Diritti fondamentali, green pass e vaccino. Maggioranza, minoranze e giustizia in una democrazia sotto il Regno del Covid

Diritti fondamentali dell’uomo, green pass, vaccino. Questo è il tema. Cosa ci dice a proposito del rapporto tra maggioranza, minoranze e giustizia in una democrazia sotto il Regno del Covid?

L’ordine politico non si basa solo sulla forza o sulla convenienza. Il potere che lo organizza è limitato dal diritto: a quest’ultimo spetta il compito di giustificare ciò che si può fare e identificare ciò che non si deve fare anche se si può fare o si sarebbe in grado di fare. Tramite il diritto, la politica si fa carico di governare secondo principi di giustizia. A tal fine, il diritto deve però essere esso stesso “al di sopra di ogni sospetto”: deve essere un “diritto giusto”. È all’interno di questo quadro che dovremmo discutere della legittimità del green pass adottato dal governo italiano come misura di contrasto della diffusione del contagio da Covid, una misura che, di fatto, introduce, un obbligo vaccinale surrettizio; è in questo quadro che dovremmo discutere  misure del genere, che si basano su decreti emergenziali legalizzati dalla proclamazione di uno “stato di emergenza” iterato e prolungato a dismisura tanto da sconfinare, dal punto di vista della costituzionale (procedurale e sostanziale), in uno “stato di eccezione”. Senza entrare nel merito delle problematiche specifiche legate al vaccino e al green pass, di cui mi sono occupato in altri articoli, qui propongo una riflessione di più largo respiro, come contributo per mettere a fuoco la democrazia difficile e la libertà compromesse sotto il Regno del Covid (o del green pass).

Dieci anni fa, nel suo discorso al Bundestag di Berlino (Palazzo del Reichstag, 22 settembre 2011), Papa Benedetto XVI esprimeva forte preoccupazione a proposito dell’urgenza, nell’età contemporanea, di una “limitazione del potere” (economico, politico, tecno-scientifico). Nella nostra epoca, l’uomo ha acquisito un “potere di fare” inimmaginabile in passato: “L’uomo è in grado di distruggere il mondo. Può manipolare se stesso. Può, per così dire, creare esseri umani ed escludere altri esseri umani dall’essere uomini”. In questa situazione, come riconosciamo che cosa è giusto fare?

I

La democrazia è il nostro orizzonte valoriale e normativo, istituzionale, ideologico e retorico; è dentro questo orizzonte che si collocano i nostri interrogativi e le risposte sul “giusto fare”, sui limiti da porre (in termini di giustizia) al “poter fare”. Ad essere chiamato in causa, a questo riguardo, è, tipicamente, il diritto; ma anche il discorso pubblico, dove cittadini, società civile e culture politiche si confrontano sulle giustificazioni delle scelte pubbliche e vincolanti. La democrazia, come sappiamo, ha “inventato” o, meglio, valorizzato il “principio di maggioranza”: per il tramite delle sue istituzioni, e del parlamento in primis, i regimi liberal-democratici operano le scelte collettive tramite decisioni autoritative e procedure di legge valide erga omnes. Ma il principio di maggioranza non sempre soddisfa i requisiti di legittimità di politiche che si vogliono ancorate ai valori democratici e ai diritti fondamentali. Specie quando ad entrare in gioco è la dignità degli uomini, o la “persona umana”, il criterio maggioritario non basta; e infatti le democrazie moderne, non a caso, fanno tipicamente ricorso al criterio costituzionale: questo è finalizzato alla difesa dei diritti fondamentali, ossia dei diritti indisponibili alla volontà del popolo o della maggioranza. Oltretutto, come sappiamo, il “diritto vigente” non coincide necessariamente con il “diritto giusto”, con la giustizia e gli ideali normativi che vi associamo (come mostra ad abundantiam anche la storia delle democrazie moderne).

Benedetto XVI, nel discorso berlinese ma anche in altri luoghi della sua riflessione di studioso, ha sottolineato che nel corso della storia politica “gli ordinamenti giuridici sono stati quasi sempre motivati con argomenti religiosi: sulla base di un riferimento alla Divinità si decide ciò che tra gli uomini è giusto”. Questo riferimento religioso oggi mal si adatta allo Stato di diritto liberale, costituzionale e democratico, ed è stato messo fuori gioco dal plurisecolare processo di secolarizzazione e dalla Weltanschauung secolarista. Del resto, va sottolineato, da parte sua Papa Benedetto non ha riproposto un fondamento (diretto) religioso della “giustizia” del diritto: il Cristianesimo, infatti, non ha imposto un “diritto rivelato” – diversamente da altre “grandi religioni” (ad esempio l’Islam). Come rileva Papa Ratzinger, nella sua dottrina sociale e politica il Cristianesimo ha sempre rimandato alla “natura” e alla “ragione” quali fonti del diritto. Il fondamento del “diritto giusto”, in questa prospettiva, è riconosciuto nel diritto naturale.

Sebbene ormai sia ridotto a dottrina obsoleta, coltivata solo dalla Chiesa, il diritto naturale, ricorda Benedetto XVI, nasce da un legame “pre-cristiano” tra diritto romano e filosofia stoica (nel corso del II secolo avanti Cristo), al quale si è in seguito abbracciato il Cristianesimo. Su queste basi si sono sviluppati la cultura giuridica occidentale, l’Illuminismo, le dichiarazioni sui diritti dell’uomo, le costituzioni moderne del secondo dopoguerra, il riconoscimento dei “diritti umani” come inviolabili e inalienabili (con l’affacciarsi sulla scena di tribunali con pretese giudiziarie e normative sovranazionali). A tale diritto naturale anche il Cristianesimo ha dato un suo significativo contributo, in particolare in età medioevale. Questa tradizione del diritto naturale, nota Ratzinger, chiarisce che alla base di un diritto valido perché giusto, e non solo perché vigente, ci sono dei “valori che sussistono in se stessi, che conseguono dall’essenza dell’uomo e perciò sono intangibili”. Questi valori derivano dalla natura e dalla ragione dell’uomo in quanto uomo, e non solo o tanto in quanto cittadino. Nell’ancorare il “diritto giusto”, e quindi la legittimità del potere politico, all’incontro tra natura e ragione, e non già alla “rivelazione”, Ratzinger si fa alfiere di una religione (il Cristianesimo) essa stessa ispiratrice della “ragione/razionalità” che si è eretta a principio della modernità. Tuttavia, la “ragione/razionalità” rivendicata da Ratzinger/Benedetto XVI si rifà ad una concezione della ragione (Vernunft) non irretita ed irrigidita nella razionalità positivistica e centrata esclusivamente sull’osservazione empirica (Rationalität).

A questo punto, però, Benedetto XVI rileva che “natura e ragione”, a loro volta, presuppongono la “Ragione creatrice di Dio”. In altre parole, la fede è chiamata a sorreggere la ragione e ad illuminare la natura, al fine di una identificazione, fondazione e riappropriazione dei “valori ultimi” e dei diritti fondamentali dell’uomo, là dove tali valori e diritti devono incarnarsi nel “diritto giusto” che deve conferire legittimità alle scelte politiche e alla vita democratica. E qui ci imbattiamo nel fatto che l’uomo di fede, il “credente”, entra in tensione con il “non credente”, con l’uomo non ispirato da fede religiosa. E infatti la cultura laica, tipicamente, rifiuta una simile fondazione divina e trascendente della legittimità delle scelte politiche in democrazia e, non a caso, il diritto positivo prende (come ha di fatto preso) il sopravvento sul diritto naturale.

A questa altezza sorge il problema del rapporto tra credenti, non-credenti e variamente credenti nella sfera pubblica e nell’agone democratico, ovvero la questione dell’accettazione o meno della religione nello spazio pubblico e normativo della democrazia. Riguardo a questo problema troviamo posizioni differenti, tanto nel contesto della cultura politica cristiano-cattolica quanto in quello della cultura politica laica, per tacere della cultura politica islamica. Incontriamo così “l’argomento groziano” dell’”etsi Deus non daretur” (come se Dio non ci fosse), ripreso nel Novecento da Bonhoeffer e oggi diffuso nella cultura politica laica, ma (più o meno esplicitamente) anche in quella dei credenti. Osserviamo anche, però, che a questo argomento si affianca o si contrappone “l’argomento pascaliano” dell’”etsi Deus daretur” (come se Dio ci fosse). Quest’ultima linea argomentativa è quella che di tanto in tanto è stata proposta dallo stesso Ratzinger-Benedetto XVI, ma che ha ricevuto attenzione e aperture anche da parte di figure di riferimento della cultura politica laica, come ad esempio il filosofo Habermas. Ritengo che ci siano “buone ragioni” affinché la stessa cultura politica laica prenda sul serio la prospettiva dell’etsi Deus daretur. Tale prospettiva, infatti, ci aiuta a meglio focalizzare le condizioni di legittimità di una democrazia laica, secolarizzata e matura, consentendo di dare il dovuto risalto a quella “reciprocità del riconoscimento tra credenti, non-credenti e variamente credenti” e alla loro “pari e piena” cittadinanza in uno Stato di diritto costituzionale e liberal-democratico.

Dentro la cornice normativa e politico-culturale di una “cittadinanza del riconoscimento reciproco tra diversi”, a mutare di accento è lo stesso invito rivolto al credente: a questi non si chiede tanto di agire nella sfera pubblica e politica sulla base dell’etsi Deus non daretur, bensì, più moderatamente, di muoversi nella direzione di questa rinuncia alla trascendenza divina. Questa rimodulazione dell’impegno identitario e pubblico del credente si accompagna ad un invito rivolto al non-credente: a questi non si chiede di “fare proprio” l’etsi Deus daretur, quanto, piuttosto, di prenderlo sul serio. L’”impegno di reciprocità” nel caso del non-credente consiste in una riappropriazione culturale di tradizioni e visioni del mondo ancora capaci di conferire un “significato” al processo di definizione e fondazione di valori e diritti fondamentali.

Siamo così arrivati alla concezione della democrazia come spazio del reciproco riconoscimento tra “diversi” e tra valori contrastanti. Siamo cioè arrivati a mettere a fuoco una concezione più esigente, e più difficile, della laicità della democrazia e dello Stato costituzionale. Siamo, insomma, arrivati a un’idea non dogmatica di democrazia e del principio di maggioranza. L’ipotesi su cui si regge questa concezione della democrazia come convivenza tra diversi è quella di una riappropriazione culturale, in chiave critica e “laica”, del diritto naturale. In questa prospettiva, il diritto naturale assume lo status di “terreno di incontro” tra credenti, non-credenti, e variamente credenti. Si tratta di un “terreno d’incontro” che ritengo si collochi, per così dire, “al di qua” di quella “soglia della fede” (religiosa o laica), oltre la quale possiamo assumere che (sul piano identitario, dei valori e delle visioni del mondo) divide i non-credenti, i credenti o i variamente credenti, i “secolaristi” e i “tradizionalisti” (siano questi credenti o non-credenti).

Un “terreno di incontro” così concepito è un possibile quadro politico-culturale, valoriale ed identitario dove ricercare e trovare un fondamento, e le “ragioni” di detto fondamento, per la legittimità dei nostri regimi democratici ancorati ai valori e ai diritti umani “indisponibili” – e quindi non disponibili nemmeno al potere del popolo, al suo moderno principio di maggioranza democratica o al “principe” di turno che, di volta in volta, incarna e interpreta il potere democratico (anche quando il potere indossa le vesti della competenza tecno-scientifica o quelle del giudice togato).

II

Nel suo discorso al Reichstag, Benedetto XVI rileva come nella politica democratica (ormai da tempo) non risulti più evidente quali siano le decisioni “giuste” da prendere, e quindi quali contenuti debbano caratterizzare il “diritto vigente”. A considerare il pensiero di Benedetto XVI-Ratzinger, colgo che il riferimento a Dio non è posto come base “diretta” di un diritto ancorato al senso di giustizia, bensì come base “indiretta”. Il quadro di riferimento per un “diritto giusto” è infatti identificato nel diritto naturale: la giustizia secondo natura e secondo ragione. Il diritto naturale, a sua volta, per come egli lo intende, deriva da Dio i suoi assunti sulla natura e sulla ragione umane, e attraverso questa derivazione definisce i contenuti normativi del diritto mondano e secolare che fungono da strumento della politica democratica. Su questo punto, ancora una volta, credenti, non-credenti e variamente credenti entrano in tensione: la fede fa differenza. Ma ciò non significa, necessariamente, che tale differenza debba discriminare per quanto riguarda la piena cittadinanza democratica tra credenti, non-credenti e variamente credenti.

A partire dal secondo dopoguerra, il diritto naturale ha subito un profondo declassamento. Benedetto XVI definisce questo spostamento del fondamento di legittimità della politica un “drammatico cambiamento”. Questo cambiamento – argomenta Benedetto XVI – si riflette nella coscienza pubblica e nella cultura politica, dove ormai prevale una visione “positivistica”: un’idea positivistica della ragione ridotta a razionalità del calcolo e dell’”osservabile”; un’idea della natura ricondotta a nessi di causa ed effetto tra elementi “oggettivi”, “osservabili”; un’idea del diritto positivo inteso come prodotto della libera determinazione degli ordinamenti normativi da parte di volontà politiche capaci di realizzarli; un’idea della politica che traduce la democrazia in prestazioni delle istituzioni la cui legittimità è identificata attraverso la logica utilitaristica di mercato e dei calcoli dei costi e benefici, con il cittadino ritradotto in consumatore di beni politici.

Su questi temi urge una riapertura della discussone pubblica. Una tale riapertura del discorso democratico sta nella diagnosi di un impoverimento e indebolimento delle basi di legittimità dello Stato di diritto liberale, costituzionale e democratico, quando esso tende (o pretende di farlo) a fare a meno dell’etica dei diritti e delle libertà nel mondo del “politeismo dei valori” (Stato utilitarista e proceduralista) oppure a negare al politeismo dei valori la base etica e dei diritti fondamentali e inalienabili dell’uomo (Stato etico, ovvero mono-etico). L’argomento richiede di ritornare a riflettere sul noto “paradosso di Böckenförde”, ripreso dallo stesso Ratzinger, secondo la quale lo Stato secolarizzato vive di presupposti che esso non è in grado di produrre, e che nel corso del tempo si sono sempre più erosi. Ma oggi si tratta anche di rivedere tale paradosso, quando sotto il Regno del Covid lo Stato, in modo surrettizio, rilancia e intende riprodurre i suoi presupposti etici, ma di un’etica monolitica che azzera il politeismo democratico dei valori. Il filo rosso della ripresa di un discorso pubblico sulle scelte difficili e gravose con cui siamo alle prese sotto il Regno del Covid è la necessità di riconoscere che il diritto regolativo e i diritti fondamentali si riallacciano alla giustizia e non già alla volontà: solo questo riconoscimento può consentire di “filtrare” dal potere il potere legittimo e la sua fattispecie democratica.

A partire dai primi decenni del XX secolo, la teoria del diritto naturale risultava già del tutto superata. Con le parole di Franz Neumann, politologo laico: “Il positivismo giuridico con la sua tesi che la legge non è altro che la volontà del sovrano aveva liquidato tutti i tentativi di fondare la legislazione su norme di carattere universale”. Così oltre mezzo secolo fa. Quale senso può avere riaprire oggi la discussione sul diritto naturale nel mondo contemporaneo del secolarismo e del pluralismo dei valori? Ha lo stesso senso che ebbe negli anni ’40 dello scorso secolo, a fronte degli abusi politici e normativi perpetrati da diversi regimi politici europei e giustificati in nome di un orientamento normativo centrato sulla legalità giuspositivistica. All’epoca persino Kelsen, grande giuspositivista laico, realizza una revisione concettuale della natura normativa di quel positivismo giuridico che era divenuto la base di legittimità dei regimi politici europei (autoritarsimo, totalitarismi), ed è costretto a introdurre l’idea della “norma fondamentale”. Attraverso il riferimento a questa meta-norma, Kelsen perlomeno riapriva la questione del diritto positivo, se non a quella del diritto naturale in quanto tale, e così tentava di riaprire anche la discussione sulle istanze di controllo dell’arbitrio normativo già care al giusnaturalismo.

L’argomento del “politologo” cattolico Ratzinger-Benedetto XVI, forse a sorpresa per alcuni, converge con questa conclusione, quando, ad esempio, ricorda come sia lo stesso Nuovo Testamento a sottolineare che “La politica non è la sfera della teologia, ma dell’ethos”. La sfera dell’ethos, ai tempi del Covid, del vaccino e del green pass è la sfera della cultura politica che è chiamata a ripensare la fondazione del diritto-potere con riferimento a una legittimità delle decisioni pubbliche e al loro rispetto di un’etica pubblica del politeismo dei valori: un’etica che nemmeno la scienza può pretendere di disconoscere, salvo tradire se stessa e farsi dogma. O religione del monoteismo dei valori. Ma è questa l’idea di scienza che oggi domina presso le istituzioni scientifiche e politiche, presso i grandi media. E presso la mentalità diffusa in società che si vogliono liberali, costituzionali, secolarizzate e democratiche.


(Pubblicato su questo sito il 1° ottobre 2021)

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