Crisi di governo di mezz’estate e potere. Una partita a scacchi con tanti errori, dall’inizio alla fine

(Uscito, con titolo e in versione leggermente diversa, su “l’Adige” e “Alto Adige”, 26 agosto 2019 – Pubblicato su questo sito il 26 agosto 2019)

Cominciata all’indomani del voto europeo di maggio, la crisi del governo Conte esplode l’8 agosto. Durante il suo tour vacanziero elettoralistico per le spiagge d’Italia, Salvini, il vice-premier leghista, chiede con impeto elezioni anticipate a ottobre; la sua motivazione è l’impossibilità per la Lega di continuare con un “governo dei noi” alimentato dal M5S e avallato del premier Conte. La richiesta, piaccia o meno, è politicamente legittima, anche secondo le regole di una democrazia parlamentare come la nostra: se pure incongrua con il dettato costituzionale, non sfugga quante volte la Costituzione è stata rimodellata dalla vita politica e dalle interpretazioni, a destra e a manca, giocando la “lettera” contro lo spirito della Costituzione e viceversa. La motivazione salviniana, invece, è grossolana nella forma e debole nei contenuti, benché non del tutto priva di basi.

Dal voto del 4 marzo 2018 è nato, a fatica, il governo Conte a maggioranza giallo-verde. Voti e seggi parlamentari erano in rapporto di 2 a 1 a favore dei M5S, forte del 32,7% alle urne, di 220 seggi alla Camera e 109 in Senato, a fronte di un 17,3% si consensi, e di 125+58 seggi della Lega. Da allora molta acqua è passata sotto il ponte costruito tra M5S e Lega: alle elezioni europee la Lega supera il 34%, il M5S crolla al 17%, ribaltando i rapporti di forza tra i due partiti; nei mesi successivi, nel susseguirsi di molte elezioni regionali e comunali, la Lega ottiene costantemente importanti vittorie ed eccellenti risultati, mentre il M5S registra un consenso calante e incassa risultati pessimi e molto deludenti; tutti in sondaggi (per quel che valgono e per quello che vogliono suggerire) stimano una Lega lanciata verso il 40% e un centrodestra nell’insieme in crescita, un M5S in crollo e una “ripresina” del PD. La campagna mediatica della grande stampa d’opinione, che nel complesso non ha mai digerito il risultato del 4 marzo e tanto meno l’accordo di governo tra il leghismo e il “grillismo”, morde con forza, stringe con tenacia la presa: “Salvini si è mangiato i 5 Stelle!”.  Abbastanza per esaltare Salvini, troppo per non deprimere Di Maio. Nei mesi di governo giallo-verde, il protagonismo mediatico e politico del capo leghista è stato indubbio, ma anche enfatizzato, trovando il suo epicentro nella sfida migranti e delle navi Ong nel Mediterraneo e nella intransigente risposta del ministro dell’Interno; d’altra parte, l’azione governativa e la ribalta mediatica dei pentastellati risultano scolorite, e diventano esse stesse più incerte e contorte, sbandando ora a destra ora a sinistra: emblematici sono il posizionamento di Di Maio nelle polemiche in occasione del 25 Aprile, con il suo smarcarsi da Salvini, o il suo sostegno a Salvini-ministro  messo sotto accusa nel caso della nave Diciotti e dei suoi migranti. Il governo Conte è trascinato a navigare sotto nuvole scure.

Ci sono buoni motivi perché un leader di partito guardi alla possibilità di passare all’incasso elettorale: portare all’interno del Parlamento e in sede di governo nuovi equilibri che riflettano i rapporti di forza tra gli alleati maturati nella società del “dopo 4 marzo”. Da qui la crisi di governo. Un fulmine a ciel sereno? Non del tutto. Una crisi “inventata” da Salvini, come la giudicano molti osservatori? Non esattamente. Sorvoliamo sulle cause della crisi, quelle profonde e quelle di superficie. Sottolineiamo, invece, che Salvini ha sbagliato sui tempi, sulle dinamiche e sugli obiettivi della crisi. Si apre così una incerta e complicata, per tutti e non solo per Salvini, partita a scacchi sulla crisi e su come uscirne.

Salvini è spiazzato dalla ferma reazione di un Conte che chiede, giustamente, una “parlamentarizzazione della crisi”, e che con un discorso durissimo e, allo stesso tempo, paternalistico, spara a zero sul suo vicepremier, dimettendosi dopo un discorso e un dibattito al Senato che mettono in campo difesa della faccia, sassolini tolti dalle scarpe, richiami al rispetto della democrazia: ciascuno la propria faccia, i propri sassolini, la propria democrazia. Salvini è spiazzato dalla giravolta di Renzi, il quale, dopo avere aperto le porte del governo alla Lega, all’indomani del voto di marzo, rifiutando ogni apertura al M5S e preferendo restare a “mangiare pop-corn”, ora preme per un governo con i PD insieme ai Cinque Stelle; per “salvare il Paese”, s’intende. Salvini è spiazzato dal ritorno sulla scena politica di Grillo, che spinge i Cinque Stelle a fare un governo con il Pd per fermare i “nuovi barbari” della Lega. Insomma, oltre a mettere in crisi il governo Conte, il M5S in pesante calo elettorale, la crisi di governo mette in crisi anche Salvini. E mette in crisi anche Zingaretti, il neosegretario PD.

Nei mesi precedenti, il segretario Pd era tentato da un confronto con il M5S. Ma all’apertura della crisi d’agosto, Zingaretti riconferma la linea renziana che aveva portato il suo partito ad un’opposizione frontale al governo Conte, giudica finita l’esperienza di governo giallo-verde, si dice indisponibile ad un accordo con il M5S e si schiera a favore delle elezioni anticipate. Un voto anticipato, aspetto non secondario, che consentirebbe a Zingaretti di liberarsi della rappresentanza parlamentare PD a forte maggioranza renziana e definire una lista di candidati non-renziani per le nuove elezioni. L’iniziativa pubblica di Renzi di un governo con il M5S, unilaterale non meno di quella di Salvini, mette in difficoltà Zingaretti su tutti i fronti, e lo irrita non poco. Ma Zingaretti non “controlla” i gruppi parlamentari piddini: realisticamente, teme che lo possano mettere in difficoltà agli occhi del Quirinale: al Colle, stante la preoccupazione per la stabilità e l’economia del Paese, per i rapporti con l’UE e per la fine di un governo (quello Conte) comunque “mediato” dal Presidente, non sarebbe gradito un PD spaccato, che si divide e favorisce, prima o dopo le elezioni, una maggioranza “sovranista”. Non fatichiamo ad immaginare il lavoro di moral suasion di Mattarella, in primis sul PD, e quindi su Zingaretti, sullo sfondo della difficile dialettica tra politica pro-sistema e politica anti-sistema, che il presidente, da sempre, per dovere costituzionale misto a responsabilità politica, cerca di regolare, muovendosi inevitabilmente sul filo del rasoio.

Zingaretti allora rimodula la sua posizione: rinuncia alle elezioni anticipate ma in cambio non di un “governicchio”, bensì di un solido governo di coalizione e di legislatura condiviso con il M5S. Il segretario PD non si fida del M5S e, soprattutto, di Renzi: apre a un nuovo governo solo se questo è blindato verso la vocazione opportunistica di Renzi. Così alza l’asticella del possibile nuovo governo. Ma a questo punto, ponendo condizioni “non negoziabili” per l’accordo di governo, Zingaretti ingarbuglia se stesso e ingarbuglia tutti. Il M5S non può accettare di fare abiura del lavoro di governo e del suo premier difesi anche a crisi aperta, né che condizioni pesanti e non negoziabili per un nuovo governo siano dettate dal PD, per tanti e ovvi motivi, incluso il fatto che in Parlamento i voti pentastellati sono più del doppio di quelli del PD: significherebbe perdere la faccia e tanti elettori. Il nuovo ingarbugliamento coinvolge persino Mattarella: dopo il primo giro di consultazione dei partiti, non a caso, brusco davanti alle telecamere, il Presidente mostra tutta la sua irritazione, palesemente risoluto, se i partiti si perdono in tattiche e giochini, a decidere in pochi giorni, dal sommo Colle,  come uscire dalla. Nel frattempo Salvini si è reso conto della frittata. Stancamente ripete che è disposto a tutto per evitare che il PD, “bocciato dalle urne e dagli Italiani”, torni al governo senza passare dalle urne. Nell’ombra, è innegabile, accanto alle trattative ufficiali tra M5S e PD, sono in corso contatti anche tra M5S e Lega. Intanto la base piddina è più divisa di quanto appaia, Renzi minaccia e calcola la sua uscita dal PD, Calenda anche; i dirigenti pentastellati remano in direzioni divergenti, la base respinge l’idea di un governo con il PD e sale l’onda della richiesta di essere consultata prima che si chiuda un accordo. Salvini prega e scruta l’orizzonte. La ferrea legge dell’oligarchia troneggia sbeffeggia ogni “populismo”.

Difficile per tutti prevedere cosa ne verrà fuori. Mattarella ha ovviamente una sua “carta di riserva” per superare questa crisi di mezza estate: un “governo del Presidente” che porti a breve alle elezioni, quale che sia la formula specifica e il nome con cui verrà battezzato. Ma non è l’unica carta. Se non si trova alcuna maggioranza, né nuova né vecchia, può usare la sua moral suasion per un nuovo governo esplicitamente politico: un “governo di minoranza” M5S. In quanto maggioranza relativa in Parlamento, il M5S dovrebbe assumersi la responsabilità di portare a nuove elezioni, e nel frattempo predisporre la legge di bilancio e farsi carico delle decisioni che si rendono necessarie. Non dimentichiamo che governi di minoranza, in questi nostri tempi difficili, guidano molte democrazie europee. Ricorrere a governi di “garanzia elettorale” o di “garanzia istituzionale” non è la fisiologia della democrazia. La politica è anche coraggio nei tempi difficili. Don Abbondio permettendo.

Tra qualche residua incertezza, avanza l’accordo di governo politico M5S/PD. Al di là della retorica, restano ancora coperti i termini del possibile accordo: sui contenuti e sugli equilibri nella squadra di governo. E molti dubbi sulla sua tenuta futura. Troppe sono le differenze di cultura politica tra i due partiti e le irresolutezze al loro interno. Difficile immaginare un PD che rinunci alla sua identità politica pro-sistema, difficile che sopravviva un M5S che rinunci alla sua identità politica di forza anti-sistema. O l’uno o l’altro, alla fine, è facile che si pentirà di un governo condiviso, forse entrambi. Ma soprattutto il M5S.

Non ci resta che attendere come andrà a finire la lotta di potere tra politica pro- e anti-sistema e di capire come evolveranno le fortune della Lega. Per ora si può dire che è stata una brutta crisi di governo, e brutta la soluzione in dirittura d’arrivo. Per tutti. Le basi dei partiti protestano. La ferrea legge dell’oligarchia si impone. La lotta per il potere non è una storiella bella ed edificante, per nessuna narrazione. E infatti si tende a non evidenziarla. Oggi le forze pro-sistema segnano un altro punto a loro favore. In Italia già si pensa al prossimo inquilino del Quirinale. Domani è un altro giorno, si vedrà e si valuterà. Passo dopo passo. Ma anche con sguardo lungo, per chi si sforza di capire. È la  politica, bellezza.

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