Sfiducia e protesta nelle democrazie sotto-sopra

Sfiducia e protesta nelle democrazie sotto-sopra

 

  1. In Italia la sfiducia deborda. In Francia esplode la protesta. Scontro sociale sotto la cenere?

Ah i sondaggi… Valgono quel che valgono, pochi dubbi. Ma (per quel che valgono, se valgono) valgono tanto nei giorni dispari, quanto in quelli pari: al di là del colore delle lenti con le quali ciascuno guarda il mondo. Un recentissimo sondaggio d’opinione dell’IPSOS-Italia[1] dedicato alla (s)fiducia nelle banche in Italia all’indomani del crack prima della Valley Silicon Bank, poi del Credit Suisse, mostra una forte mancanza di fiducia dei cittadini, sfiducia via via alimentata negli ultimi anni dalla pandemia da Covid e dalla sua gestione, dalla guerra russo-ucraina e dal coinvolgimento dell’Occidente, dell’Europa e dell’Italia, dal caro energetico, dall’aumento dell’inflazione e del costo del denaro, dalla lievitazione dei mutui.

Nel presentare pubblicamente i risultati dell’indagine[2], il direttore scientifico dell’IPSOS-Italia, Enzo Risso[3], ha sottolineato che la forte e galoppante sfiducia colpisce un po’ tutta la classe dirigente: riguarda banche, istituti di credito, Banca Centrale Europea, manager, imprenditori, ceto politico, inclusi “esperti” e operatori dell’informazione e delle comunicazioni di massa. Secondo il 75% delle persone che hanno risposto al sondaggio, coloro che operano all’interno del sistema dirigente “non comprendono la difficoltà della vita reale della gente comune”; per questo 75%, inoltre, coloro che hanno la responsabilità di regolare il funzionamento della società e di risolvere i problemi collettivi (e in primis quelli delle fasce sociali più deboli) scaricano le inefficienze e l’inefficacia del sistema da essi governato sulle persone comuni, sui consumatori, sulle famiglie. Il direttore scientifico dell’IPSOS rileva che a essere messo sotto accusa “è tutto un modello, che è quello del neoliberismo imperante”. E chiosa: “c’è la sensazione che sotto la cenere ci siano delle tensioni sociali che stanno ribollendo”.

Siamo al preludio di uno scontro politico-sociale tra i ceti centrali e quelli periferici? Le protratte proteste e manifestazioni nelle piazze della Francia di queste settimane, contro la riforma delle pensioni voluta da Macron e dal suo “governo debole” (di consenso elettorale, ma forte alla luce della struttura costituzionale della V Repubblica francese), una riforma imposta con un decreto-legge che ha spaccato l’Assemblea Generale, tali proteste sono certo legna e benzina per lo scontro sociale; così come lo sono i disagi e le tensioni sociali molecolarizzati eppure accesi sotto la cenere. Ma quanto dureranno le proteste dei Francesi. Ma quanta brace arde sotto la cenere della vita sociale quotidiana?

Difficile fare previsioni sul medio periodo, tuttavia qualcosa bolle nella pentola dei nostri tempi. Cosa, di fatto, accadrà dipende, però, da un lato, dall’abilità e dalla forza dei ceti dirigenti e centrali nel proporsi come pompieri o come incendiari di fronte alle proteste e al diffuso malcontento; dall’altro, dall’abilità e dalla forza delle periferie popolari frustrate. Si arriverà alla “rabbia sociale”? Prenderà il sopravvento la rabbia sociale infiammante? Oppure “camomilla” e “valeriana” saranno più che sufficienti a sopirla, ad addomesticarla, a spegnerla?

Vedremo. Intanto è bene ricordare che niente nasce da niente. Gettiamo perciò un’occhiata a una pagina europea di tensione politica, sociale, culturale, ormai riposta in un cassetto. L’esercizio aiuta a tratteggiare il paesaggio in cui viviamo.

 

2. Perché la Brexit è l’immagine del clima politico nel quale ci troviamo

Quanto è difficile far vivere un regime democratico! Osserviamo le nostre sedicenti democrazie. Sono diventate “democrazie sotto-sopra”. La politica fatta di destra e sinistra è ormai quasi irriconoscibile. È una regressione della cultura politica. Tornare sulla Brexit può servire a cogliere qualche motivo di queste trasformazioni della politica e delle fratture sociali, economiche e culturali delle nostre democrazie.

La Brexit è uno spaccato della politica contemporanea. A distanza di anni, offre un’immagine che ben delinea il clima e gli squilibri politici in cui tutt’ora sono immersi i regimi liberal-democratici e le società dell’Occidente “sviluppato”. E cioè, detto in sintesi: viviamo in “democrazie sotto-sopra”, in sistemi politici formalmente democratici ma che in effetti possiamo chiamare “post-democratici”, se non vogliamo ricorrere a etichette più impegnative e meno edificanti; viviamo in società che sono andate sempre più polarizzandosi sull’asse verticale “sotto-sopra” che va soppiantando quello orizzontale “destra-sinistra”, in un quadro dove si sta assottigliando l’area sociale di mezzo, quella del ceto medio sempre più in affanno. È in questo ceto che troviamo la massa critica di quelli che a partire dagli anni ’90 dello scorso secolo sono stati definiti “i perdenti della globalizzazione”, un ceto che è andato sempre più impoverendosi a livello economico e che sul piano socio-culturale è scivolato verso l’emarginazione; questo ceto medio è poi stato ulteriormente svuotato dalla crisi economico-finanziaria esplosa nel 2008. Oggi questo ceto medio per molti aspetti rappresenta il neo-proletariato della “società dei servizi e dell’informazione”, un ceto dove colpisce, da una parte e anzitutto, la forte presenza delle generazioni più giovani che sono socialmente, culturalmente ed economicamente precarizzati e fragilizzati; dall’altra parte, la presenza di fasce adulte impaurite dai cambiamenti che si prospettano come minacce alle loro tutele e condizioni sociali, ai loro diritti e risorse acquisiti, e quindi minacce al loro futuro e al futuro dei loro figli.

Sotto questo profilo, gli orientamenti elettorali emersi in occasione del referendum britannico sulla permanenza o sull’uscita del Paese dall’Unione europea (2016) sono un utile affresco del paesaggio politico e socio-culturale che fa da cartina da tornasole delle società dell’Occidente opulento e insignito della medaglia d’oro all’Olimpiade della democrazia (un paesaggio che vediamo disegnarsi praticamente in tutte le occasioni elettorali del tempo corrente). Tali orientamenti elettorali ci dicono dell’irriconoscibilità della politica fatta di destra e di sinistra (fatti salvi alcuni temi inerenti in particolare “diritti civili di ultima generazione”, “manipolazione” delle identità sessuali, filiazione, “fine vita” ed eutanasia o altri temi “eticamente sensibili”). Ci dicono delle fratture sociali, economiche e culturali che stanno cambiando faccia alle nostre società e alle loro auto-rappresentazioni come democrazie. Ci dicono, forse, anche di una “regressione” della cultura politica contemporanea che prende lucciole per lanterne quando urla “Al lupo! Al lupo!” di fronte alle ondate di successo dei movimenti e dei partiti “populisti”. E, allora, ritorniamo su questa benedetta/maledetta Brexit, spennellando qua e là qualche elemento del profilo che ha mostrato.

3. Andiamo indietro nel libro, a qualche capitolo fa

Shakespeare permettendo, all’inizio era: “To leave or to remain? That is the question”. Uscire dall’Unione Europea o restarci? I britannici sono stati chiamati a scegliere, cosa che (detto per inciso) è possibile avvenga in una democrazia ed è espressamente previsto in tutti i trattati dell’Unione europea. E hanno scelto, esercitando la loro libertà democratica, nel pieno rispetto dei costumi costituzionali. Va anche sottolineato che, a dispetto delle aspettative, la partecipazione referendaria ha superato il 72%: un livello non poco significativo se valutato nel contesto della crisi partecipativa pluridecennale in tutta Europa e se ricordiamo che solo un anno prima (2015), per il rinnovo della Camera dei Comuni, al voto si è recato il 66% dei britannici.

All’epoca dei fatti scrivevo che l’importanza del referendum Brexit è simbolica e politica prima ancora che economica (come invece discettavano esperti, politici e media). E notavo che una volta passata la drammatizzazione della campagna referendaria e l’inevitabile turbolenza finanziaria in cerca di nuovi assestamenti, il tempo si sarebbe fatto carico di mostrare come nessuno possa credibilmente accreditarsi quel “Dopo di me il diluvio!” che la tradizione attribuisce a Luigi XV. Nemmeno l’UE. E in effetti il diluvio fin’ora non si è visto. Del resto, troppo diversi sono i nostri tempi, in Occidente, da quelli pre-rivoluzionari di Luigi XV e che tali erano anche perché intrisi di violenza: un’epoca che a mala pena riusciamo a immaginare o a accettare, sebbene restiamo legati agli ideali di eguaglianza, libertà e fratellanza che tale epoca ci ha lasciato in eredità. Eppure, lo stesso, il referendum britannico ha spessore di evento storico. È rivelatore del nostro rapporto con la democrazia, o con il fantasma della democrazia; così come è rivelatore del tramonto della divisione politico-ideologica destra-sinistra, soppiantata da quella tra “sopra” e “sotto”, tra élites e massa, tra “centri” e “periferie”: una divisione ben più antica e radicata di quella tra destra e sinistra. Quella tra “sopra” e “sotto” è una frattura ridiventata ai nostri tempi vieppiù carica di una vitalità politica che si fatica a cogliere con i linguaggi e le istituzioni della politica in voga: troppo “liquidi” i primi e troppo rigide le seconde, ed entrambi fuorvianti.

La stragrande maggioranza della rappresentanza parlamentare di Westminster (oltre che gran parte dei governi europei) era (ed è sostanzialmente rimasta) contraria all’”uscita britannica dall’UE”; lo stesso la maggior parte degli organi di stampa e del mondo della comunicazione, delle pop-star o degli intellettuali. Eppure, nelle preferenze popolari espresse dal referendum ha prevalso il Leave. A distanza di tempo, quel risultato merita ancora riflessioni. Ad esempio, il fatto che i giovani abbiano per lo più votato Remain, al contrario dei più anziani, non giustifica le singolari e rumorose accuse ai vecchi che avrebbero stravolto il voto e irresponsabilmente dato la vittoria al Leave, pregiudicando e rovinando il futuro dei giovani. Ho sempre fatto fatica a comprendere la bontà di un simile argomento, dato che ho sempre pensato che gli anziani abbiano pieno e pari diritto a esprimere la loro volontà, come i giovani e come tutti: non è così che funziona una democrazia? I diritti politici sono stati conquistati per tutti o solo per alcune categorie (siano i giovani o altre)? Discriminazione del genere e argomenti di tale natura erano in voga o in vigore nei regimi oligarchico-liberali. Ai giovani, e ai loro numerosi portavoce, ieri come oggi, andrebbero fatte osservare almeno un paio di cosette. Primo: anziché recriminare che siano i vecchi che votano a pregiudicare il loro futuro, vorremmo rammentare che padri e madri, nonni o zii prefigurano il futuro dei giovani in molte sfere della vita, e che ciò dipende da come la società è organizzata (non dagli anziani), una tutela e protezione da parte dei più vecchi che non sembra poi così tanto sgradita a molti figli o nipoti. Secondo: i giovani (e quanti li fiancheggiano in simili recriminazioni politiche) dovrebbero interrogarsi sul perché i giovani siano andati così poco alle urne, sul perché non hanno fatto pesare la loro preferenza, sul perché non abbiano esercitato la loro responsabilità civica verso il loro futuro.

A riguardo della partecipazione al voto, più in generale, andrebbe anche considerato che quando una parte cospicua dell’elettorato non si reca alle urne, deve esserci un qualche motivo, magari anche serio. Per favore, non buttiamola a tarallucci e vino. L’astensionismo è ormai diventato un indicatore non banale del dissenso e della delegittimazione di democrazie elettorali quali si presentano le nostre: misura il mancato sostegno al sistema-democrazia, per richiamare il lessico della seminale teoria del politologo liberal-democratico David Easton.

4. Democrazia sotto-sopra e populismo

Sondaggi e dati di tipo strutturale relativi alla Brexit hanno messo in rilievo anche altri aspetti del voto degni di nota. Nelle grandi città ha prevalso il “restiamo in Europa”, nelle realtà più provinciali l’exit. Ma, ad esempio, nella stessa capitale del Regno l’opzione “uscita” è stata maggioritaria tra la classe operaia dell’East London; a Liverpool, più ci si allontana dal centro più la preferenza per l’exit cresce, fino a risultare largamente vincente nelle periferie; lo stesso a Newcastle-Gateshead, importante conurbazione inglese. Inoltre, per il Leave hanno votato in quote maggioritarie disoccupati, pensionati più deboli, chi ha casa in affitto o bassi gradi di istruzione, ceti sociali e categorie professionali di livello medio e basso. Insomma: per il Leave si sono espressi soprattutto i gruppi sociali più popolari (populisti?) e più svantaggiati, per il Remain i ceti superiori e quello che qualcuno, con troppa leggerezza, ha definito ceto medio “riflessivo”. Appunto, come stiamo sostenendo: una linea di divisione socio-politica e culturale “sopra-sotto” anziché “destra-sinistra”.

Queste tendenze, come sappiamo, non riguardano solo la Gran Bretagna. Trovano crescente riscontro nelle elezioni politiche nazionali un po’ in tutti gli Stati europei. Tali tendenze costituiscono il cuore dell’odierno malessere democratico: la separatezza tra, da un lato, le élite (e i ceti sociali a queste incorporate), che sono a vario titolo europeiste, e che gustano la dolcezza europeista, e, dall’altro lato, le fasce sociali più deboli o escluse dalla piena cittadinanza, che soffrono l’amarezza europeista (e inoltre quell’area di ceto medio che percepisce e vive in una condizione di scivolamento verso il basso e verso l’esclusione). Questa separatezza costituisce il cuore politico e vitale che pompa fiammate di una specie di rivolta contro le “democrazie delle diseguaglianze e della marginalizzazione” e contro quell’UE che guida e coordina tali democrazie, dove tali diseguaglianze e marginalizzazioni vengono spesso politicamente interpretate e intercettate politicamente dai movimenti e dai partiti così detti populisti, sovranisti, nazionalisti o anti-europeisti, i quali tutti galleggiano in qual grande mare che è il malessere democratico e l’euroscetticismo sua costola.

In questa scena socio-politica e politico-culturale protagoniste inascoltate o raggirate sono le diseguaglianze e le esclusioni sociali aumentate negli ultimi decenni, sia sul piano dei diritti formali che, soprattutto, su quello delle “capacità” di poter esercitare i diritti. Diseguaglianze ed esclusioni incarnate da quella “società dell’un terzo” prefigurata una trentina di anni fa Ralph Dahrendorf e che oggi s’aggira estranea lungo i viali alberati del turbo-capitalismo e delle democrazie-postdemocratiche, marginale e ignorata dalla “società dei due terzi” che vive a gonfie vele o che almeno trova un qualche posto a sedere nei pressi della tavola apparecchiata.

Secondo una vulgata con curriculum politologico accreditato, la storia della democrazia è lastricata da promesse che non sono state mantenute e che non possono essere mantenute nelle nostre società. Secondo questa vulgata, il populismo altro non sarebbe che il ricorrente ritorno in auge di promesse irrealistiche e di assai dubbia qualità etico-politica, insomma una infondata “teoria popolare della democrazia”. Niente di nuovo in questa scienza politica che oggi va per la maggiore, dato che si rivela essere niente che una riedizione (peraltro impoverita e dozzinalizzata) dell’“elitismo democratico” schumpeteriano formulato sul finire della Seconda guerra mondiale e che ha plasmato la dottrina e l’immagine della democrazia contemporanea a partire dalla Guerra Fredda: un’idea di democrazia reale data per scontata senza aver mai considerato scientificamente (e cioè secondo ragion critica) la sua dipendenza dalla scelta di alcuni anziché altri postulati (o “valori”, nel senso di Max Weber). Cerchiamo di essere seri: è alla luce ti tali postulati o valori che l’idea schumpeteriana, molto seminale[4], sta in piedi ma anche cade[5]. E allora: chiediamoci se davvero le ondate di neo-populismo dei nostri tempi non si possano spiegare, comprendere e pure giustificare con un linguaggio un po’ più semplice: alla luce dell’inclusione e dell’esclusione dalla vita civile, ovvero del “centro” e della “periferia” di quella cosa chiamata democrazia; ossia alla luce delle istanze socio-economiche, culturali e politiche che percorrono e agitano la “società dell’un terzo” (abbondante) degli esclusi e marginalizzati, quale ne sia la strumentalizzazione politico-elettorale che ne possano fare gli “imprenditori (schumpeteriani!) politico-elettorali di turno o quale che sia la capacità (la forza) di questi ultimi nel trovare e implementare risposte che appaghino le domande. Dei populismi si possono fare facili caricature. Ma così restiamo sul piano della propaganda politica: legittima quanto vogliamo, ma altra cosa è l’analisi di un fenomeno politico per cercare di capirlo e spiegarlo, ovvero perché per dare conto del suo emergere.

Machiavelli diceva che si può scrivere di politica stando o dalla parte del principe o dalla parte del popolo. Oggi molti scrivono per il principe di turno o suoi facsimili. Sono da leggere con attenzione. Qualcuno scrive per il popolo. Credo meriti altrettanta attenzione. I populismi parlano come se dovessimo vivere in una società decente, che difenda o restituisca a tutto tondo la dignità civile a coloro a cui i mercati (o rapporti di forza) vari (economici, politici, socio-culturali) tendono inesorabilmente a negargliela. Se il mercato capitalistico non può che creare differenze e diseguaglianze di classe, alla politica democratica spetta il compito di fare dei suoi cittadini dei gentlemen, e cioè fare in modo che ciascuno possa godere di una condizione di vita civile tale da essere accettato e considerato membro a pieno titolo di una società civile. Se la politica liberale-democratica considera questo obiettivo come nient’altro che una promessa irrealistica e non mantenibile, come non prendere atto di una convinzione tanto irremovibile? Ma, anche, poi, come non prendere atto che una simile convinzione racchiuda o giustifichi la rinuncia a una società decente e dignitosa per tutti? E, infine, come stare a schiaffeggiare e svillaneggiare le tendenze populiste che reclamano decenza e dignità, o quanto meno tengono aperta la partita? Come farlo senza che il viso non arrossisca quando ci si intrattiene a parlare di inclusione e di democrazia? Come farlo di fronte alla “ribellione delle élite” e al “tradimento della democrazia” da parte loro? Come farlo davanti alla “secessione dei ceti superiori” e dei governanti politici divenuti vieppiù promotori dell’abbandono di ogni cura e preoccupazione per il bene comune e per il bene pubblico?[6]

Di fronte a società così terremotate, le classi dominanti cercano di minimizzare ricorrendo alla politica dello struzzo, cercano di drammatizzare oppure di negare la contestazione dell’ordine dominante, dipingendola come una reazione irrazionale o minoritaria: imputano la disaffezione e il dissenso ai segmenti marginali (che lo siano per sfortuna o per colpa) delle società sviluppate e del benessere, quei segmenti che cadono vittima della sconsiderata propaganda opportunistica della politica populista. Ma ciò che le classi dominanti e quel che resta delle cerchie che vi orbitano attorno faticano (in buona o i cattiva fede) a cogliere è che a rischiare di essere marginalizzata, esclusa e periferizzata dal vivere civico è ormai una fetta cospicua e crescente della società: per un aspetto o l’altro, spesso più sottili o inediti rispetto a quelli tradizionali o del passato, la distribuzione di individui, famiglie o gruppi sta tendendo a ridisegnare lo spazio sociale secondo una forma neo-piramidale. Una forma che sfigura quella romboidale preconizzata e acclamata dal corpo di generali, ufficiali e trombettieri della “società affluente”, con intendenza e manodopera al seguito.

Sia come sia, civile e decente è una società in cui le istituzioni non umiliano le persone e i cui membri non si umiliano tra di loro. E questa non è una questione di Leave o Remain, né di populismi à la carte. O qualcuno forse ritiene che la Bruxelles buro-liberal-democratica sia al di sopra di ogni sospetto etico-politico ovvero rappresenti il panglossiano migliore dei mondi possibili? La vedo dura per il giovane Candid…

All’inizio degli anni ’30 José Ortega y Gasset, intellettuale di fede liberale e tutt’altro che amante delle masse e della quantità in politica, scriveva: «La salute delle democrazie, qualunque siano il loro tipo e il loro grado, dipende da un misero particolare tecnico: il procedimento elettorale (…) Senza l’appoggio di un autentico suffragio, le istituzioni democratiche vanno in aria»[7]. Il lettore può facilmente osservare quanto negli ultimi decenni l’affluenza alle urne si sia prosciugata. Provi, allora, ad applicare alle nostre liberaldemocrazie il “teorema di Ortega y Gasset” e rifletta sulla diagnosi che tale applicazione gli restituisce sui nostri tempi. Che fine ha fatto quella cosa che chiamiamo democrazia?

 

NOTE

[1] IPSOS-Italia fa parte di una rete internazionale di istituti di ricerche di mercato e di opinione pubblica con casa madre a Parigi. Sul sondaggio qui considerato vedi IPSOS, Crisi bancaria: la fiducia nelle banche in Italia, 31 marzo 2023.

[2] Vedi ad esempio “Il Sussidiario” del 31 marzo 2023.

[3] Risso lavora anche come docente presso l’Università La Sapienza di Roma, e non è accreditabile come portavoce di una cultura politica antiliberale, o anti-sistema o in qualche modo “altra” rispetto a quella mainstream.

[4] Basti pensare che la ritroviamo alla base delle concezioni di un David Easton, di un Robert Dahl, di un Giovanni Sartori, di un Norberto Bobbio e via sfogliando il catalogo della politologia istituzionalmente accreditata.

[5] Vedi G. Nevola, Il “fatto democratico”. Democrazia, crisi, trasformazione (in particolare par. 3: “Il problema di Schumpeter. Decostruire Schumpeter”), in A. Millefiorini (a cura di), Democrazie in movimento, Mimesis, 2022.

[6] Vedi C. Lasch, The Revolt of the élites and the betrayal of democracy, Norton & Company, 1995; C. Guilluy, No society. La fin de la classes moyenne occidentale, Flammarion, 2018.

[7] J. Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, il Mulino, 1984, p. 181 (ed. or. 1930).


 

(Pubblicato su questo sito il 4 aprile 2023)

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