L’afonia di un disagio politico-esistenziale. Le società occidentali e la marginalità dell’intelligenza critica

L’afonia di un disagio politico-esistenziale. Le società occidentali e la marginalità dell’intelligenza critica

Le società occidentali contemporanee racchiudono un disagio spesso afono. Un disagio che nasce dalla storia (anche solo quella recente) e da spinosi problemi irrisolti da una società a dominanza neoliberale che reagisce rimuovendoli, equivocandoli o (più o meno dolcemente) reprimendoli. Un’afonia figlia della marginalità sociale, politica e culturale dell’intelligenza critica. Di questo trattano le riflessioni che qui consegno al lettore.

 

  1. Da dove veniamo?

Su quale strada camminano le società occidentali? Quale cultura politica prevale nelle nostre liberaldemocrazie sotto tensione? A partire dagli anni ’70 dello scorso secolo, la cultura politica dominante tra le élites e, progressivamente, anche a livello di massa si è inchinata al modello di vita ispirato dal neoliberalismo. A ritmo incalzante, il neoliberalismo ha impresso il suo marchio al modo di concepire l’economia e la vita politica, il diritto e la cultura, le relazioni collettive e tra le persone.

Dopo la Seconda guerra mondiale, gli Stati occidentali conobbero trent’anni di crescita economica e di diffusione del benessere sociale: sono i “trenta gloriosi” portati alla ribalta dallo storico Hobsbawm nel suo noto Il secolo breve[1]. Siamo all’epoca del “consenso keynesiano”, quando lo Stato interviene massicciamente (e con plauso trasversale tra gli schieramenti politici) a sostegno dei settori strategici dell’economia, a sostegno dell’occupazione, dello sviluppo economico e dei sistemi di tutela sociale delle fasce più deboli della popolazione. Nasce il moderno welfare state e i diritti sociali (istruzione, sanità, pensione, assistenza e sussidi sociali, tutela dei lavoratori) entrano a far parte del sistema democratico della cittadinanza[2]. I diritti sociali si aggiungono storicamente a quelli civili e politici delle libertà e dell’eguaglianza, al fine di dare gambe materiali ai diritti giuridico-formali e mettere la massa dei cittadini in condizione di avere le capacità per esercitare i diritti formali: insomma, l’obiettivo era di integrare gli entitlements (titolarità giuridica dei diritti) con le provisions e le capacities (mezzi, risorse e capacità per esercitare i diritti previsti sulla carta)[3].

Negli anni ’70 quel mondo cessa di esistere. Sotto i colpi della “crisi petrolifera” provocata dalle reazioni dei Paesi arabi produttori contro la guerra israeliana del Kippur e contro l’appoggio dei Paesi occidentali alla guerra, il “Washington consensus” ha il sopravvento sul “consenso keynesiano”, e prende corpo l’inedito combinarsi e sovrapporsi di inflazione e stagnazione economica (stagflazione). Tramontano le politiche di stimolo dell’economia tramite l’intervento dello Stato a favore dell’economia pubblica, tramonta cioè l’“economia pubblica” come fattore di stimolo della crescita economica, che invece viene ora progressivamente perseguita tramite il settore privato; arretra l’“economia mista” (privato-pubblico), che gli stessi politologi liberali valutano come il tipo di economia più adatta per un regime democratico[4]. In Gran Bretagna, Margaret Thatcher, a guida del Partito conservatore, diventa regina del liberalismo. Con i suoi governi vengono ridotte le imposte sui redditi più elevati e aumentata l’imposta sul valore aggiunto (la nostra IVA); vengono ridotti i sussidi alla fasce sociali più deboli; si adotta un “piano di modernizzazione” del Paese basato su politiche di privatizzazione e “liberalizzazione” dell’economia, di deregolamentazione dei mercati finanziari, di esternalizzazione dei servizi pubblici (a partire dalla sanità); si varano leggi anti-sindacali, in concomitanza con la lotta contro i sindacati e con la sconfitta del grande sciopero generale dei minatori (1984), a fronte del quale il governo chiede lo Stato di Emergenza Nazionale – richiesta che viene respinta perché ritenuta una non necessaria e controproducente militarizzazione della protesta[5]. Negli Stati Uniti, sulla falsariga dei governi Thatcher si muove l’amministrazione Reagan, all’insegna del fortunato slogan “Lo Stato non è la soluzione del problema, ma è il problema”. Uno slogan che s’accoppia con quello, altrettanto e forse culturalmente persino più pervasivo, della britannica “Lady di ferro”: “La società non esiste, esistono solo gli individui”. Il “Washington consensus” detta la sua agenda economica, politica e culturale anche alle organizzazioni internazionale e transnazionali, a partire dalla Banca Mondiale, dal Fondo Monetario Internazionale, fino alla stessa Unione Europea (incluso quel World Economic Forum di Davos oggi protagonista dei canali della comunicazione élite-masse): e questa agenda “governa il mondo”[6] e viene prescritta a tutte le latitudini e longitudini della terracqua (e nello spazio cosmico a portata d’uomo).

È nel contesto di questa fase della storia novecentesca che viene coniato l’aggettivo/sostantivo “neoliberale”[7]. Il termine viene riferito a quella componente del Partito Democratico statunitense che andava schierandosi a favore delle Big Corporation e degli apparati militari, componente che da lì a breve, in epoca reaganiana, conquisterà i Democrats e porterà Clinton alla Casa Bianca,

Il prepotente successo di Reagan negli Stati Uniti e della Thatcher in Gran Bretagna, nel volgere di pochi anni, induce i partiti di sinistra, di tradizione socialista e quelli del popolarismo cristiano, ad arretrare fino a ridisegnare il loro profilo identitario e ad abbandonare valori e interessi sui quali avevano costruito la loro storia e i loro successi novecenteschi. La filosofia sociale, la politica e le politiche neoliberali si irradiano anche sul continente europeo, con crescente energia specie a ridosso del “crollo del Muro di Berlino” e della fine dell’Urss, del tramonto del socialismo e della fine del mondo bipolare. Come andrà sottolineando il sociologo Giddens, ideologo della “terza via”, la vecchia socialdemocrazia (così come il vecchio liberalismo) aveva fatto il suo tempo, il mondo era cambiato e con esso la società: è il momento di cambiare anche per le forze di sinistra, per la loro cultura e politica[8]. Le tendenze neoliberali via via guidano i governi della “sinistra di governo” di Blair in Gran Bretagna (1997-2007), di Schroeder in Germania (1998-2005), di Zapatero in Spagna (2004-2011), di Prodi (1996-1998, 2006-2008), di D’Alema (1998-2000)  di Amato (2000-2001) in Italia, e a seguire, per arrivare ai nostri giorni sempre in Italia, quelli guidati da leader o autorevoli esponenti del Pd (Letta, Renzi e Gentiloni tra il 2013 e il 2016 e, non impropriamente, lo stesso Conte 2 tra il 2018 e il 2021). Ma anche altrove in Europa e in Occidente, dove più dove meno, il dettato neoliberale esercita il suo influsso.

Volendo sintetizzare il nocciolo della “visione del mondo” neoliberale e i contrassegni della “società (e della politica) neoliberale”, possono essere messi in rilievo tre principali idea-guida: 1) un’ideologia del mercato-libero capitalista che, recepita a livello politico, ha acquisito forma e contenuto prescrittivi di policies orientate al taglio delle tasse per i più ricchi e alla de-regolazione (deregulation) dei mercati e dell’operare delle grandi imprese e della grande finanza; 2) una concezione della scelta individuale definita e delimitata dentro la cornice e la logica del mercato utilitaristico, una cornice e una logica che assurgono a cifra del governo della vita sociale e umana, dove la libertà economica è il generatore originario e il solo metro di misura di ogni libertà e del valore di ogni altro bene sociale; un aspetto, questo che, non di rado, ha portato il neoliberalismo ad inglobare anche istanze di natura libertaria; 3) il neoliberalismo si propone non solo come ideologia economica, bensì e soprattutto come una dottrina culturale omnicomprensiva, che ispira tanto i leader politici quanto le élite socio-economiche e mass media, ambienti culturali e istituzioni scientifiche, quanto, infine, un coagulo di orientamenti socialmente ed elettoralmente potenti. In altre parole, la visione neoliberale del mercato si ramifica e penetra, in generale, nel modo stesso in cui ormai pensiamo e organizziamo la vita di una società[9].

2. Dove siamo?

Il “nuovo mondo” che è arrivato a noi del XXI secolo ha trovato ancoraggio in un rinnovato ceto medio e nel tramonto della classe operaia tradizionale, nel diffondersi di un “individualismo acquisitivo” e di un certo relativismo morale, nel primato del “privato” e nel passaggio dall’”economia” di mercato alla “società” di mercato, nell’indebolimento del richiamo delle virtù di cittadinanza e del rilievo dei “beni pubblici”, nell’assorbimento della figura del “cittadino” in quella del “consumatore” (anche di politica). Ma ha trovato ancoraggio anche nella frantumazione e dispersione della condizione e della coscienza collettiva dei lavoratori precari, marginali, esclusi o semi-esclusi dal mercato del lavoro e dirottati verso mercati neri. È l’universo della “società dei 2/3 degli inclusi” che si contrappone alla “società dell’1/3 degli esclusi” ovvero del nuovo sottoproletariato vetero industriale o post-industriale.

Nella così detta sfera della “società civile”, le strutture di mediazione tra cittadini e istituzioni dello Stato si moltiplicano, ma anche si polverizzano in un pluralismo di interessi, diritti e identità collettive sempre più settoriali, segmentati ed egoisti, spesso micro interessi e micro appartenenze. I grandi partiti (quelli che restano sulla scena) vanno evaporando, diventano cartelli o macchine elettorali alquanto clanistiche e sempre più personalizzate e “leaderizzate”. La classe politica e la classe dirigente tutta diventano autoreferenziali. In particolare, i partiti perdono le loro storiche funzioni politiche di aggregazione delle domande, di socializzazione delle idee e di rappresentanza di interessi e valori. La chiamiamo disintermediazione. Non molto differente è la sorte dei grandi sindacati, che diventano apparati burocratizzati e quasi integrati nella macchina dello Stato e del sotto-governo.

Questa trasformazione comincia ad arrivare in Italia negli anni ’80, quando in diversi suoi aspetti trova soprattutto interprete il leader socialista Craxi; trionferà poi nella “seconda repubblica”, con il “nuovo corso” berlusconiano presto assimilato anche da gran parte suoi avversari politici, anche nella sinistra postcomunista – a dispetto della contrapposizione frontale. La classica distinzione tra destra, sinistra e centro viene scompaginata, stravolta, di fatto sepolta e talora persino dichiarata tale. La narrazione di una “nuova modernità”, o dell’epoca del post-moderno, pare avanzare inarrestabile, traducendo in un sedicente linguaggio neutro e “non-ideologico”, “oggettivo” e pragmatico, tendenze e orientamenti caratteristici del nuovo liberalismo. Con l’evento simbolico e traumatico del “crollo del Muro di Berlino” trionfa la narrazione della “fine delle ideologie” e della “fine della storia” e si annuncia il trionfo e il diffondersi nel mondo della democrazia liberale, dei suoi pilastri e dei suoi vincoli (nel bene e nel male) costituzionali, del suo libero mercato come meccanismo e valore centrale di ogni aspetto della società e dello stesso funzionamento delle istituzioni politiche.

Così fino ad arrivare ad oggi. O almeno, fino all’esplosione dello “spaesamento” provocato dalle “conseguenze impreviste” della globalizzazione e dell’apertura internazionale dei mercati e dei confini: processi agevolati dalla diffusione delle nuove tecnologie di comunicazione, processi che incidono non solo sui flussi del capitale, della finanza e della delocalizzazione della produzione, ma anche su quelli delle migrazioni intra e inter-continentali di gente in fuga dalla miseria e dalla violenza e che viaggia allo sbando.  

3. Politica pro-sistema e politica anti-sistema. Comprendere per cambiare: è necessario, ma non sufficiente

Volenti o nolenti, a seconda dei casi, oggi siamo coinvolti in tali “conseguenze perverse” della globalizzazione, come impietosamente (e malamente) suggeriscono le notizie sugli “esodi biblici” di migranti e povera gente in cerca di rifugio, di un sogno o di una sopravvivenza decente; come suggerisce la frammentazione conflittuale del sistema internazionale, indice del naufragio del vecchio ordine mondiale imperniato sul mondo bipolare (Usa-Urss), ma anche indice dei contraccolpi provocati sia da un preteso ordine unipolare egemonizzato da un Occidente Stati Uniti-centrico (al tramonto), sia da un multipolarismo internazionale arrembante (e instabile) dove sono aumentanti i Paesi pretendenti un posto alla tavola degli equilibri internazionali egemonici o para-egemonici. Lo “scontro di civiltà” tra Mondo alla McDonald’s e Jihadismo che ha surriscaldato l’Europa negli scorsi anni, è scomparso dalla cronaca solo perché al momento ghettizzato in terre lontane.

Per un altro verso, ormai da oltre un quindicennio l’Occidente, e l’Europa in particolare, annaspa attorno alla pietra filosofale di una crescita economica costellata da crisi dette cicliche mentre forse sono condizione endemica delle società dette sviluppate. Ma su questo fronte non va taciuto il fatto che la tanto sbandierata crescita economica, per come concepita e misurata dal capitalismo neoliberale, non pare più essere un serio metro della qualità della vita e del benessere sociale.

Il rifacimento della vita civile, dei diritti, delle libertà e dei meccanismi democratici che ha avuto luogo sotto il regno del Covid è solo l’ultima e amaramente triste espressione di un mondo che pare davvero guasto, forse ben più di quanto anni fa diagnosticava Tony Judt[10], un intellettuale di orientamento socialdemocratico-liberale, non un paladino di una (peraltro malintesa e distorta) politica anti-sistema.

Il mondo che abbiamo costruito, o che ci è stato confezionato, merita di essere attentamente compreso, osservato con lenti differenti da quelle seducenti ma edulcoranti con cui ci è stato e ci viene mostrato. Questo è il nostro problema. A imporci questo lavoro sono, ad esempio, anche milioni di persone (con una importante quota di giovani) che, specie in giro per l’Europa, negli ultimi due-tre decenni[11], quando vanno a votare (sempre meno) votano in misure significative per i così detti, partiti “anti-sistema”, anche se poi sono frustrati nei loro bisogni e nelle loro aspettative dai gruppi politici che si sono candidati alla loro rappresentanza istituzionale. Si è soliti tacciare questi movimenti come populisti o, peggio, come rigurgiti di antipolitica cialtrona e qualunquista, come movimenti fascistoidi quando non nazi-fascisti, vetero-comunisti o anarcoidi perdigiorno: in ogni caso, pulsioni e movimenti inconcludenti. È davvero così? Anche sì, direi. Ma con una postilla solo apparentemente marginale, e che meriterebbe di essere approfondita, perché in essa si annida forse il nodo centrale dei nostri tempi postdemocratici, e che voglio riassumere con una domanda secca: ma le istanze e i soggetti di una politica anti-sistema come potrebbero “concludere” qualcosa se non li si fa nemmeno “cominciare” o camminare e li si irretisce nella “logica dei vincoli dati”, e da rispettare perché altrimenti si resta schiacciati o devitalizzati a suon di rapporti di forza e di asimmetrie del “potere strutturale”[12]? A camminare s’impara camminando, e pure cadendo di tanto in tanto.

Ciò detto, le forze della politica anti-sistema, spesso assai diverse tra di loro, e comunque le si voglia colorare con le categorie ideologiche tradizionali dell’asse destra-sinistra, non sono la causa del malessere democratico e delle società “sviluppate” del nostro tempo. Sono, semmai, i sintomi e le conseguenze della malattia. Poca lucidità e responsabilità mostrano le forze politiche, mediatiche e intellettuali “pro-sistema” quando li liquidano come “vuota protesta” – tolto il fatto che “protestare” è sana attività democratica e spesso la sola carta che si ritrova in mano chi è escluso dalla vita civile democratica o posto ai margini dei circuiti decisionali, o chi sta all’opposizione. L’opposizione è il sale della democrazia e questo perché maggioranza e chi governa sono sempre in qualche modo riconosciuti, tutelati o auto-tutelati, in ogni tipo di regime politico; la specificità e la preferibilità della democrazia consiste invece proprio nel riconoscimento della legittimità dell’opposizione e degli spazi di azione per le minoranze. Opposizione e minoranza non sono acquetta per allungare il brodo di chi sta ai fornelli a cucinare o di qualche circolo di chef. Evocare “guerre civili” o mettere insieme “il diavolo e l’acquasanta” per un’“unità democratica” contro i “barbari” (come è accaduto ripetutamente e nel modo più manifesto in Francia nel corso dell’ultimo decennio di fronte fenomeno politico del Front National), oppure usare il potere finanziario internazionale per riaffermare il dogma “Non ci sono alternative” (come è capitato con la Grecia di Syriza nel 2015), sono dinamiche ben note nella lotta politica interna e internazionale. Servono a mantenere lo status quo dei rapporti di forza e la posizione egemonica dell’establishment contro cui, a ondate, si ribellano i “populisti”. Tali strategie del potere costituito possono riuscire narcotizzare i conflitti e i sintomi della crisi, ma non porre rimedio al malessere sociale, politico e culturale delle democrazie occidentali. Certo, oggi parlare di “rapporti di forza” o di establishment può a taluno suonare anacronistico o blasfemo: altri linguaggi, più acconci e forse meno démodé, hanno saturato lo spazio del pensabile e del dicibile. Lo scienziato sociale Hirschman[13] ha evidenziato a questo riguardo le retoriche e strategie politiche dell’intransigenza e dello screditamento, alle quali fanno tipicamente ricorso le élites e il pensiero conservatore quando vogliono “conservare” equilibri e modelli di regolazione degli affari pubblici e di distribuzione delle risorse. Emblematico di questo è la tesi del disastro a cui porterebbe qualsiasi tentativo di cambiamento che intenda toccare alla base gli equilibri e i modelli di vita esistenti: economici, culturali e politici.

4. Democrazia chiusa, democrazia aperta: Trilaterale e intelligenza critica

Negli anni ’70 dello scorso secolo, il Rapporto sulla governabilità della democrazia[14], commissionato e ispirato dalla Commissione Trilaterale (Stati Uniti, Europa, Giappone), diventa l’architrave intellettuale per la legittimazione scientifica e il sostegno politico a una cultura di orientamento tecnocratico congrua con un’idea di “democrazia chiusa”, tesa a respingere ogni opzione sistemica alternativa fuori dal gioco e dalla lotta per rimodellare i fondamenti della democrazia[15]. Il Rapporto della Trilaterale, tra l’altro, prendeva di mira quella che veniva definita la “cultura antagonista” degli intellettuali critici. Parlare oggi di cultura antagonista può suonare equivoco e anche anacronistico. Però la funzione critica, financo radicale, degli intellettuali è ancora essenziale. Per evitare che le nostre società si richiudano ancora di più in se stesse e da “società aperte” (tanto osannate sulla carta) diventino “società chiuse”, fortezze che si blindano al cospetto di barbari, (s)fascisti, populisti, negazionisti, e via discorrendo. Ma esiste ancora una simile intelligenza, e lo spazio politico e intellettuale dove esercitarla? Esiste ancora un’intelligenza critica in grado di interpretare le dinamiche delle trasformazioni storiche e di orientarle verso una democrazia aperta, un’intelligenza cioè che non si esaurisca in una critica della politica anti-sistema, oppure della destra o della sinistra della politica pro-sistema, a seconda che ci si identifichi con la sinistra piuttosto che con la destra? L’intelligenza critica è necessaria per andare dove si vorrebbe andare – e per evitare di fare i Totò & Peppino che chiedono: “Per andare dove dobbiamo andare per dove dobbiamo andare?” – ma non è sufficiente.

NOTE

[1] Vedi E.J. Hobsbawm, Il secolo breve. Rizzoli, Milano, 1995.

[2] Vedi T.H. Marshall, Cittadinanza e classe sociale, in Id., Cittadinanza e classe sociale, Utet, Torino, 1976. Si tratta di una conferenza tenuta nel 1949.

[3] Sul tema sono istruttive le riflessioni in R. Dahrendorf, Il conflitto sociale nella modernità, Laterza, Roma-Bari, 1989; M. Nussbaum, A. Sen (a cura di), The Quality of Life, Oxford University Press, New York, 1993.

[4] Tra questi politologi mi limito a segnalare Robert Dahl, reputato come una dei padri nobili della teoria politica liberaldemocratica e paladino della “poliarchia” come forma realistica della democrazia.

[5] Una sintesi efficace di questa stagione politica britannica rimane C. Crouch, Postdemocrazia, Laterza, Roma-Bari, 2003.

[6] Vedi ad esempio: S. Strange, Chi governa l’economia mondiale?, il Mulino, Bologna, 1998; G. Corm, Il nuovo governo del mondo, Vita e Pensiero, Milano, 2013; M. D’Eramo, Dominio, Feltrinelli, Milano, 2022; J.-P. Robé, Property, Power and Politics, Bristol University Press, Bristol, 2020.

[7] Il conio è attributo a Charles Peters, all’epoca autorevole editor del Washington Monthly. Vedi Ch. Peters, A Neo-Liberal’s Manifesto, in “The Washington Post” del 5 settembre 1982; per una versione ampliata e in parte modificata vedi Id., A Neo-Liberal’s Manifesto, in “The Washington Monthly”, maggio 1983.

[8] Vedi A. Giddens, The Third way. The Renawal of Social Democracy, Polity Press, Londra, 1998.

[9] Per approfondimenti ulteriori sul tema vedi F. Wong, The Emerging Worldview, Roosevelt Institute, Report del gennaio 2020.

[10] Vedi T. Judt, Il mondo è guasto, Laterza, Roma-Bari, 2011.

[11] Per una radiografia e analisi di questo pezzo cospicuo della società contemporanea vedi ad esempio C. Guilluy, No society, Flammarion, Parigi, 2018.

[12] Sul concetto di potere strutturale vedi S. Strange, Chi governa l’economia mondiale, il Mulino, Bologna, 1998.

[13] Vedi A.O. Hirschman, Le retoriche dell’intransigenza, Il Mulino, Bologna, 1991.

[14] Vedi M.J. Crozier, S.P. Huntington, J. Watanuki, The Crisis of Democracy. Report on the Governability of Democracies to the Trilateral Commission, New York University Press, New York, 1975.

[15] Vedi G. Nevola, Il “fatto democratico”. Democrazia, crisi, trasformazione, in A. Millefiorini (a cura di), Democrazie in movimento, Mimesis, Milano, 2022; Id., Luci e ombre di una democrazia antifascista, Carocci, Roma, 2022.


(Pubblicato su questo sito il 6 febbraio 2023)

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