Sul mercato, nostro Vangelo. Angelina blues: impotenza della politica o colpevolezza?

(Pubblicato su questo sito il 14 agosto 2020 – Uscito, con altro titolo e in versione leggermente diversa, su “Alto Adige” e “Trentino” del 3 febbraio 2018)

Venite gente, accorrete! Vi voglio raccontare una storia. La storia di un tempo lontano, di un paese lontano, diversi dal mondo in cui viviamo, dalla nostra città. Me l’ha raccontata un tale, tanti anni fa: l’aveva sentita in una piazza o in un’osteria (non ricordava bene), quando era ragazzo (non ricordava più da chi). Venite gente, raccoglietevi! È la storia di una donna e di una vita, di giovinezza e vecchiaia. È la storia di una famiglia, di un sobborgo, è la storia di un’epoca andata. Ci si potrebbe fare anche un film, ma è meglio con quattro accordi di un cantastorie. E allora? Venite gente, e mettetevi in cerchio, tutti davanti alla ruota dei cartelloni. Ma lasciate la prima fila a lorsignori: Berlusconi Silvio, Bersani Pierluigi, Boschi Maria Elena, Casini Pierferdinando, Conte Giuseppe, D’Alema Massimo, Di Maio Luigi, Gentiloni Paolo, Grasso Pietro, Grillo Beppe, Lotti Luca, Mattarella Sergio, Meloni Giorgia, Renzi Matteo, Salvini Matteo, Zingaretti Nicola; a Johnson Boris, Macron Emmanuel, Merkel Angela, Trump Ronald, Xi Jinping; a Buffett Warren, Draghi Mario, Gates Bill, Soros George. Nomi un po’ a casaccio? Mah… ma in rigoroso ordine alfabetico, secondo classificazione. Perché loro forse non l’hanno mai sentita, questa storia. O se la sono dimenticata. Dopotutto, hanno tanti pensieri, preoccupazioni, cose di cui occuparsi. E con tante scuse agli innominati.

A parlare è Angelina, chiamiamola così. Le sue parole narrate dal cantastorie e riaggiustate qui.

All’epoca, alle miniere di metallo rosso si lavorava ancora, anche se i vetri delle finestre di casa erano di cartone. Oggi i vecchi sulle panchine della piazza dicono che il paese si è svuotato. Abitavo ai confini del Nord, e là sono cresciuti i miei bambini, io ero cresciuta invece nel Sud. Mia madre si ammalò quando ero piccola, ed è stato mio fratello a tirarmi su. Gli anni passavano e le pale della miniera giravano, e un giorno mio fratello non tornò più a casa, come mio padre anni prima. Dalla finestra vedevo l’inverno che stava arrivando, un inverno lungo. I miei amici, ricordo, erano premurosi con me. Poi smisi di andare a scuola per sposare un minatore: era primavera. Gli anni passavano. Stavo bene, le stagioni portavano il sole e la pioggia, foglie verdi e quelle gialle, una gonna leggera o un giaccone. Avevo tre bambini, quando il lavoro della miniera diminuì a mezza giornata (senza ragione, mi dicevo). In giro c’era poco lavoro. Fu come se il fuoco si congelasse: i fornelli di casa erano spesso spenti. Poi un giorno arrivò in città un uomo, davvero ben vestito e gentile. Ci disse che la miniera stava per essere chiusa, tempo una settimana. Ci disse che nell’Est si lamentavano che la miniera non rendeva abbastanza e che loro pagavano troppo chi ci lavorava: per loro era più economico spostare il lavoro nel Sud, dove i minatori costavano quasi niente. Così il metallo rosso scappò dai nostri occhi. La nostra stanza sapeva di alcol. Era un tempo di attesa, riempito di canzoni silenziose, e tristi, che allungavano l’attesa. Io aspettavo solo che il sole tramontasse. Mi tenevo compagnia alla finestra, mentre lui parlava tra sé e sé. Il silenzio passeggiava per la casa. Poi una mattina, quando mi svegliai, il letto era vuoto e rimasi da sola con tre bambini. L’estate è ormai finita, la terra diventa fredda, i negozi chiudono uno dopo l’altro. Tra un po’, cresciuti un po’, i miei figli se ne andranno. Beh, non c’è niente qui che possa trattenerli.

Così finisce la storia di Angelina. Di una donna e di una vita, di una famiglia e di un paese. Di un’epoca lontana, di un paese lontano. Una storia strappalacrime inventata da un cantastorie che raccatta soldi giocando col patetico? Non escludiamo niente, signori…

Negli scorsi giorni ho letto di un oratore intervenuto al congresso di un sindacato nel 1883, negli Stati Uniti. Diceva: «nei distretti rurali c’è una tendenza a monopolizzare le terre, a trasformare le piccole tenute agricole in grandi tenute. Le piccole fattorie vengono abbattute e le loro terre assorbite in proprietà più grandi. Il sistema fondiario scaccia gli uomini dalla terra, e li spinge in miniera e in fabbrica». Tempo pochi decenni e, da qualche parte, abbiamo visto arrivare il turno della chiusura di miniere e fabbriche dove molti avevano cercato salvezza all’epoca dell’industrializzazione galoppante. Ma sono cose di un’altra epoca. O no? Oggi il mondo è diverso, e benché stiamo ancora attraversando una dura e resistente crisi economica, scrutiamo con speranza e avidità i segni della ripresa, il ritorno della crescita economica.

In un numero dell’”Observer” del 2002 si dà conto dell’avventura dell’Enron: per un’intera generazione emblema mitico della crescita e del successo economici. Esperti di finanza e di economia, assai apprezzati, la elogiavano universalmente. I suoi manager in pochi anni avevano trasformato un’azienda provinciale in un colosso internazionale, e per questo erano sbandierati come apostoli della crescita, del libero mercato, come eroi della deregulation, dell’epopea della reaganeconomics. Pochi allora si interrogavano sugli effetti di questo successo e di questa politica economica sulle condizioni di vita, sul morale o sulla “visione del mondo” delle schiere di dipendenti dell’Enron, assunti e licenziati in un batter d’occhio per cogliere gli “attimi fuggenti” dell’andamento dei mercati: «Due volte all’anno, il 15% della forza lavoro era licenziato e sostituito da nuovi dipendenti; un altro 30% veniva ammonito a fare meglio». Ai vecchi e ai nuovi si chiedeva una dedizione assoluta, ma destinata a vita breve. La faccia nascosta della crescita economica o del successo di una multinazionale, ebbe a commentare Bauman, non era altro che «uno spiazzo di campeggio per tende portatili, facili da piantare e ancor più facili da smontare». Nessuno spazio per coltivare progetti di vita.

Cari politici, magnati o top manager, impegnati, direttamente o indirettamente, in campagne elettorali e a governare, voi siete consapevoli del dramma delle vite di scarto, e siete afflitti per le tante, troppe, brutte situazioni di cui tanta, troppa, gente vi chiede conto o per le quali, semplicemente, vi chiede aiuto. Ma questa gente è ingenua o piena di rancore, vero? O furbacchiona, lamentosa e incapace, vero? E allora voi, cari politici, magnati o top manager, con pazienza e realismo oppure con prontezza e idealismo, via a spiegare, giustificare o criticare, il fatto che tutto dipende dalle “condizioni di mercato”, dalle “domande del mercato”, dalle “pressioni concorrenziali”, dalla necessità di saper competere in produttività ed efficienza. Non avete tutti i torti, dall’una e dall’altra parte. Vi capisco. Però… Perché a nessuno di voi vien da dire pubblicamente che condizioni del mercato, pressioni concorrenziali, contenuti e forme di produttività ed efficienza, non sono né la Bibbia (o il Corano), né fatti di natura, come le correnti di un mare, il sorgere del sole e della luna, lo sbocciare di un fiore, l’eruzione di un vulcano? Perché non vi vien da dire che le “leggi” del mercato, della concorrenza, della produttività ed efficienza, che tanto ci sono care, che tanto ci danno ma anche ci costano e ci tolgono, danno e tolgono troppo ad alcuni e troppo poco ad altri? Perché non riuscite a dire, cari politici, che queste “leggi” dipendono da intenzioni e volontà, da decisioni e iniziative di “esseri umani reali”, che hanno nome, cognome e indirizzo? Siete sicuri che tra le persone a cui vi rivolgete, almeno virtualmente, non ci sia non una Angelina, ma tante, troppe, e i loro bimbi?

Quando parliamo dei giovani e della travagliata condizione di molti di loro, soffermiamoci sulle parole di un fornaio di Torino intervistato da un sociologo: «Non puoi immaginare quanto mi sento stupido quando dico ai miei figli che è importante dedicarsi a qualcosa. Per loro si tratta di una virtù astratta: non la vedono da nessuna parte». È una virtù astratta anche per voi, cari politici, magnati o top manager? Abbiate uno slancio di sincerità: replicate al fornaio e ai suoi figli. Dite cosa non potete fare per le Angelina della nostra epoca, e magari anche per quelle un pizzico più fortunate. E dite della vostra impotenza. O Colpevolezza. Ah, il cantastorie che mi ha aiutato è un tale Zimmerman Robert.

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