(Pubblicato su questo sito il 10 agosto 2020 – Uscito, in versione ridotta e con altro titolo, su “l’Adige”, 10 agosto 2020; “Alto Adige”, 10 agosto 2020)
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Un anno fa, la sera dell’8 agosto si apre la crisi di governo M5s-Lega guidato da Conte: una crisi surreale, anche per la sua dinamica e il suo esito. In un comizio affollato di leghisti e di turisti al mare, sulla spiaggia di Pescara, da un palco allestito in quello che i locali chiamano “lo stadio del mare”, non lontano dal porto e dalla Nave di Cascella, Salvini dice: “Nel governo qualcosa si è rotto. Basta!”; scendendo tra i suoi pare che abbia detto: “Mi candido a premier”. È scontro aperto con Di Maio, alleato di governo, e con il premier di allora, sempre Conte. Salvini chiede elezioni anticipate. Si ritroverà con un governo Pd-M5s che lo manda all’opposizione e lo mette ai margini, e Conte ancora premier. Era vice-premier e pesante ministro degli Interni; capo indiscusso del più forte partito europeo, figura di primo piano sulla scena continentale; in ascesa di consensi, definiva l’agenda politica e mediatica. Ora appare isolato, sbiadito, in calo nei sondaggi e con qualche problema da gestire nella Lega e nella coalizione di centro-destra. Perché quella crisi, che molti analisti gli hanno rinfacciato come autolesionistica, incomprensibile e sconsiderata?
Salvini già all’epoca ha chiarito perché lo ha fatto, perché non poteva seguire Giorgetti, il più prudente e scaltro dei suoi consiglieri; quali erano le sue buone ragioni politiche e riguardo al governo lega-pentastellato. La scelta fu alimentata da contrasti evidenti all’interno del governo: di indirizzo politico, di policy, di cultura politica, nelle nomine paragovernative. E dal fatto che la Lega era socio di minoranza del governo. Alle elezioni del 2018 il suo notevole exploit (17.3%) gli aveva consegnato 125 seggi alla Camera e 58 al Senato, a fonte dei 5s con 220 seggi alla camera e 109 al Senato: un rapporto di due a uno a favore dei grillini. Ma in un anno gli equilibri erano fortemente mutati, ribaltando i rapporti di forza tra i due alfieri del primo tentativo di (apparente?) governo a trazione politica anti-sistema: alle europee la Lega supera il 34%, il M5s crolla al 17; nel susseguirsi di elezioni amministrative, la Lega incassa importanti vittorie e risultati sempre notevoli, mentre il consenso ai 5s è calante, pessimo e preoccupa; tutti i sondaggi (per quel che valgono) disegnano la stessa tendenza. Da qui gli obiettivi immediati di Salvini: crisi di governo e nuove elezioni. È “legge della politica”, in una situazione del genere, piaccia o meno, che un abile, ambizioso e coraggioso leader vada all’incasso elettorale e voglia portare all’interno delle istituzioni (Camere, governo, Quirinale) quelli che sono i nuovi rapporti di forza maturati nel Paese, dargli rappresentanza: così fanno, a loro modo, in Francia, Gran Bretagna, Spagna. È pratica normale in democrazia, dove le stesse regole costituzionali lo consentono; e ciò ha una sana ratio politica. A questo si riferivano i “pieni poteri” reclamati da Salvini, l’infelice e grossolana espressione che gli è stata strumentalmente fatta pagare, non a Mussolini e al fascismo ai quali lo si è voluto “impiccare”. Però, volendo scherzare con un vecchio adagio popolare, il Diavolo fa le pentole, Manon i coperchi.
Nella scorsa estate, Salvini ha consegnato istituzioni e Paese nelle mani di un Pd da anni in palese difficoltà politica ed elettorale, ma da tempo ottimamente insediato nei posti di potere che contano, nei rami dell’amministrazione pubblica, nella Corte Costituzionale, nelle cariche di sotto-governo, nei gangli dell’apparato burocratico, nel mondo della finanza e dei media, nei circuiti delle élites che “pesano”; un Pd che oggi può contare su Mattarella, come ieri su Napolitano, e sugli ambienti politici europei, dove ottiene un Commissario e il presidente dell’europarlamento. Un Pd che oggi si accompagna a un M5s in cerca di credito come forza di governo e di sistema: per volontà e con la benedizione “regale” di Grillo, suo sovrano latente, con la mediazione di Conte vero leader “nascosto” dei pentastellati. Quel Conte che, anche quand’era nell’ombra, si è sempre mosso da politico scaltro, con molta ma ferma circospezione, negli ambienti di area Pd, in parte per convinzione in parte per opportunismo, quel Conte che da Carneade portavoce dei dioscuri Di Maio e Salvini, è ora diventato accreditato leader politico nei palazzi ma anche negli umori popolari, seppur debba ancor misurare il suo effettivo sostegno elettorale tra la gente. È così che va in politica: il potere non è semplice riflesso del consenso elettorale, neppure in democrazia, dove anzi dispone di molte e sottili risorse per creare esso consenso. Chi pensa diversamente non ha capito come funziona la politica, né conosce la storia.
Bel capolavoro, quello di Salvini leader in ascesa. La sua partita era certo problematica, più di quanto apparisse, in condizioni di grandi difficoltà. Ma Salvini ci ha messo del suo: molti e gravi gli errori nell’estate scorsa, e la rassegna è ormai nota. Dicevamo: il Diavolo fa le pentole, ma non (Manon) i coperchi. Salvini ha fatto pentole e coperchi: crisi di governo) e un nuovo governo a lui ostile anziché elezioni. Cioè? Torniamo ai tempi del Papeete 2019.
Quando Salvini, in modo scomposto, apre la crisi e chiede elezioni, sa bene che la prima dipende da ma la seconda no. Si dice che Salvini abbia aperto una “crisi al buio”, senza essersi accertato di quale fosse la via di uscita più gettonata e, soprattutto, se questa fosse il voto. La tesi è fondata. Ma solo in parte: e questo fa differenza. Se è vero che Salvini non è riuscito a pilotare l’uscita dalla crisi nel senso desiderato, è pure vero che egli non si è mosso “al buio”, almeno non del tutto. È qui che si consuma il più imperdonabile degli errori di un leader politico: errore di fiducia e di credulità. Nei giorni agostani della crisi e della chiamata alle urne, Salvini è forte del muro contro muro da anni in corso tra Pd e M5s: i primi squalificano i secondi come incapaci, populisti, pericolosi per la democrazia, protofascisti; i secondi liquidano i primi come casta corrotta e antipopolare, legata ai poteri forti, con tanto di Bibbiano a far buon peso. All’epoca Renzi, ancora uomo forte del Pd di Zingaretti, ripete “Mai e poi mai con i 5s”, è fermo a mangiare popcorn dal marzo del 2018, è ricambiato da Grillo. Una maggioranza M5s-Pd appare fuori dalla realtà. “Appare”, appunto. Un governo dei tecnici, istituzionale o del Presidente (Mattarella) risulta sgradito a tutti, al più è inteso di breve durata, per fare la finanziaria. In quei giorni i media mitragliano dichiarazioni dei leader politici, specie quelli insolentiti dal “Basta!” di Salvini: si dicono pronti alle elezioni, raccolgono la sfida. Ecco una limitata rassegna: «Noi siamo pronti, delle poltrone non ci interessa nulla e non ci è mai interessato nulla» (Di Maio, M5s); «Siamo pronti alla sfida. Nelle prossime elezioni non si deciderà solo quale governo ma anche il destino della nostra democrazia… Il Pd chiama a raccolta tutte le forze che intendano fermare idee e personaggi pericolosi. Da subito tutti al lavoro per fare vincere l’Italia migliore» (Zingaretti, Pd); «Ora si torni al voto per dare agli Italiani il governo dei sovranisti che alle ultime elezioni europee hanno dimostrato di volere» (Meloni, FdI); «Salvini pensa di aver fatto il colpo geniale mandandoci a votare, vedremo i tempi, noi però leviamoci di dosso il vestito da fighetti, c’è bisogno di indossare la maglietta da battaglia, dobbiamo essere pronti a votare e spiegare come questi hanno fallito»; «Spetterà a Salvini spiegare al Paese e giustificare agli elettori, che hanno creduto nella prospettiva del cambiamento, le ragioni di questa interruzione» (Conte, premier). Insomma: si va al voto.
Ma come si sa in politica come nella vita non conta solo il palcoscenico pubblico, ma anche il “dietro le quinte”. Accanto alla politica “visibile” c’è sempre anche quella “invisibile”: l’arcana impèrii sopravvive pure in democrazia. Nella calura agostana, le indiscrezioni fanno fugace capolino. Si dice che Salvini abbia avuto rassicurazioni off-record dagli altri partiti, che escludono altre alleanze di governo e che Zingaretti per primo è per andare al voto (coglierebbe l’occasione per liberarsi della rappresentanza parlamentare piddina a maggioranza renziana che tiene in ostaggio la sua segreteria, con le elezioni sarebbe lui a fare le nuove liste dei candidati: non un dettaglio). Insomma, si va al voto: questo pare l’esito della crisi. Questo ciò che pare anche a Salvini. Ma tutto ciò viene presto travolto da Renzi, che per suoi buoni motivi apre a un governo Pd-M5s: proprio lui! La palla è colta al balzo dal Quirinale, sostenuta da Bruxelles e da molte cancellerie europee. Non è da escludere che, “dietro le quinte”, tale soluzione fosse già allo studio o delineata da qualche tempo, a dispetto delle dichiarazioni ufficiali e o espresse in sedi riservate (il voto M5s per la von der Leyen è più di una spia).
E arriviamo all’errore grave di Salvini. L’errore non è stato solo dovuto all’euforia per i successi leghisti del momento, ma al fatto di aver preso per buone le cose che gli sono state dette in via confidenziale, in conciliaboli e contatti riservati, da Zingaretti per primo, ma forse pure da Di Maio e Renzi. Altro che colpo di sole in spiaggia o troppo mojito. Leggiamo nel recente “Io sono il potere. Confessioni di un capo di gabinetto”: le cose importanti in politica non si possono dire pubblicamente, né negli incontri ufficiali e forse nemmeno al telefono; i bar, le pizzerie, le case private sono i luoghi adatti, è ciò che si dice qui che conta. Se chi parla, aggiungo, dice il vero o non cambia idea, e se chi lo ascolta crede alle cose dette come se fossero oro colato. Lì nessuno ha l’asso della smentita definitiva. Noi non sappiamo se, ad esempio, un Zingaretti abbia detto il falso a Salvini oppure se abbia poi voluto o dovuto cambiare posizione. Sappiamo che Salvini ci ha creduto, e si è rivelato un ingenuo credulone che si è fidato. E questo lo ha messo pubblicamente in difficoltà e, forse, anche indebolito la sua leadership. Non a caso, a distanza di un anno, sul punto resta ancora reticente, e l’imbarazzo serpeggia. Infatti, Salvini non può neppure dire: “Mi hanno imbrogliato!”, perché sarebbe come dire: “Mi son fatto fare fesso, ci ho creduto”.
A Salvini non mancano le attenuanti, visto il quadro politico di un anno fa. Ma Salvini, che è apparso leader di successo, positivo o meno che sia il giudizio, capace di portare la Lega dal 5 al 17 e poi al 34%, dovrebbe avere ben appreso la lezione di Machiavelli: la politica è arte tremendamente difficile, non vi regna la sincerità e la credulità scredita, eppure «Sono tanto semplici gli uomini e tanto obediscano alla necessità dei presenti, colui che inganna troverà sempre chi si lascerà ingannare». Ma lasciarsi ingannare crea a un leader politico una ferita che può essere difficile da cicatrizzare. Oggi Salvini appare privo di quello smalto e sicurezza un po’ guasconi di ieri. Per un leader politico passare per un credulo è cosa assai insidiosa. Qui si annida il grave errore. E il rimosso politico di Salvini e pure del Paese. Diceva Pirandello: «Imparerai a tue spese che nel lungo tragitto della vita incontrerai tante maschere e pochi volti».