(Pubblicato su questo sito il 24 marzo 2020)
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Una premessa, caro lettore. Va detto, con schiettezza e pacatezza. Per troppe settimane, mentre notizie e immagini da Wuhan, sconcertanti, inondavano i nostri media, mentre faceva capolino la percezione di uno scenario di contagio senza confini, pochi hanno avuto il coraggio di dire a voce alta che uno più uno, almeno a volte, fa proprio due: dato che viviamo nel “mondo della globalizzazione”, con milioni e milioni di persone che si muovono per mille motivi da un angolo all’altro del pianeta era prevedibile anche una globalizzazione del contagio. Invece, in troppi (semplici cittadini, politici, media, autorità pubbliche e scientifiche) han reagito con un mix di superficialità e supponenza. È del 27 febbraio l’hashtag #Milanononsiferma di Sala, sindaco di Milano capitale economica d’Italia; negli stessi giorni Sala si faceva riprendere con lo stesso slogan sulla t-shirt o a mangiare nei ristoranti cinesi del centro per associarsi a una surreale guerra contro il virus del razzismo e della discriminazione. Farà dietro-front solo un paio di settimane dopo, lasciando, con la sua “uscita”, tanto tempo e occasioni al moltiplicarsi dei contagi. È un esempio da vetrina, non il solo. Non me ne voglia il sindaco. Sono mancati “buon senso” e “intelligenza” (dal latino intelligere, intendere) nel cogliere cosa stava accadendo, come sottolinea Nava su Mente Politica del 21 marzo, che titola “Quando il potere è solo stupido”. Ora speriamo che il buon senso prenda tutti per mano, e dirotti i comportamenti di tutti sulla piattaforma della massima precauzione. In questa direzione spingono misure e divieti dei governi nazionali e locali, tardivi in tutto il mondo. In questa direzione spinge la paura. Con tutte le difficoltà che crescono quando ci si muove in ritardo: nella tenuta del sistema sanitario, nella disponibilità di dispositivi di protezione e cura, nella psicologia collettiva, nella riorganizzazione del lavoro e dell’economia. Ma le questioni in gioco sono ancora più sottili. Ora il “buon senso” non deve paralizzare la capacità di riflettere, non deve diventare nemico del “senso critico”, necessario pure “ai tempi del coronavirus”. Non si tratta di sparare sul pianista o su chi dirige la banda. Sgombriamo il campo dagli scenari dietrologici o complottisti più o meno arditi: il dovere professionale (il beruf) di chi fa lavoro intellettuale è di non perdere l’equilibrio, nemmeno in situazioni di emergenza collettiva. Diamo al “buon senso” la parte che merita, ma lasciamo una parte anche al “senso critico”. La gestione della crisi da coronavirus farà interrogare sulla nostra civiltà, su un intero modello di vita, sul paradigma della società neoliberale, sulla globalizzazione “spensierata”. E dovrebbe fare interrogare non solo sulla politica alle prese con il Covid-19, ma anche sul mondo della scienza, a dispetto delle apparenze: non ora, ovviamente, ma dopo l’attraversamento del deserto. Mi spiego, e vengo al punto.
Benché ai tempi del coronavirus i governi continuino a ripetere, a partire dall’Italia, “Faremo come ci dice la scienza”, e sui media imperversino voci e parole di virologi, epidemiologi, medici, ecc.; mentre celebriamo la scienza e temiamo il contagio e tutti i suoi effetti, non chiudiamo gli occhi su due fenomeni cruciali: 1) le decisioni di policy non sono mai meccaniche applicazioni di conoscenze scientifiche, 2) la scienza offre conoscenze certe e “oggettive” molto più raramente di quanto crediamo, il mondo della scienza e della medicina non è in grado di offrire certezze, possiede conoscenze limitate in merito al Covid-19, tra gli esperti in materia le divisioni sono molte e forti. È una razionalità “limitata” e “multipla” quella che guida sia le istituzioni politiche e le loro scelte pubbliche, sia i centri di ricerca e le loro imprese. A comprendere la “razionalità complessa” delle scelte pubbliche e scientifiche aiutano gli esperti di scienze sociali, di epistemologia e di etica, studiosi le cui voci e parole oggi faticano a trovare orecchie perché non curano direttamente le malattie del corpo, non proteggono dai rischi di morte, ma sono voci che pure avrebbero molto da dire sul governo di società in preda a un virus, su cosa si fondano e come in democrazia si prendono le decisioni pubbliche su salute, cure, vita e morte. Le scelte e le decisioni in campo pubblico hanno come bussola un interrogativo-guida essenzialmente “politico”: quali tipi di rischi possono essere accettati in cambio di quali aspettative di benefici? Allo stesso modo funziona l’analisi costi-benefici o il criterio di proporzionalità nelle misure di contrasto al contagio virale, di cui oggi tanto si parla. Insomma, le risk-issues e le risk-policies sono, in ultima istanza, tutte non strettamente scientifiche, ma politiche. I decisori pubblici si muovono su uno scacchiere a opzioni multiple. Gli esperti e i tecnici devono essere in grado di dire cosa sanno, e cosa non sanno, sulle conseguenze probabili di una “risposta scientifica”. Ma la responsabilità resta sulle spalle del politico. La lezione di Weber, teorico del razionalismo occidentale, è ancora valida. Per i governi è un “uovo di Colombo” nascondersi dietro il corpo protettivo della scienza: riduce la responsabilità per decisioni rischiose o foriere di danni. Il fatto è che di fronte a situazioni di rischio, le scelte di policy sono sempre prese in presenza di incertezza, di informazioni incomplete, di evidenze ambigue che non risparmiano neppure le conoscenze scientifiche.
Maria Rita Gismondo è il direttore di Microbiologia clinica e virologia al “Sacco” di Milano, in prima linea nel difenderci dal virus. Come molti altri esperti, ha sostenuto e in qualche modo continua a sostenere che «È una follia questa emergenza, si è scambiata un’infezione appena più seria di un’influenza per una pandemia letale» (23 febbraio), attirandosi indecorose parole da Roberto Burioni, un altro esperto. Ma in seguito ha sottolineato: «la vera scienza esige un dialogo aperto tra ricercatori» guidati da «orientamenti diversi» (23 marzo). È l’idea di scienza “complessa, limitata e multipla” di cui qui parlo. Se i governi desiderano che i cittadini nutrano fiducia nelle loro scelte e nelle loro valutazioni dei rischi, è bene che essi per primi imparino a riconoscere il carattere incerto e limitato delle conoscenze scientifiche. I professionisti della scienza devono però fare la loro parte, promuovere un’educazione alla scienza che aiuti il cittadino a familiarizzarsi con la scienza per quello che effettivamente è, contenere il virus dello scientismo, che è un’ideologia della scienza, non scienza. La nostra società ha bisogno di un lavoro di educazione e di comunicazione a favore di una “scienza non mitica” ma seria, che richiede l’impegno degli uomini e delle donne della scienza, di tutte le scienze. Ma affinché i cittadini mantengano la fiducia nelle scelte pubbliche operate dalle autorità politiche e nel contributo della scienza di fronte a rischi emergenziali, sono importanti due condizioni: 1) un regime di genuina libertà di informazione, di pensiero e di indirizzi di ricerca scientifica; 2) una chiara separazione tra a) responsabili della protezione della cittadinanza, b) responsabili di interessi industriali/commerciali e c) responsabili della ricerca scientifica: Una sana alleanza tra politica, economia e scienza che non è affatto scontata.