(Uscito, con altro titolo e in versione leggermente diversa, su “l’Adige”, 3 gennaio 2015 – Pubblicato su questo sito il 6 luglio 2019)
–
Gli indicatori economici “oggettivi” da soli non bastano. Il rapporto dei cittadini con le diseguaglianze è più complesso, ed è influenzato dall’accettabilità socio-culturale delle diseguaglianze e dai tipi di diseguaglianza in gioco. Insomma, il giudizio sulle diseguaglianze dipende anche dal senso di giustizia che pervade una società. Qui vogliamo riflettere proprio su questo.
La giustizia è un requisito costituitivo di ogni società. Per questo, in un certo senso, è sempre giustizia sociale. Riguarda la vita dei membri di una famiglia, di un gruppo di amici, di un’università, di un’azienda metalmeccanica o di un’intera società. Il suo linguaggio è teso alla ricerca della dignità di ogni persona, ma anche della pienezza della sua cittadinanza. Per questi motivi e altri ancora, la giustizia sociale è misura della qualità di una società democratica e criterio di legittimazione del potere. Questo principio di “buona politica” certo non sintetizza l’effettivo funzionamento delle nostra società, per quanto sviluppata e democratica, per quanto essa proclami i diritti fondamentali dell’uomo e i valori di eguaglianza tra cittadini liberi e solidali. Ciononostante, il principio resiste. E chiama in causa la morale, ma anche la politica e il suo perimetro moderno statuale.
Il senso di giustizia detta che ciascuno possa condurre una vita con dignità – o da gentleman, come suggeriva ottimisticamente il sociologo Marshall all’indomani della Seconda Guerra Mondiale. Il linguaggio della giustizia appartiene alla sfera degli ideali, del “dover essere”. Ma, proprio come ogni ideale, fa parte della “realtà” (a dispetto di un certo realismo superficiale). Si riferisce, cioè, a come individui, gruppi o una società ritengono che “le cose che contano” (le risorse economiche come le identità e le idee dei membri di una comunità politica) dovrebbero essere distribuite affinché sia considerata giusta ed accettabile la loro distribuzione. Una giustificazione che in ultimo ha un fondamento morale. Ma che richiede di essere governata politicamente
L’idea di giustizia sociale è servita, ad esempio, a dare forma, contenuti e mete alla «questione sociale» che sfidò gli assetti della società industriale e democratico-liberale, criticati perché il loro patrimonio di ricchezza economica e di diritti di cittadinanza si accompagnava ad una significativa “esclusione” dei lavoratori e di gran parte della popolazione. Nel passato, inoltre, la giustizia sociale si riferiva essenzialmente alla distribuzione del benessere materiale; aveva cioè a che fare con diseguaglianze di tipo socioeconomico (reddito, ricchezza). Ad esempio, le diseguaglianze nelle risorse o opportunità di esprimere le proprie opinioni o di partecipare ai processi di decisione politica non erano considerate questioni di giustizia sociale.
Secondo la cultura democratica di oggi, invece, anche le diseguaglianze nell’esercizio delle libertà civili e del potere politico sono da sottoporre ad esame di giustizia sociale. D’altra parte, però, la società di oggi manifesta un’erosione del suo tessuto morale, con il conseguente sgretolamento di norme e vincoli di coesione sociale. L’affermarsi dell’autorealizzazione egoistica e particolaristica (a livello individuale o di gruppo), della corruzione o della politica come mero strumento di potere, comporta seri rischi per la giustizia sociale, spesso ridotta a discorso moralistico o inutile principio “astratto” – mentre chi insiste a darle voce viene irriso come ingenuo, pedante o “rompiscatole”. Questo clima finisce per ad acuire, ad esempio, i problemi (intergenerazionali e no, intra- e inter-nazionali) che spaziano tra mercato del lavoro e disoccupazione, povertà e Stato sociale, legalità e tolleranza, processi migratori e relazioni inter-etniche, trasparenza delle decisioni politiche e cittadinanza democratica.
Quella della giustizia sociale è un’avventura ad ostacoli, come la democrazia. E’ naturale che il senso di giustizia sollevi proteste contro l’ingiustizia o i poteri costituiti, o pressioni per modificare l’ordine esistente; è naturale che le proposte avanzate dagli uni in suo nome siano da altri spesso respinte come problemi e non soluzioni. I conflitti, lo sappiamo, sono sempre costosi e dolorosi. Però è anche attraverso l’emergere dei problemi e dei conflitti che le questioni di giustizia vedono ridefinirsi, specie nei passaggi d’epoca, i contenuti, la qualità e i compromessi di una società democratica. Infine, dobbiamo tenere presente anche l’«assuefazione» all’ingiustizia. Per quanto deprimente sul piano civile, l’assuefazione è a suo modo un fattore di stabilità sociale. Ma la democrazia è (o dovrebbe essere) cosa diversa: non dovrebbe assuefarsi o giustificare diseguaglianze e ingiustizie troppo marcate. La democrazia deperisce fuori da una società decente. Come ha sottolineato Rawls (autorevole teorico della politica ma di certo non un rivoluzionario), “le leggi e le istituzioni, non importa quanto efficienti e ben congegnate, devono essere riformate o abolite se sono ingiuste”.
Condizione necessaria per un ancoraggio “realistico” degli ideali di giustizia sociale è il metodo del dibattito pubblico, che è anche l’auto-pedagogia civica di una democrazia. Senza indulgere alla retorica del democraticismo, democrazia significa infatti, tra l’altro, «governo attraverso la discussione». La qualità di un’istituzione e di una cultura politica si valuta anche dalla loro capacità di valorizzazione la partecipazione e il confronto tra idee ed interessi diversi, che si oppongono tra loro senza squalificarsi moralmente. Come vediamo ai nostri giorni, anche su questo fronte le condizioni di diseguaglianza e di giustizia tra i diversi segmenti di una cittadinanza sono questioni ancora aperte. Anche sul piano del riconoscimento della cittadinanza culturale tra le diverse culture del pluralismo democratico.
Le disuguaglianze,sia economiche intese come redistribuzione materiali, che la giustizia sociale intesa come richiesta di uguaglianze a livello di diritti civili partecipativi nella gestione della comunità,vanno di pari passo in una lotta impari, dove la prevalenza economica la fa ancora da padrona.Nella richiesta di diritti sociali nelle varie forme ,indubbiamente sono stati fatti notevoli passi avanti, la società si è notevolmente trasformata ,vuoi con la rivoluzione industriale che con l’attuale trasformazione cibernetica.Tuttavia il nostro tessuto sociale è rimasto ingessato,l’ascensore sociale è ancora legato a vecchi schemi dove la redditualità è sempre padrona della situazione frenando notevolmente la giustizia sociale.Le istanze di partecipazione sono portate avanti sempre dalle elite , anche se sostenute da una base più ampia,dove però rimane sempre il dubbio della manipolazione per secondi fini. Quando ci si è resi conto della svalutazione dell’euro con il cambio di moneta addirittura si vociferava che fosse stata una manovra elitaria per riportare la situazione economica a livelli anni 50 dove le differenze erano più marcate.Forse una tesi azzardata o più semplicemente l’effetto della globalizzazione liberale incontrollata.Dal punto di vista sociale con l’arrivo di immigrati ormai stabili in Italia da decenni non abbiamo ancora risolto il problema dello ..ius soli..Nei paesi dove esiste questa normativa non è vista solo come diritto partecipativo alla vita sociale ma l’individuo è un soggetto fiscale con tutto quello che ne consegue.Abbiamo ancora tanta strada da fare.