilità della scienza: promuove una “policy manipolativa” dei rischi collettivi e dell’uso pubblico della scienza. Assumendo che i cittadini siano ingenui e vogliano solo certezze e “rischio zero”, il governo decide di offrire “narrazioni rassicuranti”, di “sedare” l’opinione pubblica. In effetti, questa “politica della sedazione”, del tranquillizzare la gente di fronte ai pericoli più seri, è pratica di sempre nella storia. Iil governo britannico coinvolge nella sua comunicazione pubblica anche esperti di sanità e istituzioni della scienza. La scelta si rivela un boomerang: paure e insicurezze nell’immediato vengono limitate, ma tra molti cittadini, proprio come un virus, inizia a propagarsi una sottile sfiducia nella scienza o, meglio, verso scienziati e istituzioni scientifiche. Lo scetticismo, in particolare, colpisce coloro che lavorano in simbiosi con le istituzioni politiche e il mondo economico: il dubbio è che essi adattino le loro raccomandazioni pubbliche agli interessi della politica e delle case produttrici, trascurando quelli della massa dei cittadini in cambio di prestigio sociale, finanziamenti, riconoscimento mediatico, benefici professionali.
Cibo e organismi geneticamente modificati, vaccini, farmaci, ambiente, clima: sono alcuni dei casi in cui, negli anni, sono cresciuti i timori e sospetti che importanti settori della scienza manipolino le informazioni sui rischi per i cittadini al fine di sostenere politiche regolative dei governi, obiettivi di consenso della politica, interessi del mondo economico (profitti, crescita, occupazione). Si tratta solo di “pregiudizi ideologici”, irrazionalità, oscurantismo antiscientifico? Non sempre. È innegabile che “sistemi di relazione” più o meno collusivi (contiguità sociologica, convergenze di interessi, “porte girevoli”, conflitti d’interesse) trovino spazio nei circuiti decisionali, dove lavoro, aspettative e interessi di esponenti del mondo politico, economico e scientifico, s’intrecciano tra loro. Da qui un certo sfibrarsi della fiducia nelle scelte delle autorità politiche, ma anche nelle autorità scientifiche: soprattutto verso quelle che si applicano a spiegare e supportare pubblicamente tali scelte. Politici ed esperti oggi devono essere consapevoli dei danni, degli effetti perversi o delle conseguenze inattese che può avere la “politica della sedazione” dell’opinione pubblica, che cerca di rassicurare cittadini impauriti da un’epidemia virale che minaccia salute, vite, famiglie, imprese. Nel lungo periodo, la politica della sedazione mette a repentaglio la credibilità di politici e scienziati. E alla fine anche la salute della società. Ma possiamo farne a meno?
caro Rino,
lucida analisi la tua. Io temo fortemente che il contraccolpo sarà molto forte anche per le forme che l’autogoverno aveva assunto nel ridotto alpino, Il tema dell’autonomia, con i due recenti interventi di Mario Raffaelli e Mauro Marcantoni sul “Corriere del Trentino” ( Due testimoni della lungo iter di attuazione dei provvedimenti previsti dal secondo statuto del T.AA.) riconquista l’attenzione che merita anche alla luce della crisi nel rapporto centri-periferie determinata dalla pandemia da Coronavirus. Di “rigenerazione autonomistica” parla Marcantoni, mentre Raffaelli, esponente nazionale di Agire, chiede che sul “valoreaggiunto”dell’autonomia l’intera comunità batta un colpo. Percorso questo tutto in salita, se solo si tengono a mente i passaggi del lungo iter istituzionale che ha caratterizzato la discussione sul terzo Statuto ( per approfondimenti, è disponibile l’amplissima documentazione in due volumi curata da Paolo Piffer per il Consiglio Provinciale di Trento) e portato ad un esito scontato; che la montagna dovesse partorire un topolino era chiaro fin dalle premesse, con il costituirsi a Trento e a Bolzano, di due organismi, Convenzione e Consulta, rispondenti alla diversa impostazione politica delle due provincie. Gli elaborati prodotti sono finiti in un cassetto invece di essere sottoposti a rielaborazione comune in Consiglio regionale, il luogo preposto in ultima istanza ad esprimersi sul terzo statuto, d’intesa con il Parlamento. Viene da chiedersi se alla base di tutto ciò non vi sia stato il sostanziale congelamento del processo di autonomia dinamica avviato con la legge costituzionale del 2001 che, pur mosso dalle migliori intenzioni dei proponenti per migliorare la convivenza fra i diversi gruppi linguistici, esaurì il suo compito con il trasferimento della “sovranità istituzionale” dalla Regione alle due Provincie. la scarsa attenzione, a livello comunitario europeo, per le questioni regionali, fondamentali per la risoluzione dei conflitti che impediscono di dare alla comune civiltà europea il giusto sbocco istituzionale vagheggiato dai padri fondatori, trova una conferma, con il precipitare della crisi dell’Unione europea, nell’incapacità di affrontare le drammatiche scelte imposte dalla Pandemia in atto (il rifiuto del Nord Europa di ricorrere agli Eurobond). Imporre una radicale revisione in senso federalista del patto fra gli Stati europei, con una chiara divisione di competenze fra comuni, regioni e stati, abbandonando la tattica temporeggiatrice che dura da decenni, è l’unica via di salvezza. Ad un secolo dal manifestarsi degli eventi che portarono ad un radicale riassetto geopolitico del Trentino, per questa terra italiana di confine si ripresenta l’urgenza di collocarsi nel nuovo contesto europeo che nascerà, passata la tempesta virale; se da un secolo in qua il non essere stati capaci di trovare le ragioni dello stare insieme non fu, sul lungo periodo, ostacolo insormontabile alla crescita del Trentino e del Sudtirolo, oggi la necessità assoluta di agire concordemente per salvaguardare il bene comune è sotto gli occhi di tutti. Differenze di impostazione politica non saranno tollerabili, stanti i gravi problemi in campo economico e sociale che il coronavirus ci lascerà in eredità. Con la battuta d’arresto del processo di integrazione europea viene a mancare l’idea stessa di Europa, tema all’ordine del giorno in Trentino almeno dai tempi della Dieta di Francoforte del 1848. Stare fermi comporta la scomparsa dall’agenda politica del tema dell’autonomia, con una ancor più netta divaricazione di intenti fra Trento e Bolzano.