(Uscito su “l’Adige”, 23 marzo 2019 – Pubblicato su questo sito il 24 maggio 2019)
I Capi di Stato di 21 Paesi membri dell’Ue, compreso Mattarella, han lanciato un appello in vista del voto europeo. La politica è da tempo in movimento, e uno dei temi che la scalda è l’Europa. Per quale Europa vale la pena impegnarsi e battersi? La contrapposizione tra europeisti e populisti o sovranisti, che tanta eco trova, può essere retoricamente efficace, ma è fuorviante. La frattura che spiega i termini della lotta politica vede, piuttosto, da una parte chi continua a difendere l’Europa neoliberale disegnata a Maastricht e affidata alla regia “germanocentrica” di Bruxellese, dall’altra chi la mette in discussione e intercetta il diffuso disagio popolare. I critici riscuotono consensi nel nome di un’Europa che affronti i problemi in modo più solidale e rispondente alle frustrazioni del ceto medio, al senso di insicurezza economica o di marginalità culturale, politica e psicologica percepiti dai “penultimi”. È Ineccepibile che una buona politica dia attenzione agli “ultimi”, agli “esclusi”, come dice in particolare la sinistra. Ma sostenere la causa degli “ultimi” contro i “penultimi”, come sembra giusto, cela un moralismo sociologicamente astratto, che innesca effetti sociali perversi e politicamente rischiosi: così una democrazia non si “auto-governa”, e non si fa neppure il bene degli “ultimi”. Nel chiedere un voto per l’Europa, la sinistra europea farebbe bene a confrontarsi seriamente con la politica “anti-sistema”.
L’appello dei Capi di Stato ricorda che l’integrazione europea ha aiutato a fare la pace in Europa, dopo che ideologie, nazionalismi e interessi economici senza freni han dato barbarie e due guerre mondiali; ha organizzato condizioni e rapporti tra gli Stati a favore di crescita, benessere, diritti. L’appello chiede ai cittadini d’impegnarsi per un’Europa integrata. Va accolto. Ma senza rinunciare al senso critico e alla libertà di dissenso: come suggeriscono gli stessi firmatari, criticare l’Ue, gli obiettivi che ha effettivamente perseguito o raggiunto, non solo è legittimo ma doveroso.
L’appello associa l’Ue ai «principi di libertà, uguaglianza, solidarietà, democrazia, giustizia e lealtà all’interno e tra i suoi membri». È una tesi impegnativa, e problematica. Ma ha senso. A patto di non confondere i “mezzi” con i “fini”: i principi citati sono i fini da perseguire, l’Ue è il mezzo per farlo. Se il mezzo non raggiunge i fini, o si cambiano i fini o si rivedono i mezzi. Ciascuno la pensi come vuole, ma è difficile accettare che porre mano ai fini sia preferibile a riattrezzare i mezzi. Il vero tema all’ordine del giorno non è “Europa sì, Europa no”, ma “quale Europa?”. È accettabile qualunque “Europa possibile”, anche se tradisce i fini a cui teniamo? Dobbiamo difendere a spada tratta l’”Europa-mezzo” a scapito dei “fini dell’Europa”? Qui è la chiave della partita sull’Europa: dire che è in gioco la sopravvivenza dell’Ue, che l’alternativa è tra europeisti e anti-europeisti, rudimentalizza la questione e mortifica ogni discorso sui fini. Il malessere nei confronti dell’Europa rimanda a un aspro scetticismo sulla volontà e capacità dell’Ue di corrispondere ai fini legati all’idea di Europa, non è anti-europeismo.
L’appello europeista dei capi di Stato dice che oggi «per la prima volta» si parla molto di ridimensionare certi aspetti dell’integrazione. Spiacente, non è così: l’euroscetticismo parla da un ventennio, sempre inascoltato; si è acuito negli ultimi dieci anni, per la crisi economico-finanziaria, la sfida migratoria e le risposte venute dell’Ue. Molti cittadini han reagito come potevano, col sostegno a forze politiche “anti-sistema”, politicamente e ideologicamente diverse tra loro. Tutto ciò non è causa ma sintomo e conseguenza di quella che è una crisi di legittimità dell’Europa targata Maastricht. Questa crisi può danneggiare gli ideali europei? Sì, ma non necessariamente. La crescita delle forze “anti-sistema” esprime, infatti, una “politicizzazione dell’Europa” che, se ben compresa, può essere positiva, un passaggio obbligato e utile a una crescita democratica dell’Ue. A condizione che élite, contro-élite e cittadini prendano di petto il problema dei problemi: di quale Ue abbiamo bisogno?
Da tempo si sente ripetere che gli effetti di globalizzazione economica, migrazioni, terrorismo, cambiamenti climatici non si fermano ai confini nazionali. Indubbio. Ma l’Ue ha mostrato capacità di governare tali sfide? Il suo seno ha nutrito la Brexit, covandola, senza capire, come fosse “una cosa fuori dal mondo”; si è rivelata incapace a gestire con assennatezza politica e morale la crisi del debito sovrano greco, e le responsabilità di operatori bancari e finanziari, sottoponendo Atene ai diktat di un “risanamento” che ha causato l’aumento di centinaia di bambini morti per mancanza di risorse per la sanità; ha mancato di dare regia continentale alla crisi migratoria nel Mediterraneo, abbandonando a se stessi i Paesi più esposti; ha praticato un “governo dei vincoli” finanziari con evidenti disparità tra i Paesi, tanto che persino Juncker, il discutibile presidente della Commissione Ue, oggi ammette “candidamente”: «I tedeschi hanno violato il patto di stabilità 18 volte – le ho contate – e continuano a farlo, e non hanno ancora messo sotto controllo il loro surplus». Scorgere in tutto questo tracce di raziocino politico e solidarietà è fantasioso. Questa è l’Europa del modello neoliberale, bandiera della politica pro-sistema di centro-destra-sinistra. Non è più difendibile, né accettabile. Va cambiata. Oggi lo affermano anche i suoi strenui difensori, che, dopo averne cantato a lungo le lodi senza vedere ciò che andava visto, sentenziano: «Riformeremo noi l’Europa!». E perché no? Ma sono ancora credibili agli occhi di tanti cittadini? È “cosa del diavolo” dare cittadinanza politica a chi ha saputo cogliere non da ora i problemi europei, e smetterla di seminar la paura per un presunto nuovo “male assoluto”? Cambiare lo spartito europeo è necessario, ma non sempre sufficiente: a volte van cambiati pure gli interpreti.
Senza giri di parole, chiediamoci se l’Europa costruita in questi decenni è quella che vogliamo o se è arrivata l’ora di costruirne un’altra. Una che, ad esempio, valorizzi il principio democratico di sussidiarietà. In vista del voto europeo, al cittadino sta il compito di capire qual è l’Europa su cui puntare: in democrazia non si può prescindere dal consenso, va ascoltata la voce di tutti i cittadini, senza generalizzati ostracismi anti-populisti, anti-sovranisti. Urge un’Europa che riesamini se stessa con occhio critico. «Quest’Europa ha necessità di un vivace dibattito politico su quale sia la direzione migliore per il futuro. L’Europa è in grado di sostenere il peso di un dibattito che includa un’ampia gamma di opinioni e di idee», scrivono i Capi di Stato nel loro appello. Ne sono convinto. Andare a votare con questo spirito di libertà e legittimità delle proprie scelte è la forza dell’Europa. Nessuno, in alcun modo, dovrebbe sfigurarla.
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