(Pubblicato su questo sito il 15 aprile 2020 – La Scena Prima è uscita, in versione parziale e diversa, sul “Corriere del Veneto” e sul “Corriere di Verona” il 15 aprile 2020)
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Convivere con il virus. Questo sembra il quid che dovrà caratterizzare la tanto attesa “fase 2”, con una data d’inizio ancora mobile e una durata indefinita. Ogni singola persona e la società nel suo insieme dovranno imparare cosa significa convivere con il coronavirus, come conviverci nella vita di tutti i giorni, tra lavoro e famiglia, tra svago e relazioni umane, sociali. Avremo nuove regole di condotta e norme per orientarci. Definirle non è cosa semplice, e vede all’opera una varietà di soggetti, con le loro domande e le loro risposte. A ciascuno è richiesto un impegno secondo “scienza e coscienza”. Dovremo mobilitare i saperi, i poteri, i diritti e doveri; scienza, politica ed etica diranno “perché sì” e “perché no”. Ad esempio, dagli scienziati arriva insistente l’indicazione di ricorrere all’app che consente di tracciare i movimenti delle persone per inseguire e arginare il virus; i costumi morali della democrazia, l’etica della libertà e della tutela della sfera privata personale vi si oppongono. E la politica? Ossia le autorità, le istituzioni, i cittadini? Seguendo processi più o meno virtuosi e prestabiliti, a seconda dei casi, la politica, le sue istituzioni e la polis, dovrà decidere: in un senso o nell’altro, escogitando punti di equilibrio tra ciò che indica la scienza come tecnica e ciò indica la morale e i suoi valori. Certezze poche, o nessuna. Né dalla scienza né dalla morale. E nemmeno dalla politica. È la condizione della modernità, anche quella di oggi, più sfuggente di un tempo, e che alcuni chiamano “post-modernità”. È la condizione della liberaldemocrazia, figlia della modernità così come lo sono la scienza e il nostro senso morale.
Ma democrazia e scienza vanno d’accordo o no? Beh, detto così è un po’ tranciante, ma l’interrogativo disegna un tema serio. Merita una riflessione pacata, tra le pieghe dei tempi di clausura. Una riflessione, in due scene e un epilogo.
SCENA PRIMA
Come si propaga il virus? Come fermarlo? Quando ne usciremo? «Non lo sappiamo, dobbiamo studiare». Così Roberto Rigoli, virologo e primario a Treviso, risponde a Silvia Madiotto del Corriere del Veneto (4 aprile). Per valutare le politiche del distanziamento sociale e calibrare le misure di contrasto al contagio, in queste settimane si chiede agli esperti, ad esempio, se il virus sopravviva e viaggi nell’aria, se ci si possa contagiare anche solo con il respiro. Ma non arrivano risposte certe, univoche. Per Anthony Fauci, autorevole immunologo americano e consulente di Trump per la crisi da contagio che ormai ha messo in ginocchio anche gli Stati Uniti, ci sono evidenze che il virus resti nell’aria tre ore; lo stesso sostiene l’americana National Academy of Science: sembra che il virus si diffonda e si trasmetta da una persona all’altra pure attraverso la conversazione; almeno in ambienti chiusi, secondo il New England Journal of Medicine. Per Ilaria Capua, virologa dell’Università della Florida, «non possiamo escluderlo». Secondo Silvio Brusaferro, presidente dell’Istituto Superiore di Sanità italiano (ISS), invece, non ci sono prove sufficienti per sostenerlo; per Gianni Rezza, direttore del Dipartimento di malattie infettive dell’ISS, o il virologo Pregliasco, è comunque «escluso che il virus circoli all’aria aperta». Altri studi dicono che il virus, specie in ambienti chiusi, contagia anche oltre la distanza di sicurezza di 1-2 metri; una ricerca del Mit di Boston ha misurato che uno starnuto può veicolare il virus fino a 7-8 metri di distanza. In queste settimane, analoga è stata la varietà delle indicazioni offerte dagli esperti su molti altri fronti: sulle origini del Covid-19, sul fatto che l’infezione si riveli attraverso sintomi o possa essere asintomatica, sulla somministrazione del tampone, sulla durata dell’incubazione della malattia e della necessaria quarantena, sulla recidività o meno dell’infezione, sui test sierologici, sull’uso delle mascherine, e così via. Il profano, ovviamente, non può valutare la validità dell’una o l’altra posizione degli scienziati. Si fida della scienza. Lo stesso fa il decisore politico. Ma di “quale scienza”? Forse la “crisi multi-sistema” innescata dal coronavirus, e la sua comunicazione pubblica, sta manifestando in modo vivido alla massa dei cittadini, persino senza la mediazione dello “studio sui libri”, ciò di cui il singolo finora apprendeva per esperienza personale, ad esempio quando era coinvolto nei circuiti diagnostici o terapeutici su una sua malattia: la scienza, compresa quella medica, è divisa su questioni cruciali. Siamo di fronte a una sfida per la mentalità e l’educazione scientifica collettive che disorienta e spaventa, poiché mostra che la scienza, con tutta la sua potenza, non è il regno delle certezze o dell’”oggettività” ma è invece “strutturalmente limitata”. Siamo di fronte ad un cambiamento epocale anche su questo piano? Difficile a dirsi: sarà il futuro, la storia, che aiuterà a capirlo. Ora si tratta di governare con razionalità l’inquietudine collettiva che il profilo del sapere scientifico sta manifestando nello spazio pubblico. Fermando qualche punto.
Ai tempi del coronavirus i governi continuano a ripetere, da Roma a New York, da Pechino a Madrid: “Facciamo come ci dice la scienza”; sui media primeggiano voci di virologi, epidemiologi, medici. Celebriamo la scienza e temiamo il contagio, i suoi effetti. Bene. Ma non chiudiamo gli occhi su due fenomeni cruciali che investono i rapporti tra scienza e politica: 1) le decisioni di policy non sono mai meccaniche applicazioni di conoscenze scientifiche, 2) la scienza offre conoscenze certe e “oggettive” molto più raramente di quanto crediamo, il mondo della scienza e della medicina non è in grado di offrire certezze, possiede conoscenze limitate in merito al Covid-19, tra gli esperti le divisioni sono molte e forti. È una razionalità “limitata” e “multipla”, quella che guida sia le istituzioni politiche e le loro scelte pubbliche, sia i centri di ricerca e le loro indicazioni. A comprendere la “razionalità complessa” delle scelte pubbliche e scientifiche aiutano anche gli esperti di scienze sociali, di epistemologia e di etica, studiosi le cui voci oggi faticano a trovare orecchie. Vero che questi non curano direttamente le malattie del corpo, non proteggono da rischi di morte, ma avrebbero da dire sul governo di società in preda a un virus, su cosa si fondano e come si prendono in democrazia le decisioni pubbliche su salute, cure, vita e morte. In campo pubblico, le scelte e le decisioni hanno per bussola un interrogativo-guida essenzialmente “politico”: quali tipi di rischi possono essere accettati in cambio di quali aspettative di benefici? Le risk-issues e le risk-policies sono, in ultima istanza, non strettamente scientifiche, ma politiche. I decisori pubblici si muovono su uno scacchiere a opzioni multiple. Esperti e tecnici devono essere in grado di dire cosa sanno e cosa no sulle conseguenze probabili delle loro “risposte scientifiche”. Ma la responsabilità resta sulle spalle del politico. La validità della lezione di Weber, teorico del razionalismo occidentale, permane. Per i governi è un “uovo di Colombo” nascondersi dietro il corpo protettivo della scienza: riduce la responsabilità per decisioni rischiose o foriere di danni. Il fatto è che di fronte a situazioni di rischio, le scelte di policy sono sempre prese in condizioni di incertezza, di informazioni incomplete e di evidenze ambigue che non risparmiano neppure le conoscenze scientifiche.
Maria Rita Gismondo è direttore di Microbiologia clinica e virologia al “Sacco” di Milano, in prima linea nel difenderci dal virus. Come molti altri esperti, ha sostenuto e continua a sostenere che «È una follia questa emergenza, si è scambiata un’infezione appena più seria di un’influenza per una pandemia letale» (23 febbraio), attirandosi indecorose parole da Roberto Burioni, un altro stimato esperto. Ma in seguito ha sottolineato: «la vera scienza esige un dialogo aperto tra ricercatori con orientamenti diversi» (23 marzo). È l’idea di scienza “complessa, limitata e multipla” di cui parlo qui. Se desiderano che i cittadini nutrano fiducia nelle loro scelte e valutazioni dei rischi, è bene che i governi per primi imparino a riconoscere il carattere incerto e limitato delle conoscenze scientifiche. I professionisti della scienza devono però fare la loro parte: promuovere un’educazione alla scienza che aiuti il cittadino a familiarizzarsi con la scienza per quello che effettivamente è. Va contenuto pure il virus dello scientismo, che è ideologia della scienza e non scienza. La nostra società ha bisogno di un’educazione e comunicazione a favore di una “scienza non mitica” ma seria. Ciò richiede l’impegno di uomini e di donne di tutte le scienze. Il monito vale per tutti, anche per i Gismondo e i Burioni. Per non compromettere la fiducia della società nelle scelte pubbliche delle autorità politiche e nel contributo della scienza di fronte a rischi emergenziali, sono importanti due condizioni: 1) un regime di genuina libertà di informazione, di pensiero e di indirizzi di ricerca scientifica; 2) una chiara separazione tra a) i responsabili della protezione della cittadinanza, b) i responsabili di interessi industriali/commerciali e c) i responsabili della ricerca scientifica. Una sana alleanza tra politica, economia e scienza che non è affatto scontata.
SCENA SECONDA
In queste settimane immerse nella crisi legata al contagio virale e alle sue tante facce, è ovviamente riesploso anche il tema delle fake news, riguardo agli aspetti sanitari (ma non solo). Il primo “luogo” preso di mira e messo sotto accusa è la rete, i social, dove (quasi) dappertutto scorre, in libertà, di tutto e di più – così si dice. A uscire svilite e macellate dalla “rete in libertà” sono le conoscenze scientifiche, in un ambito o nell’altro, e in particolare quelle che di norma consideriamo conoscenze scientificamente accreditate, in ultimo quelle certificate dalle istituzioni. In questo modo, si dice, l’opinionismo senza controllo travolge la scienza e produce danni, alle persone, alla vita collettiva, alla società. Il problema esiste: è serio. Ma anche parecchio delicato. Nemmeno le soluzioni che sembrano andare per la maggiore sono, però, esattamente rose e fiori. Sono problematiche da vari punti di vista, a partire da quello strettamente tecnico, di una loro applicabilità efficace e “redentiva” della web-communication. E sono problematiche anche dal punto di vista legislativo e da quello dei principi democratici e della libertà (di pensiero, di espressione, ecc.). Non sottovalutiamo questo lato del problema delle fake news, a prescindere da come la si pensi a proposito del coronavirus (sue origini e suo contenimento “effettivi”, risposta “reale” del sistema sanitario, numero “vero” degli infetti e dei morti). Ora è facile, per molti, avvertire disagio o avversione per le limitazioni delle libertà, dato che, con la clausura domestica obbligata e la chiusura di molti siti di lavoro e di svago, tocca molti in modo diretto. Ma la libertà (che sia di movimento o di pensiero e di espressione della propria opinione) non è un tram che si prende a piacere, quando serve e per il tratto che si vuole fare al momento: va coltivata sempre. Anche qui: ragioniamoci un momento, senza farci sopraffare dal virus e dalle sue scorribande sulla rete ma anche su altri canali di comunicazione.
Un esempio, non troppo vecchio direi. In Germania, nell’autunno del 2018 è stata approvata una legge per cercare di porre rimedio alle sfrenate “notizie false” sulla rete. Nello stesso periodo, nella medesima direzione dichiarava di volersi muovere una proposta di legge del Pd poi rientrata; in Francia era all’ordine del giorno un’idea di intervento legislativo-regolativo in materia, accarezzata da Macron. Via via, nel frattempo, i gestori di Facebook hanno adottato delle misure di lotta contro le fake news; si sono moltiplicati i decaloghi per istruire gli utenti dei vari social su come riconoscere le “falsità”. Intendiamoci, anche qui: il problema è reale. Cercare di risolverlo con simili strumenti rischia però di dare per scontato ciò che non è: ossia la possibilità di tracciare una linea di demarcazione chiara e netta tra notizie vere e notizie false, tra conoscenze certe e conoscenze incerte, tra conoscenze che aprono dubbi e conoscenze che dischiudono falsità. Il legislatore e l’opinione pubblica devono pensarci bene su se e come muoversi su questo terreno. Primo: è possibile, in democrazia, introdurre per legge la verità? La conoscenza (in tutte le sue articolazioni) vive di ipotesi e di punti di vista, di prospettive; nel caso della scienza, ipotesi e prospettive sono elaborate, e verificate o falsificate, secondo standard e metodi (al plurale) definiti dalla comunità scientifica, e le stesse comunità epistemiche nel fare questo sono ora unite ora divise a seconda dei casi. Secondo: la “verità per legge” sarebbe una cosa forse anche auspicabile? Riflettiamo quando ci sentiamo inclini a desideralo: corriamo il serio pericolo di sottovalutare il peso che le opinioni e la libertà di opinione hanno anche nel campo dell’informazione, delle conoscenze e della scienza, oltre che più in generale nella sfera pubblica democratica. La libertà e il pluralismo comportano senz’altro dei costi e dei rischi, ma offrono anche opportunità e benefici: trovare un equilibrio è compito assai difficile. Ma è il nostro compito.
Un’incauta disciplina legislativa in materia di web e social suscita diverse perplessità. Non va valutata con la vista corta di chi con essa oggi magari vedrebbe in qualche modo oscurate o sanzionate cose sgradite: la giostra della storia e della società gira, e domani potrebbe toccare a cose a noi gradite. Fissare leggi, reati e sanzioni in questo campo è cosa scivolosa e ridondante (se non del tutto superflua). 1) È “scivolosa”, perché se non ben meditate e a lungo dibattute nei Parlamenti e nei circuiti dell’opinione pubblica, le leggi e la loro amministrazione si rivelano troppo superficiali: possono diventare un “piano inclinato” che porta i più (ciascuno per i suoi motivi o in base alle proprie sensibilità) a respirare un clima sociale e culturale di censura e autocensura. Dobbiamo restare tutti molto vigili a non allargare a dismisura il campo del reato d’opinione con misure che, inoltre, difficilmente si rivelano efficaci a “fermare la mano” delle forze e dei poteri che si muovono dietro e dentro la rete (per capirci, pensiamo al Putin di turno) o ad arginare gli “smanettoni della rete”. 2) È “ridondante”, perché i reati che solitamente sono indicati nei provvedimenti di legge in materia (approvati o proposti) sono già previsti e sanzionati dai codici penali o da altre norme (ad es. diffamazione, procurato allarme, istigazione a delinquere, apologia di fascismo): insomma, sono reati già perseguibili (e a le volte controversi), che viaggino nella “realtà” o sulla “rete”.
Non dimentichiamo mai che le leggi contro le “notizie false” di fatto diventano leggi sulle “notizie vere”, e che le notizie veicolano e formano le opinioni. Attenzione: questa è una pratica che siamo soliti attribuire ai regimi totalitari e che, a ben pensare, non vorremmo in democrazia. C’è da meditare non poco. E da lavorare senza posa. Ripassare il mito di Sisifo, e mettercela tutta per continuare a spingere il masso in cima al monte, che poi rotola giù e dobbiamo ricominciare: un lavoro faticoso e senza fine. Ma così è per quel “legno storto” che è l’essere umano: provare a raddrizzarlo significa spezzarlo.
EPILOGO
Insomma, la democrazia, per definizione e pratica reale, non è una società della “certezza e sicurezza totali”. E la scienza non fa i miracoli. Benché tutti desideriamo vivere in condizioni di certezza e sicurezza, pure dobbiamo vigilare per evitare che un giorno ci si svegli in una “democrazia para-totalitaria”, dove aleggia un clima orwelliano ma tanto più sofisticato da non rendercene nemmeno conto. Abbracciati a tanta scienza, tecnologia, verità e libertà di pensare come vuole la “libertà obbligatoria” di oggi. E domani? Domani è un altro giorno, si vedrà – direbbe Gaber.
Tutto questo induce a riflettere su come siano complicati i rapporti tra scienza e verità, tra scienza e politica, tra opinione, menzogna e libertà. Tutto questo vale anche in tempi di coronavirus. Ma valeva anche prima e lo stesso sarà dopo. Vale sempre. E richiede una più sana alleanza tra scienza e politica, tra comunicazione e libertà. Le leggi possono aiutare se ben calibrate e meditate. La cultura e l’educazione anche, e di più ancora. Ma dobbiamo investirci molte risorse: della finanza, dell’intelletto, dei valori. Anche questa è una never ending story.