(Uscito, in versione leggermente diversa e con altro titolo, su “l’Adige” e “Alto Adige” del 23 settembre 2019 – Pubblicato su questo sito il 25 settembre 2019)
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Gli Stati europei sono alla ricerca di un accordo sul ricollocamento dei migranti. Si vuole che l’Italia, dopo la “stagione salviniana”, ritorni ai porti aperti. Ma in Europa non mancano porti chiusi, frontiere chiuse o semichiuse, “respingimenti” persino tra quegli Stati che oggi si dicono disponibili all’accordo (Francia, Germania, Spagna), non solo tra quelli indisponibili (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Austria, Slovenia). Il 23 settembre al mini-vertice di La Valletta tra Germania, Francia, Italia e Malta è stato raggiunto un compromesso. Le sue implicazioni e la sua operatività effettiva saranno da valutare di fronte ai casi che si verificheranno. Ma sappiamo già ora che si è rimasti, come era negli intenti del summit, dentro il perimetro della politica emergenziale. Intanto, al canale dei flussi libico minaccia di aggiungersi quello tunisino. Sia chiaro: è necessario affrontare le emergenze con senso di umanità, ma anche porre un freno al Far West del Mediterraneo, compresa la immonda e nascosta scena dei “trafficanti di esseri umani”, che vede affiorare informazioni e testimonianze ma non la loro diffusione. Ma c’è dell’altro. Non si va lontano se la politica continuerà a voltare le spalle a quelle che sono le radici del problema migratorio. La cultura politica europea, però, a destra e a sinistra, pro o anti sistema, non sa o non vuole guardare la luna e continua a puntare il dito. Il presidente della Conferenza Episcopale Italiana, il Cardinale Bassetti, ha recentemente osservato: «Porti aperti? Sì certo, ma è un discorso complesso che non si risolve con una battuta». Chissà cosa intendeva dire. Ricominciamo da qui.
Migrazioni di massa: le ragioni non stanno tutte da una parte. La polarizzazione rattrappisce la cultura politica, irrigidisce le istituzioni, impedisce di comprendere e accartoccia le soluzioni. Questa è la premessa morale e realistica di ogni posizione, perché non ci sono ricette facili. Nella storia, come nella vita, non si torna indietro. Ma occorre lucidità per tracciare una nuova direzione.
Non sono scenari avventati: nel Mondo Nuovo del “post 1989 senza frontiere”, in pochi decenni sull’Europa arriveranno decine di milioni di migranti. L’Eurostat (ufficio statistico dell’Unione Europea), prevede, al 2080, 60-70 milioni di persone verso i Paesi membri dell’Ue (12 milioni in Italia); il Wittgenstein Centre stima, al 2060, 30-35 milioni di migranti nel mondo ogni 5 anni. Altri studi strategici, geo-politici e demografici dicono che, se potessero, sull’Europa si riverserebbero ancora più persone, dall’Africa e non solo: spinte da ragioni buone e cattive che fatichiamo persino a immaginare; con una varietà di effetti sociali dirompenti, oggi solo agli inizi, di cui conosciamo dinamiche storiche e logica.
I flussi migratori assumono forme anche estreme (“morire pur di emigrare”); troppi migranti rinunciano a investire la vita nei luoghi natii, nella loro comunità. Perché? Per come è andata e va la storia in quegli angoli del mondo, la risposta è in fondo semplice: troppi han concluso che lì non avranno futuro. Da un lato, sulla pelle di molti, ci sono i segni di miseria o violenza; dall’altro, nei loro occhi, l’eco delle vetrine del mondo sviluppato. Sono occhi e corpi che arrivano nelle società occidentali via traffici di persone, umanitari o criminali. I migranti arrivano come “i nuovi ultimi”, spinti da disperazione, sogni di salvezza o malaffare; vengono irretiti in una concorrenza, spesso squallida, con gli “ultimi” e “penultimi” delle nostre società; raramente trovano posto nella quotidianità o nei quartieri dei “primi” e dei “secondi”, che se ne riparano. E la chiamiamo accoglienza. Come siamo arrivati a questo?
Colonialismo? Usiamo pure questa vecchia parola. Sapendo che racchiude una storia sfaccettata, che dice e nasconde molte cose diverse. Una volta c’era l’Occidente che spadroneggiava senza remore. Con le buone o con le cattive, oltre a depredare e violentare il resto del mondo, lo “educava” anche: gli dettava come vivere. In quel Terzo Mondo, centinaia di milioni di giovani per decenni sono stati scolarizzati secondo un modello occidentale di valori, società e vita imperniato su industrialismo e mercato: una cultura che ci ha dato tanto, ma che ci ha pure tolto tanto. Efficacia e bontà del modello si sono rivelate dubbie. Dove è stato esportato (ma non solo lì), sono prevalsi gli “effetti perversi”. Come ha messo in luce negli anni ’70 Peter Berger, ciò ha generato la sindrome dell’homeless mind (“mente senza casa”): gli indigeni, per non morire di fame, han perduto il “loro mondo” (legami comunitari, cultura, habitat naturale, capacità creative). La reazione finale a questa socializzazione è stata: “Allora andiamo nel Primo Mondo!”. Una reazione comprensibile, ma non l’unica possibile. Alimentata da un Occidente superficiale e in fondo ipocrita, da una cultura dominante povera di senso critico nell’esportare i suoi valori e modelli di sviluppo, società e politica.
Esiste un Occidente tutto preso nei calcoli di import-export degli interessi economici e dell’allargamento di spazi vitali. Convive con una coscienza morale umanitaria, votata a solidarietà, eguaglianza, giustizia. Questa coscienza, però, ha finito per adagiarsi su un senso di colpa che si è storicamente rivelato “complice oggettivo” del Primato Occidentale, del “razionalismo, produttivismo, efficientismo” come unico metro di misura del progresso: un’idea di progresso umano nutrice di uno status quo in vesti aggraziate. Poi è arrivata la globalizzazione. Ha rimodulato gli interessi “egoistici/altruistici” occidentali e del “mondo di sopra”, riaggiornato la retorica universalistica e dei diritti umani: una visione del mondo delle élites, diffusa tra quel ceto medio ancillare che un giorno poi si scopre scivolato in una “deprivazione relativa”, in crescenti insicurezze sociali e marginalità culturali. Un ceto medio che annovera quelli che sono oggi i “penultimi” nel ricco Occidente solo perché da fuori arrivano gli “ultimi”. A sfuggire alla coscienza comune è la radicalità della sfida migratoria.
Non basta l’attenzione alle decine di persone in balia delle onde, alle quali chiudere o no le porte. Occorre un “occhio prospettico”. Le migrazioni sono una faccia della globalizzazione, dell’apertura dei mercati tutti: capitali, beni e persone. Ma non l’unica. I migranti verso le città europee sono, ad esempio, l’altra faccia dell’ipermercato sotto casa, dove troviamo la frutta che, dopo giorni di mare e migliaia di chilometri, viene alle nostre tavole. I più sono contenti di risparmiare qualche euro nel fare spesa, senza pensare allo sfruttamento dietro il “buon prezzo” o che una meganave rilascia, a quanto pare, la quantità di inquinanti nocivi e cancerogeni di cinquanta milioni di automobili. Il “gretismo”, a cui arride tanta eco mediatica, dovrebbe aiutare a fare riflettere anche su questo. Il problema duro non è chi chiude i porti, la soluzione non è chi li forza per umanità, né gli accordi emergenziali e di convenienza politica tra gli Stati europei e che trovano intese nel nome della lotta contro la politica anti-sistema di destra o di sinistra. Persino la cooperazione internazionale e gli aiuti alle aree più depresse, promossi da Stati, Chiese o associazioni volontarie, si sono rivelati ingranaggi di riproduzione, non di superamento, di un mondo guasto.
Le emigrazioni e le immigrazioni, diciamolo, non sono un vero problema per il “mondo di sopra”, se non per le reazioni, giudicate sconsiderate, del “mondo di sotto”. Ma sono un problema vero per il “mondo di sotto” dove vivono vecchi e nuovi ultimi o penultimi. Per il “mondo di sopra” accogliere gli immigrati porta benefici materiali (lavoratori a buon prezzo) e morali (appagamento di coscienza); problemi e disagi della convivenza restano sulle spalle del “mondo di sotto”: si fa presto a dare del razzista, e sovranista, nazionalista o egoista. Il dovere morale reclamato dalle emergenze umanitarie non diventi una trappola morale: l’Occidente deve ripensare a fondo la sua scala di valori. Un «nuovo umanesimo», caro premier Conte? Parta allora da qui ogni risposta, ogni governo davvero di svolta o di cambiamento.
Il secolo breve ha segnato una svolta di cui solo oggi prendiamo consapevolezza nel bene e nel male ,dunque cerchiamo in qualche modo di rimediare ai tanti guai provocati.La caduta del muro di Berlino ha dato inizio al neoliberismo sfrenato che aiutato dalla globalizzazione ha finito per completare l’opera.IL capitalismo si è buttato in oriente delocalizzando le proprie attività in cerca di manodopera ha basso costo mentre masse di persone in cerca di un futuro migliore si sono riversate in occidente per migliorare le proprie condizioni economiche. Tutto questo è ormai sfuggito di mano ai nostri politici, per la velocità propria della globalizzazione e aiutato dal liberismo sfrenato non ha fatto altro che aumentare le disuguaglianze creando notevole malcontento nel mondo di sotto per usare un termine caro a Marx.Oggi Conte parla del bisogno di un nuovo umanesimo..meglio tardi che mai!!!,ma visto la politica e i personaggi che la governano è come combattere un nuovo Golia.Ci vorrebbe un patto sociale dove tutti prendano atto della situazione reale in cui ci troviamo. Tante parole nei consessi mondiali quando non riusciamo a risolvere i problemi di casa nostra.