Lo “scàndalo” di Xi a Mosca: “Nessun Paese ha il diritto di dettare l’ordine mondiale”

Lo “scàndalo” di Xi a Mosca: “Nessun Paese ha il diritto di dettare l’ordine mondiale”.

Il guanto di sfida cinese che schiaffeggia Washington e l’Occidente

 

  1. Regole cinesi e regole americane

All’indomani del vertice tra il presidente cinese Xi Jinping e il presidente russo Vladimir Putin, il portavoce del Consiglio di sicurezza Nazionale della Casa Bianca, John Kirby, ha laconicamente commentato: «La Cina non ha una posizione imparziale rispetto al conflitto ucraino», bocciando di fatto il piano cinese per porre fine al conflitto e illustrato da Xi a Mosca. «La Cina e la Russia vorrebbero che il mondo andasse secondo le loro regole» – ha aggiunto Kirby[1]. Già. Gli Stati Uniti, infatti, sostengono risolutamente che le regole dell’ordine internazionali già esistono. Già. Ma quali sono? E, poi, quali sarebbero “queste regole cinesi”?

Nel corso della sua visita a Mosca Xi Jinping aveva rilasciato importanti dichiarazioni sulla guerra russo-ucraina e sull’ordine internazionale. Primo: «L’interesse comune di tutta l’umanità è un mondo unito e pacifico, piuttosto che diviso e instabile… La risoluzione del conflitto in Ucraina sarà possibile se le parti seguiranno le linee guida del concetto di sicurezza collettiva». Secondo: «La comunità internazionale ha riconosciuto che nessun paese è superiore agli altri, nessun modello di governo è universale e nessun singolo paese dovrebbe dettare l’ordine internazionale»[2].

 

  1. Xi a Mosca, Biden al Summit della democrazia

Con la rielezione di Xi Jinping al terzo mandato quinquennale come presidente della Repubblica Popolare Cinese, il 13 marzo a Pechino si sono concluse le sessioni di lavoro dell’Assemblea Nazionale del Popolo. Da questi lavori è emersa una Cina tesa a proporsi come “potenza responsabile”, capace di mediare le tensioni internazionali e di definire termini e regole dell’ordine internazionale. Tale un’ambizione è stata attestata, ad esempio, dal recente successo diplomatico cinese nel portare a un accordo tra Iran e Arabia Saudita. La visita ufficiale di Xi a Mosca, durata tre giorni e conclusasi il 22 marzo, così come il contestuale vertice con Putin[3], si iscrivono in questo scenario. In particolare, disegnano la postura cinese sulla guerra russo-ucraina e sul conflitto internazionale Occidente/Oriente, di cui la guerra russo-ucraina è un riflesso. Tutto il quadro orbita, prima facie, intorno alla frattura geopolitica Europa-Russia e al connesso allargamento della Nato nell’Est europeo nel corso dell’ultimo quarto di secolo; una frattura sulla quale, più in profondità, si estende l’ombra di Stati Uniti e Cina, oggi attivi sotto le spumeggianti onde del mare in una sfida tra pretendenti guardiani del mondo.

A gettare luce sulla strategia politica cinese è, in particolare, un position paper[4] di fine febbraio, dove, trattando espressamente della «crisi ucraina», troviamo invero delineata la visione di Pechino del “mondo a venire”. Una posizione resa ancora più ferma ed esplicita nel già citato articolo di Xi per i media russi, diffuso in occasione del vertice moscovita con Putin, dove il presidente cinese, nel nome della “sicurezza collettiva” internazionale, afferma: «Nessun modello di governo è universale e nessun singolo paese dovrebbe dettare l’ordine internazionale». Ah…

In questo quadro, la Cina ha non a caso recentemente organizzato il China Development Forum (CDF) 2023, la “sua Davos”, con inviti riservati e la partecipazione di oltre 100 delegati stranieri, tra cui importanti dirigenti di multinazionali, ricercatori, esperti di finanza, rappresentanti di organizzazioni internazionali e il sempreverde Henry Kissinger, oltre che con la presenza di molti autorevoli esponenti del governo e delle istituzioni economiche e finanziarie cinesi.

Da parte loro, sotto l’egida degli Stati Uniti, a fine marzo (29-30), si è tenuto il Secondo Summit per la Democrazia nel mondo, fermamente voluto dal presidente Joe Biden fin dalla prima edizione del 2021. Un vertice co-ospitato in virtuale insieme a Corea del Sud, Costa Rica, Paesi Bassi, Zambia; coinvolgente 120 Stati, “presenti” anche rappresentanti di corporations del settore tecnologico e di associazioni della società civile. Finalità: «Rinnovare la democrazia in patria e affrontare le autocrazie all’estero» (Joe Biden), nel segno della lotta contro l’autoritarismo e la corruzione, e della difesa dei diritti umani a livello mondiale[5]. Il summit si connota in contrasto rispetto alle analoghe iniziative di soft power condotte dalla Cina, proprio per il suo appello ai principi “democratico-universalistici” rivendicati dal mondo occidentale. Ma è proprio (anche) su questo punto che si pone la questione sollevata in queste settimane dalla presa di posizione cinese davanti a tutto il mondo. Al di là di ogni retorica, condivisa o meno che sia (e pur sempre fisiologica e legittima nella sfera della politica), lo stesso summit bideniano ha un significato e un valore eminentemente funzionali agli interessi degli Stati Uniti e del mondo occidentale di cui essi sono potenza egemonica[6]: ossia, allargare e rafforzare un fronte di alleati che condivida e difenda determinati principi e interessi internazionali (così come la loro gestione globale), per come essi si sono definiti e affermati a partire dal Secondo dopoguerra, durante la Guerra Fredda e poi con la fine della Guerra Fredda.

In altre parole, il summit bideniano per la democrazia è rivolto anzitutto alla Cina, non tanto nel tentativo (improbabile) di isolarla, quanto in quello (più realistico) di arginarne la scalata geopolitica al governo del sistema internazionale o i propositi di revisione degli equilibri e delle regole su cui oggi regge tale governo.

Insomma, mentre Xi incontra Putin per parlare essenzialmente con Biden, Biden chiama a raduno il “suo mondo amico” per parlare essenzialmente a Xi. Insomma, dire a nuora affinché suocera intenda.

In questo articolo cercherò di chiarire quale sia la natura della sfida lanciata da Pechino, di fatto, all’Occidente americanista

 

  1. In margine ai “campi” del rifacimento della politica oggi

La politica dei nostri tempi è in ebollizione. Non è un azzardo affermare che stiamo attraversando un processo (o una serie di processi) di rifacimento della politica. Quale possa esserne l’approdo o il punto di equilibrio, come sempre, è cosa difficile a dirsi per i contemporanei. Tipicamente, comprendere un’epoca e i suoi caratteri diventa più agevole ex post, ossia proprio quando l’epoca considerata giunge al suo “definitivo” tramonto – così detta la lezione di Johan Huizinga, il grande storico olandese dell’Autunno del Medioevo[7]. Per noi contemporanei, immersi nei paradigmi, nei linguaggi, negli schemi politici e nella cultura politica che dominano ai nostri tempi, non meno che nella irritente querelle tra informazione, contro-informazione e dis-informazione che sferraglia lungo i binari della “politica visibile” e della “politica invisibile”, resta il compito di cercare di cogliere tendenze, di mettere in risalto snodi e movimenti, e con essi le problematiche che ci interrogano. Ma ai contemporanei resta anche il compito di farsi carico dello sforzo necessario per indirizzare lo sguardo verso direzioni non scontate o non acclamate, e da qui suggerire prospettive sul presente e ipotesi sul corso storico dei fenomeni politici.

I processi di rifacimento della politica che intravedo coinvolgono tutti i “campi”[8] (o facce) della politica: il campo politico nazional-statale, non meno che quello dell’Unione Europea o della Nato e dell’Alleanza Atlantica. Ma anche il campo della politica internazionale, del sistema e delle relazioni internazionali, della geopolitica, sul quale qui mi soffermerò. In questo campo emerge un arretramento della scommessa del globalismo di ispirazione cosmopolitica liberale e un ritorno del sovranismo statale e identitario-nazionale: una tendenza, quest’ultima, che pare rilanciare la più classica logica dell’interesse (e dell’identità) nazionale, ovvero la logica dell’equilibrio delle potenze e delle interdipendenze tra gli attori statali presenti sulla scena mondiale o sui diversi quadranti macroregionali del mondo. Come punto culminante di questo rifacimento della politica internazionale incontriamo la profonda crisi del “sistema internazionale liberale”, nato e consolidatosi all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, e con essa i travagli degli Stati Uniti, baricentro storico di questo ordine.

 

  1. La crisi dell’ordine internazionale liberale. La malattia e il sintomo

Al centro del rifacimento della politica internazionale dei nostri giorni si impone una grande questione interpretativa, di respiro geopolitico, culturale e strategico: quella dell’“ordine internazionale liberale”. Ossia, la questione della tenuta o della fine di questo ordine come modello univoco e condiviso di sistema internazionale che ha (aveva?) messo in discussione e superato la persistenza storica del vecchio modello stato-centrico westfaliano e la sua pregnanza valoriale, interpretativa ed analitica nel mondo contemporaneo uscito, prima, dalla Seconda Guerra Mondiale e, poi, dalla fine della Guerra Fredda.

Qui vorrei intanto sottolineare che la cultura politica dominante in Occidente e le forze politiche “pro-sistema” che vi si rispecchiano hanno identificato in Trump presidente degli Stati Uniti il principale responsabile della destabilizzazione di quell’ordine internazionale liberale che per decenni (si dice non senza una qualche ragione) ha garantito al mondo pace, sicurezza, prosperità e democrazia, dopo gli sconvolgimenti di due guerre mondiali nella prima metà del Novecento. La grande stampa internazionale che esprime la cultura politica dominante in Occidente e, allo stesso tempo, contribuisce a definirla nei suoi contenuti e nel suo linguaggio, non ha avuto esitazioni nell’identificare Trump come un (o “il”) pericolo per l’ordine mondiale e liberale[9]. Ma Trump e la sua politica internazionale costituiscono, invero, più i “sintomi” che non la “malattia” che si dice abbia colpito l’ordine internazionale liberale.

D’altra parte, non dovrebbe sfuggire che alcuni analisti hanno rovesciato il quadro interpretativo che primeggia nella cultura politica occidentale[10]. In questo caso, con perizia di argomento, si è arrivati a sostenere come l’idea che sia esistito un ordine internazionale e liberale (e che tantomeno esista ai nostri tempi), sia un’idea altamente discutibile. Ad essere contestati sono gli stessi assunti fondamentali di tale idea: 1) si contesta che quello nato nel 1945 sia stato un ordine internazionale liberale propriamente internazionale, e si liquida tale visione come nient’altro che una favola, dato che l’ordine uscito dalla Seconda Guerra Mondiale è stato un ordine propriamente “bipolare (USA-URSS), e tale rimasto almeno fino alla fine della Guerra Fredda; 2) si contesta, inoltre, che l’ordine internazionale liberale uscito dal Secondo dopoguerra sia stato un ordine propriamente liberale, dato che a livello internazionale l’era davvero liberale nel commercio dei beni, nei flussi di capitale e nella libera circolazione di massa delle persone non ha avuto inizio prima degli anni ’90. Insomma, le regole dell’“ordine internazionale liberale” che si fanno risalire alla fine della Seconda Guerra Mondiale, quando riguardavano il sistema internazionale tutto, non erano liberali, mentre quando erano liberali non riguardavano l’intero sistema internazionale.

Un corollario di questo rovesciamento del quadro interpretativo è che nella nuova era post Guerra Fredda la globalizzazione, alla fine, si è rivelata molto vantaggiosa per Paesi quali ad esempio la Cina (non certo campioni di liberaldemocrazia), mentre agli Stati Uniti è toccato farsi carico di gran parte dei costi del così detto ordine internazionale liberale (traendone, nondimeno, benefici cospicui).

Da buon politologo della nostra era, e americano, Ikenberry sostiene che l’ordine internazionale liberale di ispirazione occidentale e guidato dagli Stati Uniti è esistito ed esiste ancora: è quell’ordine internazionale caratterizzato da apertura globale dei mercati economici, da istituzioni multilaterali, da sicurezza cooperativa e solidarietà democratica; è quell’ordine imperniato sui classici valori del “mondo libero” che, dopo il 1989, si è ampliato all’Europa dell’Est, all’Asia, all’America Latina, a tratti al Medio e Lontano Oriente, attraverso processi di “democratizzazione” locale interna di molti Paesi e di integrazione di un crescente numero di Paesi nell’economia mondiale del libero mercato. Il punto è però che anche secondo Ikenberry questo ordine mondiale liberale annaspa ormai da tempo, sprofondato in una profonda crisi[11].

 

  1. Dietro l’ordine internazionale liberale, prima e dopo il 1989

Il così detto “ordine internazionale liberale” nasce all’indomani della Seconda Guerra Mondiale: dopo le crisi, i violenti travagli intranazionali e i conflitti internazionali (in primis in Europa) che hanno attraversato la prima metà del Novecento. È un ordine che nasce e decolla per volontà degli Americani e degli Europei, a cominciare da Roosevelt e Churchill. Ed è un ordine che trova motivazione in una duplice condivisione: di ideali (pace, libertà, prosperità e democrazia) e di interessi (economici, geopolitici e di sicurezza). Ideali e interessi declinati in chiave occidentale. Quello liberale è, quindi, un ordine strettamente legato a quell’“atlantismo” che via via, non a caso, ha generato e definito le sue istituzioni portanti. È un ordine imperniato sulla riconosciuta leadership occidentale degli Stati Uniti, che in quest’ordine vedono alimentato il loro “potere strutturale”[12], anche se da esso trae giovamento pure l’Europa, poiché il Vecchio Continente rappresenta un tassello politico, economico e culturale centrale nella geopolitica anticomunista e antisovietica presidiata da Washington.

Dentro questa cornice, sotto la nobile paternità di Kant (cosmopolitismo) e di Adam Smith (libero commercio), massima ambizione dell’ordine internazionale liberale era realizzare una sorta di omologazione dell’arena e delle dinamiche politiche internazionali a quelle della politica domestica: con l’anarchia internazionale a cedere il passo all’ordine gerarchico domestico; con la “politica di potenza” ad arretrare rispetto alla “politica della legge”, con la “politica dell’identità” a smagrirsi di fronte alla “politica dello scambio”.

Durante la Guerra Fredda questa visione liberale dell’ordine internazionale si afferma, tuttavia, limitatamente al perimetro del “mondo libero” occidentale, mentre a livello del sistema internazionale complessivo, convive, quanto meno, con i compromessi di real politik tra il “mondo libero” e il “mondo totalitario”. È solo con il crollo del Muro di Berlino e con il tracollo dell’Unione Sovietica e la disgregazione del suo impero (parallelo a quello americano) che l’ambiziosa visione liberale arriva ad estendersi al sistema internazionale nel suo complesso. In questa fase di “dopo Guerra Fredda” viene a consacrarsi il modello “unipolare” di sistema internazionale, caratterizzato dal prevalere dei principi etico-politici e dall’architettura istituzionale e commerciale liberali-occidentali, nonché da un “quasi sconfinato” potere strutturale degli Stati Uniti[13]. Con la riunificazione della Germania al centro dell’Europa nel 1989, con il collasso dell’Unione Sovietica nel 1991, con la violenta disgregazione della federazione jugoslava (“terra di mezzo” tra i due blocchi imperiali) e con una Cina apparentemente orientata a cercare il proprio cammino e la propria collocazione all’interno di un ordine a guida statunitense, l’America e l’Occidente si sentirono veri e giusti dominatori-regolatori del mondo. È in questo “nuovo” ordine internazionale liberale del dopo Guerra Fredda che, ad esempio, con la sua politica di “riduzione” delle minacce internazionali e della guerra, l’Amministrazione Clinton si fa alfiere e promotrice della globalizzazione (anzitutto economica e tecno-comunicativa) e del cosmopolitismo (culturale e dei diritti umani), mentre l’Amministrazione Bush jr. lancia e pratica la dottrina dell’“esportazione della democrazia”[14], le cui “conseguenze inattese” o “effetti perversi” daranno tuttavia fiato al terrorismo internazionale di marca islamista, alle crisi migratorie e a scenari di “scontro di civiltà”[15].

 

  1. Tra potere e valori, tra interessi nazionali e universalismo

L’architettura ideologica e istituzionale dell’ordine liberale del “dopo guerra fredda” comincia a sgretolarsi ben presto e la sua presa sul mondo si è rivelata via via non poco superficiale o fragile, come risulta almeno già durante le amministrazioni Bush jr. e Obama. E ciò su entrambi i pilastri su cui poggiava[16]. In primo luogo, sul pilastro “fattuale” e del potere: in ragione di una progressiva redistribuzione internazionale delle risorse economiche, di potere e di prestigio avviatasi già all’indomani della fine della Guerra Fredda, e che vede sempre più favorire i nuovi potenziali sfidanti degli Stati Uniti, per un verso a causa della sempre più difficile condivisione tra Stati Uniti e suoi alleati dei costi della gestione dell’ordine internazionale; per l’altro verso, a causa di una declinante volontà americana a sostenere il peso della propria egemonia. In secondo luogo, sul piano “normativo” e dei valori: i valori “universalistici” dell’ordine internazionale liberale, tra alti e bassi, da tempo sono entrati in collisione con i valori “identitari” che vengono proclamati nelle differenti aree regionali del mondo, caratterizzate da peculiarità politiche, economiche e culturali che rendono sempre più difficile per l’America e il suo ordine liberale l’imposizione o la condivisione della “chiave interpretativa” della politica internazionale coltivata dall’Occidente a partire dal dopoguerra.

Nel corso degli anni viene così a prefigurarsi e consolidarsi, da una parte, una disconnessione tra l’”universalismo” dei valori liberali di tessitura occidentale e il “particolarismo” dei valori (o le diverse declinazioni dell’universalismo) in circolazione tra le differenti aree regionali del sistema internazionale[17]; dall’altra parte, l’impraticabilità per l’alleanza atlantica di escludere da una gestione “efficace” dell’ordine e delle crisi internazionali le “grandi potenze” (quali Russia, Cina o India) o le “potenze regionali” (Turchia, Iran, Arabia Saudita, Pakistan, Brasile ecc.) – potenze, tipicamente (quale più, quale meno), non considerate esattamente congruenti con l’universo liberaldemocratico[18].

Nel corso degli anni, la Russia di Putin si impegna in una diffusa strategia di reazione e di ri-equilibrio  nei confronti dell’ordine internazionale alimentato dagli Stati Uniti e dai suoi alleati occidentali, introducendo frizioni tra l’Europa e gli Stati Uniti, all’interno dell’Unione Europea o della NATO, muovendosi a rafforzare la sua posizione strategica regionale o nel Medio Oriente, cercando un raccordo con l’Iran o con la Turchia, come evidenzia, per fare un solo esempio, il suo protagonismo nella crisi siriana[19]. Allo stesso tempo, una volta consolidatasi grazie a un’efficace sfruttamento dei benefici ad essa derivanti da un ordine liberal-globalista che teneva aperto l’occhio di Adam Smith, ma non quello di Kant; una volta consolidatasi grazie all’accreditamento come potenza “distinta e diversa” ma ben integrata nell’economia globalizzata, la Cina comincia a giocare in proprio la sua partita a scacchi: una partita tesa a modificare gli equilibri del sistema internazionale, con l’obiettivo sempre meno recondito di diventare essa stessa il nuovo centro dell’economia e dell’ordine globale. D’altra parte, soprattutto nel corso dell’ultimo ventennio, cresce il numero di Stati medio-piccoli e piccoli che inclinano verso un riorientamento delle loro posizioni geopolitiche e geoeconomiche: ovvero, che si muovono verso il perseguimento dei propri interessi vitali, valutando con una certa flessibilità i vantaggi della lealtà verso l’ordine internazionale esistente, disallineandovisi quando valutano tali vantaggi inferiori a quelli conseguibili con un riallineamento (più o meno tattico) alle potenze emergenti o a quelle sfidanti l’ordine mondiale baricentrato sugli Stati Uniti e i loro alleati strategici.

In un certo senso ed entro certi limiti, ogni ordine internazionale opera come un “regime internazionale”, secondo la definizione di Krasner ben nota agli studiosi del sistema e delle relazioni internazionali. Vale a dire come un insieme di principi e norme, di regole e procedure decisionali, in parte impliciti e in parte espliciti, su cui tendono a convergere le aspettative degli attori che agiscono nello spazio internazionale[20]. Teniamolo a mente, e procediamo.

 

  1. La Cina di Xi e l’Occidente. Tra Machiavelli ed Erasmo

Con una frase sulla quale analisti e mezzi di informazione non si sono sufficientemente soffermati a ponderarne o penetrarne la profondità, di fatto Xi ha detto due cose “rivoluzionarie” per ogni regime internazionale. E quindi anche per l’ordine internazionale liberale, per i suoi regolatori e per i suoi cantori.

1) Sul piano e con il linguaggio del “realismo politico”, non celando che la Cina è grande e crescente potenza geopolitica, militare, economica e finanziaria, Xi ha affermato e reso pubblico a tutto il mondo che il perseguimento degli interessi della comunità internazionale, e quindi l’allargamento e l’approfondimento dell’“integrazione globalista” del sistema internazionale, non possono più coincidere con il perseguimento dell’interesse nazionale americano e con quello degli Stati occidentali suoi alleati de-sovranizzati ovvero variamente incorporati nella “rete imperiale” statunitense.

2) Sul piano e con il linguaggio dei “principi etico-politici”, ha espresso una “visione del mondo” e dell’ordine internazionale dove nessuno Stato, e quindi nemmeno gli Stati Uniti, è depositario di “valori universali” e che, pertanto, non spetta a nessuno Stato imporre i propri valori e principi agli altri membri del sistema internazionale.

È alla luce dell’intreccio tra questi due elementi-assunti che va messa a fuoco la politica internazionale cinese e il messaggio politico cruciale uscito dall’incontro al vertice tra Xi e Putin a Mosca. La portata di questa presa di posizione da parte del presidente cinese si è persa nei rumors dei media e degli uomini politici dell’Occidente. Ma ho pochi dubbi sul fatto che nelle sedi riservate del potere e delle capitali occidentali che contano stia lievitando una miscela di preoccupazione e di “scàndalo”[21].

D’altra parte, il fatto che l’onnipotente presidente cinese abbia voluto comunicare al mondo la “visione cinese” del sistema e dell’ordine internazionale proprio da Mosca e in occasione dell’incontro con Putin non può non avere riflessi sulla guerra russo-ucraina in corso. I cinesi, si sa, parlano poco e mai a caso.

Tra Cina e Stati Uniti è ormai apertamente in atto una competizione globale per controllare il futuro. Il confronto conflittuale è serrato sul piano commerciale, produttivo e delle materie prime. Ma è ancora più saliente e critico sul versante delle nuove tecnologie, a partire da quelle infra-strutturali della comunicazione, dell’intelligenza artificiale, dei Big Data e delle bio-tecnoscienze. Si procede a colpi di sanzioni o minacce di sanzioni, di spionaggio, di inclusione e/o esclusione dagli scambi e dai mercati che contano. Ma il confronto antagonistico sul futuro non risparmia il piano culturale, delle “visioni del mondo”, dei principi e dei valori etico-politici che definiscono il mondo, e che legittimano e giustificano le scelte di ciascuno e le stesse regole alla luce delle quali è definito “giusto” o “accettabile” un certo modo di perseguire le proprie scelte e finalità politiche (in senso lato) anziché un altro. Qui la posta in gioco sono proprio la definizione e la giustificazione della regolazione e del governo di quale ordine internazionale possa e debba essere chiamato ad assicurare e sostenere una “convivenza pacificata” tra gli Stati o, perlomeno, una convivenza che minimizzi il (rischio del) ricorso a forme e strumenti di distruzione o di violenza. Insomma, a essere in gioco è la gestione di quell’irriducibile hobbesiano “dilemma della sicurezza (o dell’insicurezza) reciproca”. Ed è qui, altresì, che entra in scena la storica questione e retorica (in senso tecnico) dei “valori universali” e dei “diritti universali”. Può piacere o meno, ma vista con gli occhi della cultura dominante cinese (o, più in generale, asiatica, ma anche islamica), è qui che si annidano le radici dell’accusa o del sospetto (a dire il vero, anch’essi storici) di “etnocentrismo culturale e morale” rivolti all’Occidente e agli Stati Uniti suo ingombrante interprete e difensore.

Negli scorsi giorni, da Mosca è di questo che ha parlato Xi. Preferendo ricorrere al linguaggio diplomatico e soave della “convivenza dialogica e dell’accomodamento reciproco” piuttosto che a quello più urtante o incendiario del “conflitto egemonico e dell’imperialismo”, nondimeno è come se il presidente cinese avesse voluto dire: “Il sistema internazionale (o quanto meno ‘Noi cinesi’) respingiamo fin nei suoi assunti culturali ed etico-politici l’imperialismo americano-occidentale su come debba funzionare il mondo. Pace che tale imperialismo che abbia esportato la Coca-Cola nel mondo, però ora desta massima preoccupazione che si voglia esportare/imporre al mondo una ‘visione del mondo’ e valori privi in effetti di fondamento universale e invece derivati da pregiudizi ideologici e da culture particolari e particolaristiche”. Tono educato. Contenuti abrasivi.

La Cina ha manifestato a chiare lettere di non credere alla benevolenza dell’egemonia americana, né alle virtù universali dell’ordine internazionale liberale. Non ci ha mai creduto. Né ha mai creduto o recepito senza riserve mentali, alla stregua di Tavole di Mosè aliene da pregiudizi politico-culturali, quell’ordine internazionale liberale forgiato nel Secondo dopoguerra e realizzatosi dopo la fine della Guerra fredda, all’indomani del Crollo del Muro di Berlino e del tramonto dell’impero russo.

Dalla presa di posizione del presidente cinese, a prendere forma è una dottrina del “realismo dei principi”. Si badi, detto per inciso, che si tratta di una dottrina che, peraltro, non è priva di solidi addentellati nel bagaglio delle tradizioni del pensiero politico e morale dell’Occidente[22]. Ad esempio, trova un’alta espressione nel confronto storico e nella dialettica filosofica, a colpi di dialogo e di scontro, tra il “principio machiavelliano” e il “principio erasmiano” che pervadono la politica occidentale (internazionale e non).

Di certo, che piaccia o meno, per come delineata, la “dottrina di Xi” del realismo dei principi sollecita (anche l’Occidente) a riflettere sul fatto che la cultura dell’ordine internazionale liberale, imperniato su un Occidente ormai americano-centrico, forse non ha voluto solamente limitare e governare il “volto demoniaco del potere”[23], ma anche nasconderlo dentro di sé. D’altra parte, anche questa inclinazione a nascondere il potere è una pratica vecchia quanto la storia umana della legittimazione del potere. Come ci rammenta l’antico arcana imperii dei latini – che tuttora veleggia, più o meno discreto, anche nel contemporaneo mondo occidentale. Gradito o meno.

Liberi di pensarla come si vuole. Ma, senza allontanarci dalla cultura occidentale: la teoria politica di Carl Schmitt, a quanto pare, ancora una volta, presenta il conto a quella di Hans Kelsen.

NOTE

[1] Vedi Adnkronos, 21 marzo 2023.

[2] Vedi Ansa.it, 20 marzo 2023.

[3] A riguardo si veda l’articolo firmato da Xi e pubblicato sui media russi in occasione della visita a Mosca: Forging Ahead to Open a New Chapter of China-Russia Friendship, Cooperation and Common Development.

[4] Vedi China’s Position on the Political Settlement of the Ukraine Crisis, 23 febbraio 2023. Il documento è reperibile sul sito Ministry of Foreign Affairs of the People’s Republic of China. Il documento si articola il 12 punti. Il primo punto fissa: «1. Respecting the sovereignty of all countries. Universally recognized international law, including the purposes and principles of the United Nations Charter, must be strictly observed. The sovereignty, independence and territorial integrity of all countries must be effectively upheld. All countries, big or small, strong or weak, rich or poor, are equal members of the international community. All parties should jointly uphold the basic norms governing international relations and defend international fairness and justice. Equal and uniform application of international law should be promoted, while double standards must be rejected»; il secondo punto: «2. Abandoning the Cold War mentality. The security of a country should not be pursued at the expense of others. The security of a region should not be achieved by strengthening or expanding military blocs. The legitimate security interests and concerns of all countries must be taken seriously and addressed properly. There is no simple solution to a complex issue. All parties should, following the vision of common, comprehensive, cooperative and sustainable security and bearing in mind the long-term peace and stability of the world, help forge a balanced, effective and sustainable European security architecture. All parties should oppose the pursuit of one’s own security at the cost of others’ security, prevent bloc confrontation, and work together for peace and stability on the Eurasian Continent».

[5] Vedi Summit for Democracy, contenente programma e agenda del summit e reperibile sul sito U. S. Department of State.

[6] Un significato e un valore sul piano funzionale e del realismo politico che risultano del tutto analoghi a quelli espressi dalle prese di posizioni della Cina e veicolati dalla sua retorica pubblica. Ma con alcune importanti differenze riguardo ai “contenuti sostanziali” espressi e propagandati oggi dalla “visione del mondo” cinese-orientale a fronte di quella americano-occidentale, e cioè riguardo ai principi valoriali e regolativi dell’ordine internazionale fatti valere dalla cultura e dalla prassi politica sostenute, rispettivamente, nel “mondo alla Washington” e nel “mondo alla Pechino”, dove il secondo denuncia il primo, lo contesta e lo rifiuta, rendendo pubblica al mondo intero la sua sfida sui principi universalistici occidentali e sulle loro pretese, principi e pretese che agli occhi orientali rivelerebbero una indebita inclinazione “partigiana-particolaristica”, tutt’altro universalistica, ma piuttosto offensiva della multiculturalità politica che caratterizza le relazioni tra i soggetti dell’ordine internazionale.

[7] Vedi J. Huizinga, L’autunno del Medioevo, Sansoni, 1975 (ed. or. 1919).

[8] Uso il termine “campo” nel senso del concetto elaborato da Pierre Bourdieu. Vedi P. Bourdieu, L. Wacquant, Réponses. Pour une anthropologie reflexive, Seuil, 1992.

[9] A questo riguardo rinvio a G. Nevola, Il “momento Trump” e il rifacimento della politica internazionale, in “Rivista Trimestrale di Scienza dell’Amministrazione. Studi di teoria e ricerca sociale”, 3, 2018,

[10] Si veda ad esempio N. Ferguson, The Myth of the Liberal International Order, in “Global Times”, 11 gennaio 2018. Testo reperibile all’indirizzo web:http://www.globaltimes.cn/content/1084413.shtml (02/09/2018).

[11] Vedi G. J. Ikenberry, The End of Liberal International Order?, in “International Affairs”, 1, 2018. Ad esempio, in un saggio pur ottimista sull’internazionalismo liberale, l’ambasciatore Guido Lenzi, qualche anno fa, pure annotava: «un mondo è svanito ma quello che va affermandosi non è chiaramente riconoscibile. Una vera e propria alterazione genetica è in corso» (G. Lenzi, Internazionalismo liberale, Rubbettino, 2018, p. 14). Sono parole che risalgono a quando della figura di Trump presidente degli Stati Uniti e protagonista d’ufficio della politica internazionale non c’era nemmeno l’ombra. A questa medesima conclusione porta la serrata e vivida ricostruzione storica di M. Schwartz, The End of Atlanticism: Has Trump Killed the Ideology that Won the Cold War?, in “The Guardian”, 4 settembre 2018 (reperibile all’indirizzo web: https://www.theguardian.com/news/2018/sep/04/atlanticism-trump-ideology-cold-war-foreign-policy (04/09/2018).

[12] Ossia quel potere che si struttura nei meccanismi e nei principi di funzionamento in questo caso del sistema internazionale. Vedi S. Strange, Chi governa l’economia mondiale, il Mulino, 1998; G. Nevola, Conflitto e coercizione, il Mulino, 1994.

[13] Il successo della guerra contro l’Iraq di Saddam Hussein invasore del Kuwait (1990), guerra voluta dal presidente americano Bush sr. e acconsentita da URSS e Cina, all’epoca sembrò la pietra angolare del “nuovo” ordine internazionale del dopo Guerra Fredda.

[14] Vedi ad esempio: S. Strange, Chi governa l’economia mondiale?, il Mulino, 1998; J. E. Stiglitz, Globalization and Its Discontents, Norton, 2002; F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, 1992; F. Fukuyama, Esportare la democrazia. State-building e ordine mondiale nel XXI secolo, Lindau, 2005.

[15] S. P. Huntington, Lo scontro di civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, 2000.

[16] Emblematiche del declino del “nuovo” ordine internazionale liberale e dell’America suo storico regista ed interprete sono, da un lato, la guerra contro l’Iraq condotta nel 2013 dall’Amministrazione Bush jr. in tandem con la Gran Bretagna di Blair, e con essa il fallimento dell’ingegneria politica e geopolitica perseguita a livello internazionale; dall’altro, l’inefficacia a porvi rimedio da parte dell’approccio adottato da Obama suo successore alla Casa Bianca. Vedi F. Fukuyama, Esportare la democrazia. State-building e ordine mondiale nel XXI secolo, Lindau, 2005.

[17] Sulla dialettica tra universalismo e particolarismo e la ricerca di un “universalismo particolaristico” si veda M. Walzer, Due specie di universalismo, in “MicroMega”,1, 1991.

[18] Vedi ad esempio A. Colombo, P. Magri (a cura di), Big Powers Are Back. ISPI Report 2018. Reperibile all’indirizzo web: https://www.ispionline.it/sites/default/files/pubblicazioni/rapporto_eng_def_web_0.pdf (03/09/2018).

[19] Vedi I. H. Daalder, Responding to Russia’s Resurgence, in “Foreign Affairs”, 6, 2017.

[20] Come dettaglia Krasner, «I principi sono credenze relative a fatti, rapporti causali e valori morali. Le norme sono standards di comportamento definiti in termini di diritti e doveri. Le regole sono specifiche prescrizioni o specifici divieti di tipo pratico. Le procedure decisionali sono prassi consolidate per prendere ed eseguire decisioni collettive». S. D. Krasner, International Regimes, Cornell University Press, Ithaca, 1983, p. 2.

[21] Inteso nel suo significato etimologico.

[22] Vedi D. Zolo, I signori della pace, Carocci, 1998.

[23] Vedi G. Ritter, Il volto demoniaco del potere, il Mulino, 1960 (ed. or. 1948).


(Pubblicato su questo sito il 13 aprile 2023)

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