Pubblicato su questo sito il 1° luglio 2019
–
Alla fine Carola Rackete, la “capitana” di cittadinanza tedesca della Sea Watch 3, la nave Ong “salva-migranti”, ha forzato l’attracco al porto di Lampedusa: è stata subito arrestata; i migranti sono sbarcati; le cancellerie europee litigano e allo stesso tempo cercano, anche stavolta tardivamente, un compromesso su come distribuire gli immigrati. Come aveva già annunciato il premier Conte: “La questione è ormai diventata strettamente giudiziaria: non si possono infrangere impunemente le regole”, chiarendo così la posizione ufficiale del governo italiano, che nella sostanza, non certo nei modi, è in linea con la dura ma scomposta reazione del ministro degli interni Salvini di fronte alle infrazioni della legalità e della sovranità nazionale commesse dalla Sea Watch a bandiera olandese. Il Papa lancia i suoi strali, la Commissione Ue fa il Ponzio Pilato, il Quirinale tace. La crisi aperta dalla nave Ong è stata incanalata dentro le norme della legalità, quella dello Stato italiano e quella internazionale; ora viaggia sui binari del “diritto positivo”, il tipo di diritto dominante nell’Occidente contemporaneo, secondo cui le norme valide sono quelle fissate dallo Stato (e dagli accordi tra gli Stati): come messo a punto da Kelsen (padre del positivismo giuridico), ogni potere costituito, infatti, si avvale di una struttura giuridica formale, di un sistema di diritto che definisce ciò che è lecito/legale e ciò che è illecito/illegale, e difende il “suo” diritto. Non può che essere così. Ma questo è solo un lato del problema.
L’episodio della Sea Watch, che si iscrive nella spinosissima sfida migratoria, lascia sul tavolo interrogativi di varia natura, dove la politica si intreccia con la cultura. Il diritto, infatti, non è mai solo una questione di regole stabilite e scritte nelle carte, nelle leggi o nei regolamenti: le regole e le leggi si interpretano, si possono cambiare o vi si può disubbidire. Peccato che non ce lo ricordiamo sempre, ad esempio di fronte ai medici anti-abortisti obiettori di coscienza; ai genitori che rifiutano l’obbligo di legge sui vaccini per i figli; ai movimenti politici che vogliono rifiutare i vincoli europei sui conti pubblici, che, come sentenzia il commissario europeo Moscovici, non vogliono rispettare le “leggi” Ue. Molti ricordano solo di fronte a certe circostanze che le leggi di uno Stato, il diritto positivo, i Trattati e persino la Costituzione “non chiudono il discorso” sul diritto, su ciò che dobbiamo ritenere giusto o no, sulle regole da rispettare: lo ricordano, ad esempio, quando si vuole disapplicare il “decreto sicurezza” voluto dal ministro Salvini, come nel caso del sindaco di Palermo e dei suoi sostenitori; o quando si elogia e si difende l’”elemosiniere del Papa” che, a nome del Vaticano (di uno Stato straniero), infrange leggi e regole dello Stato “laico” italiano per riattivare la corrente agli occupanti morosi di un edificio romano, di certo bisognosi di assistenza o di un gesto di carità umana che però è altro rispetto ad un atto illegale o di disobbedienza civile. Ciascuno rivendica le sue buone ragioni (diritti umani, scienza, valori etico-religiosi o etico-politici) nel ritenere giusto non rispettare una legge. Su questo versante, in tema di disobbedienza civile o politica, però, nessuno è giudice delle ragioni altrui, non esiste un “sovrano” assoluto che decreta per tutti quando è giusto e quando no farvi ricorso: in questo campo, infatti, siamo oltre le carte del diritto positivo, le certezze della scienza o della fede, la neutralità politica.
Dietro al diritto costituito e formale, che pure è irrinunciabile per regolare la vita sociale, si agitano il senso di giustizia e di moralità, fanno sentire la loro voce i valori politici, gli orientamenti delle culture politiche, le fedi religiose, le contingenze e gli strumentalismi della lotta politica del momento. Pirandello riassumerebbe: il diritto è “la forma”, tutto il resto è “la “vita”. A questo proposito merita attenzione e discussione franca, senza pregiudizi di parte, il modo in cui il nostro Paese ha reagito all’ultimo caso della Sea Watch. Una parte, molto visibile sui media, si è mobilitata a favore della “capitana dei migranti” (“Il premio Nobel alla nostra Carola!”) contro il ministro Salvini (“Il capitano dei fascisti”, o almeno il capo del proto- o para-fascismo che minaccia la nostra Repubblica). Opposto a questo pezzo del Paese sta un altro pezzo (un po’ meno visibile): chi, con sottigliezza o con l’accetta a seconda dei casi, dice “La legge si rispetta e basta!” e che manifesta la sua odierna vena filo-governativa a prescindere. Mi si accusi pure di “terzietà”, ma il punto è che le questioni rilevanti, problematiche e ineludibili, sono quelle che, per così dire, viaggiano nei mari aperti tra i porti chiusi, e apparentemente sicuri, dove, da una parte e dall’altra, stanno i più, quelli che per numero sopraffanno chi cerca di ragionare su problemi difficili, quei problemi che hanno storie e motivazioni radicate e rispetto ai quali si possono vedere molti responsabili e ben poche soluzioni univoche.
Il tema è davvero complicato e presenta molte facce. Ma vorrei provare lo stesso a dare forma a qualche spunto su cui riflettere. In particolare attorno alla “cultura della legalità” e alla “cultura della disobbedienza civile”, del rispetto o non rispetto delle “leggi di uno Stato”. Sebbene la vicenda in questione, la sua “realtà”, resti ben lontana dalla purezza ideale che qualcuno ha voluto richiamare, forse Carola Rackete, la “capitana”, è novella Antigone. Ma chi la identifica in questo modo trascura che l’Antigone di Sofocle è una tragedia. La tragedia di Antigone è quella di una situazione dilemmatica dove si ha consapevolezza che ad avere voce sono molte e contrastanti verità, che esprimono la lacerazione e il dolore morali, esistenziali, di una comunità che “si prende sul serio” quando vi cade dentro e si trova a fare i conti con conflitti tra fini e tra valori “ultimi”, dove nessuna scelta è “giusta e punto!” o senza conseguenze costose. Antigone non è la tragedia superficiale delle parole in libertà o delle narrazioni patinate delle televisioni, che tendono a vedere solo “una parte” del problema e non il “tutto”, mentre è proprio nel “tutto”, nei diversi lati del problema, che sta il problema e la tragicità di certe scelte.
A sentire i vari media, sembrano tanti, e sicuramente molto “vocali”, i difensori della Sea Watch che con la sua eroina e i suoi disgraziati migranti ha sfidato apertamente il divieto del governo italiano (legittimato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e condiviso dal governo olandese). Sono esponenti della “riva progressista”, cattolica o di sinistra, oggi più che mai di variegata e annebbiata identità: intellettuali, giornalisti, persino parlamentari, attivisti politici e militanti di associazioni, personalità del mondo dello spettacolo o sensibili cantautori come Vecchioni. Con loro ci sono anche cittadini comuni, che in qualche caso manifestano nelle piazze sostegno alla capitana e ai suoi migranti, più spesso e più comodamente sui social.
Questo soprassalto di coscienza morale è solo l’ultimo di una serie. Spesso esprime i nervi ipersensibili (o scoperti) della nostra civiltà, occidentale, di fronte alle scene dei migranti: un soprassalto di coscienza e di ragioni umanitarie, di difesa dei diritti umani, spesso intriso di ingenua o generosa buona fede, talora di ipocrisie morali e culturali nascoste o irriconoscibili a noi stessi. Al fondo di tutto ciò c’è un “senso di colpa”, che ha spessore storico e che punta il dito, in modo ambiguo o solo in superficie, sulla condizione di benessere di un angolo del mondo, di chi ha una poltrona, una sedia o uno sgabello alla tavola imbandita dalle società sviluppate, di chi raramente è disposto a rinunciare a qualcosa della sua condizione per farla arrivare a quelli rimasti in piedi o, peggio, esclusi dalla tavola. Ma è giusto che una cultura esprima le sue pulsioni, i suoi umori e, quando capita, il suo senso morale. Non intendo qui discutere di questo. E men che meno voglio aprire il vaso di Pandora intitolato “immigrazione, migranti, profughi”, titolo che assembla sì fenomeni eterogenei, ma che dà a tutti l’idea di cosa bolle e ribolle in quel pentolone che è diventata la sfera pubblica. Dico solo che il fenomeno migratorio coinvolge tante figure, anche sinistre, ma pure masse di persone che, in un modo o nell’altro, per un motivo o l’altro, sono vittime, ora più ora meno innocenti, della nostra società, ma anche della loro e persino di se stessi. Queste masse sono uno specchio dell’altra faccia delle nostre società, della miseria umana e dell’indecenza morale che sfida le coscienze. Ma che sfida, dobbiamo capirlo, anche l’equilibrio sociale sempre più difficile delle società in cui viviamo. È una storia molto, molto vecchia.
Chiudere i porti è cosa controversa e di dubbia efficacia. Ma chiudere gli occhi anche. C’è qualcuno che davvero vede la soluzione nella “libera circolazione delle persone”, della massa dei migranti? C’è qualcuno che davvero crede nella forzatura di far coincidere l’astratto diritto individuale ad emigrare con il concreto diritto di masse di persone ad essere indiscriminatamente accolte (e come) dai Paesi dove vengono (e come) trasportati? C’è qualcuno che proprio non s’avvede che il rispetto delle leggi prodotte secondo il “metodo democratico”, con tutti i suoi limiti, è a suo modo un argine all’arbitrio e al caos? Attenzione a seminare vento, che poi si raccoglie tempesta. Il diritto della disobbedienza civile è cosa sacrosanta, ma gravida di conseguenze e costosa: o è cosa seria o diventa pericoloso passatempo domenicale.
E poi ci sono i migranti, anche quelli che si fanno e ci fanno domande. Su di loro e su noi stessi. Ad esempio:
Ma non era così
che mi avevano detto, il mare.
No non era così
e poi tanto di notte
cosa vuoi mai vedere.
Qui c’è uno che grida,
che dice ch’è tardi
e bisogna partire,
qui c’è uno che grida
e si deve partire.
E mio padre non c’è,
è rimasto da solo a masticare la strada,
perché dice che tanto
sarà guerra comunque
e dovunque si vada;
l’ho lasciato alla porta di casa
che sputava per terra
come fosse un saluto,
l’ho lasciato che sputava per terra
come se fosse un saluto.
Ma non era così
che mi credevo di andare.
No, non era così,
come un ladro, di notte,
in mano a un ladro di mare.
E mio padre alla porta di casa
che guardava per terra
come se avesse saputo,
e mio padre che guardava per terra
come se avesse saputo
(Gianmaria Testa, Rrock, 2006)
Il tema come dice Lei è molto complicato e presenta molte sfaccettature,da quelle legate al diritto a quelle morali e religiose. Capisco che non è semplice dare un giudizio,solo le persone acculturate come Lei possono trattare il problema nella sua molteplicità,citando Antigone e Kelsen ,
ma permetta un giudizio più terra terra da parte mia. Il giorno prima che scoppiasse il caso della ONG in questione sono arrivati con i barchini 120 migranti e in tutto il mese circa 500..dichiarazioni del sindaco di Lampedusa…Allora mi permetto di pensare che il punto non è ne Antigone ne il diritto di Kelsen ma è strettamente politico…politica di bassa lega…scusi il gioco di parole.Noi miseri mortali facendo il paragone della ong con i barchini traiamo subito le nostre piccole conclusioni. La legge non è più giustizia ,ma chiaramente non possiamo sovvertire neanche le leggi che regolano il nostro vivere quotidiano,il sistema sociale che in qualche modo struttura la nostra società.Il punto focale,che ribadisco da tempo,è l’informazione distorta data dai media in merito all’immigrazione,usata politicamente per fare cassa in termini di consenso,quanto gestita male precedentemente. Le masse sono facilmente indirizzate in tal senso,le paure economiche sono riversate verso il diverso,colpevolizzando gli altri di problemi atavici che noi non risolviamo. Chiaramente è un problema epocale,trasversale in tutto il mondo,e la nostra società moderna ,nella sua liquidità non è in grado di affrontare un problema che ci attanaglierà a lungo.
Condividendo ogni singola riga dei Suoi articoli, non è stato finora possibile per me lasciare un commento. Non ho infatti trovato nulla da aggiungere o da togliere da alle Sue riflessioni di cui nutro una smisurata stima.
Finalmente rilevo delle criticità che possono dar sfogo alla mia italica vena polemica.
1) Lei scrive “La crisi aperta dalla nave Ong è stata incanalata dentro le norme della legalità, quella dello Stato italiano e quella internazionale; ora viaggia sui binari del “diritto positivo”, il tipo di diritto dominante nell’Occidente contemporaneo, secondo cui le norme valide sono quelle fissate dallo Stato (e dagli accordi tra gli Stati): come messo a punto da Kelsen (padre del positivismo giuridico), ogni potere costituito, infatti, si avvale di una struttura giuridica formale, di un sistema di diritto che definisce ciò che è lecito/legale e ciò che è illecito/illegale, e difende il “suo” diritto. Non può che essere così”. Ne siamo sicuri? Veramente l’unico modo dirimere un problema è quello di rifarsi a leggi positive, ovvero razionali (e quale razionalità? da dove ha origine? quali sono le sue radici?). C’è invece chi si appella ad una “ragionevolezza” dove non vigono delle distinzioni rigide fra ciò che è lecito e ciò che non lo è, ma tutto è continuamente rimesso in discussione (rimando a ciò che è scritto in “La sfida di Minerva” di Serge Latouche).
2) Anche volendo ricadere in un essenzialismo legalista (cosa che del resto Lei non fa), non è chiaro se sia possibile parlare di “disobbedienza civile”: la capitana Carola, infatti, non è stata ancora condannata a languire in carcere.
3) Per rispondere alle sue domande finali: in effetti c’è qualcuno che vede la soluzione nella “libera circolazione delle persone”, che non riconosce come lecita l’esistenza di nazioni e confini e che non ha intenzione di creare un argine all’arbitrio e al caos. Il pensiero anarchico, con tutte le sue criticità e contraddizioni, merita di essere preso in considerazione per lo meno come avversario epistemico in quanto, anche se non gli viene data voce dalla narrazione dei mass media, è (ancora) molto diffuso.
Spero che le mie lagne non vengano prese come mera critica fine a sé stessa ma come spunto di riflessione.
La disinvoltura del legalismo a corrente alternata cui ricorrono i protagonisti dell’agone politico, mobilitando segmenti di opinione pubblica senza una ponderata valutazione di cosa abbia a significare – e a comportare – un approccio maturo alla disobbedienza civile, merita di essere rilevata e stigmatizzata. Al pari della disinvoltura con cui, per squalificare gli avversari, si ricorre a etichette improprie: il rischio dell’attribuzione inflazionata di determinati marchi è quello di assuefare il senso comune alla normalizzazione di certe tacce, eventualmente con esiti analoghi a quelli illustrati dalla favola di Esopo de “Lo scherzo del pastore”, più nota come “Al lupo al lupo”.