(Uscito, in versione leggermente diversa e con altro titolo, su “Alto Adige” e “Trentino” del 27 luglio 2015 – Pubblicato su questo sito il 9 ottobre 2019)
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E’ la paura che ha portato all’accordo tra UE e Grecia, la paura del peggio dietro l’angolo. Così dichiarò Juncker, l’allora presidente della Commissione Europea, in un’intervista, quattro anni fa, ai tempi della “crisi greca”. Juncker ammetteva che in Europa si era arrivati ad una “rottura di fatto dei legami di solidarietà”. Sulla Grecia, con una disinvoltura che pare disarmante candore, il navigato politico notava: “ho sempre parlato della Grecia con tenerezza”, “bisogna lasciare a questa nazione uno spazio di autodeterminazione”. Parole sintomatiche: ritraggono i rapporti politici come questioni di “tenerezza” o meno, mentre l’autodeterminazione democratica viene ridotta a qualcosa a cui si può eventualmente “lasciare” qualche spazio. Un singolare linguaggio politico: difficile da immaginare che a un presidente della Commissione Ue possa venire in mente di usarlo nei confronti di Germania, Francia o Gran Bretagna. Ma, soprattutto, è opportuno dare risalto al richiamo alla paura con cui la politica pro-sistema e le classi dirigenti di Bruxelles giustificano le loro scelte e le loro politiche “europeiste”. Quello della paura è un argomento che forse può funzionare quando viene abbinato, come solitamente fanno le élites, alla retorica della catastrofe che incomberebbe sull’Europa e sulla costruzione europea di fronte alle sfide della nostra epoca e ai critici dell’UE. Ma è un argomento difficile, e in fondo improvvido, da usare come una buona base per ricostruire ed alimentare una convivenza propriamente civile tra Europei. Del resto, un’Europa fondata sulla paura non coincide con la narrazione dei tempi felici dell’integrazione europea, né esaurisce la sua storia.
Dirlo oggi ha il sapore dell’ironia: l’UE è una “storia di successo”. Interessa una vasta area continentale, densamente popolata, economicamente sviluppata; ricca di storia e cultura, di tensioni e incontri fecondi tra valori laici e valori religiosi; culla di umanesimo e cristianità, di civiltà politica; terra di modernità e tradizione. Costituisce il 20% circa dell’economia e delle esportazioni mondiali: una potenza economico-commerciale. L’UE rappresenta un ambizioso tentativo di innovazione politico-istituzionale: estendere oltre lo Stato-nazione modi e contenuti democratici; realizzare l’integrazione di una pluralità di culture politiche nazionali, religiose, economiche nella libertà, nel riconoscimento reciproco, in maniera pacifica, non-violenta, limitando i “costi” che ogni integrazione comporta o cercando di distribuirli secondo equità e solidarietà.
I risultati, però, oggi faticano a corrispondere a questo disegno: frustrano le aspettative popolari, ma anche quelle di parte dell’opinione di élite. L’UE è profondamente divisa, impotente nelle crisi internazionali, vive un forte scollamento tra proclami europeistici e comportamenti effettivi dei governi nazionali, delle organizzazioni transnazionali e delle stesse istituzioni europee. Emblematica è l’incapacità “comunitaria” a gestire le crisi contemporanee: quelle economico-sociali, finanziarie e di indebitamento di numerosi Stati, quelle delle diseguaglianze intra-nazionali e inter-nazionali e dell’occupazione, quelle “migratorie” (con tanto di ripristino di blocchi e controlli alle frontiere), quelle dell’ecologia ambientale e dell’”ecologia umana” sulla quale ha insistito papa Ratzinger, quelle dei conflitti internazionali. L’UE mostra il volto di “organizzatore di interessi”, nazionali e non. Si esprime secondo dinamiche inter-statali. Sbanda tra un profilo “neo-imperiale” e uno “neo-anseatico”, che vedono centrali alcuni Stati europei e i loro rapporti con Stati extra-europei, con forze globali, con corporations multinazionali e “mafie” internazionali che governano i vari “mercati” (finanziari, delle idee, dei beni, delle persone) restando difficili da identificare o controllare sul palcoscenico delle responsabilità pubbliche, quando non del tutto fuori dalla legge. Parlare di “democrazia europea” è cosa impropria, persino più improprio che parlare di democrazia a proposito dei governi misti o delle postdemocrazie nazionali. Ad esempio, il Parlamento europeo è (formalmente, non solo di fatto) per lo più marginale nel decidere sui problemi rilevanti, così come secondario resta, in fondo, lo stesso ruolo della Commissione Europea. Tra le istituzioni europee “sovranazionali” a pesare è la Banca Centrale Europea, di cui tutto si può dire tranne che sia un’istituzione democratica. Nelle questioni che contano, la democrazia, nel migliore dei casi, è sempre più ridotta a una “democrazia delegata” e oligarchica – da non confondere con quella rappresentativa di tradizione liberale, in cattive acque di suo.
Le ragioni del decadimento del progetto europeo non sono casuali né banali. Sono il riflesso dello scarto tra l’esperienza integrativa europea e quelle che sono la “logica” e la storia dei processi di sviluppo politico. Ma sono anche il riflesso dell’esaurimento di una stagione storica. Fino a un paio di generazioni fa, la costruzione europea era forte di precisi motivi storico-politici: catastrofe della seconda guerra mondiale, sconfitta della Germania nazista, protezione americana e alleanza atlantica, geopolitica antisovietica, seppellimento delle guerre tra europei e volontà di ricomporre i conflitti con l’economia e la democrazia. Anni fa lo storico Michael Stürmer notava che la storia, con il suo corso, aveva reso obsoleti tali impulsi all’ideale europeo. Argomento solido. Ma non mancano esigenze di lungo respiro alle quali l’Europa potrebbe oggi guardare se volesse davvero ridisegnarsi: estendere il mantenimento della pace e del benessere (specie in aree geopolitiche extra-occidentali e cruciali); salvaguardare e ridefinire lo sviluppo economico per diffondere condizioni di benessere e giustizia sociale, abbinando competitività economica, “razionalità” della spesa e del debito pubblici alla protezione sociale dei più deboli, ad un più sano, equo e realisticamente sostenibile stile di vita e di consumi; regolare con saggezza le opportunità aperte dalle rivoluzioni tecnologiche e dalla rivoluzione dei diritti e del diritto nell’epoca dell’”individualismo delle libertà”; ritarare la cultura del “politicamente corretto” con una cultura del “riconoscimento reciproco tra diversi”; dare impulso ad un profilo democratico dei processi decisionali e alla democrazia come veicolo di autentico e non finto pluralismo politico, confrontandosi seriamente con le sfide popolari anziché liquidarle come ottuso populismo ad uso di improvvisati imprenditori di consenso.
L’UE da tempo non sa rispondere a tali esigenze. Talora sembra erigersi a erede del Leviatano, talaltra tradisce le sembianze di un novello Behemoth. Ripensare la convivenza tra europei in termini di “democrazia della sussidiarietà” potrebbe aiutare a maneggiare il rompicapo europeo: organizzare la democrazia dal basso e dal piccolo, e farla salire man mano lungo la scala delle istituzioni politiche e territoriali, favorendo una cultura e dispositivi capaci di nutrire un senso di “comunità nella modernità”. Qualche giorno fa, su queste colonne, il collega Renzo Gubert ha svolto alcune interessanti considerazioni a proposito di un mio precedente articolo. Riguardo alla democrazia sussidiaria, che anch’egli richiama, vorrei osservare che la questione è di natura “politica” e “culturale” prima che istituzionale. Prima ancora dell’ingegneria dei trattati, essa richiede un paziente lavoro di rifacimento della cultura politica del nostro tempo, una riappropriazione del significato di democrazia e delle sue pratiche al di là delle retoriche interessate o inerziali. Solo su queste basi è possibile cimentarsi con soluzioni istituzionali di democrazia sussidiaria capaci di realizzarne genuinamente i propositi. Si tratterebbe di mettere d’accordo Rousseau e Madison, con l’aiuto di Althusius: comunità e federazione per la libertà, l’eguaglianza e la solidarietà (se non fraternità). Obiettivo non facile. Ma sono in gioco qualità e dignità del nostro vivere. I trattati comunitari evocano il principio di sussidiarietà. Ma non l’hanno mai ben inteso o preso sul serio.
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