(Uscito in una versione più breve su “Trentino” e “Alto Adige” il 18 maggio 2016 – Pubblicato su questo sito il 22 giugno 2019)
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La scienza e la tecnologia ci consentono di farlo. L’opinione pubblica prevalente, la maggioranza e il Parlamento anche. Noi vogliamo farlo. Perché non dovremmo o non potremmo farlo? Questo, in sintesi, il quadro argomentativo di donne e uomini che rivendicano, ad esempio, la possibilità di avvalersi dell’ingegneria genetica, dell’eutanasia o dell’”utero in affitto”. Teniamo sullo sfondo questi esempi, e ragioniamo su un’altra storia.
Negli ultimi anni il Pentagono ha erogato molte risorse ad alcune università per programmi di ricerca sull’”insonnia efficiente”: per scoprire tecniche che permettano agli esseri umani una completa astensione dal sonno senza comprometterne le prestazioni. I ricercatori stanno conducendo sperimentazioni neuro-chimiche, di stimolazione magnetica transcranica, di terapia genica. Lo scopo del dipartimento della Difesa americano è di creare soldati liberi dal bisogno di dormire e quindi in grado di massimizzare la loro condotta in guerra. Come sappiamo, le innovazioni in campo militare trovano poi applicazione nella vita sociale. L’argomento dei critici è già pronto: “il soldato a prova di sonno è l’antesignano del lavoratore e del consumatore immuni dal sonno”. Ma è pronto anche il contro-argomento: “il progresso non si può fermare, anche se comporta rischi”. Questo è solo uno dei tanti casi che sollevano l’antico problema del rapporto tra scienza e politica, tra etica e tecnologia, tra “essere in grado di fare una cosa” e “essere nel giusto a farla”. Normalmente tali questioni si risolvono in termini di diritto. Ma basta il “diritto formale”, il cosiddetto “diritto positivo”, alla luce del quale perveniamo alle regole su cosa è lecito o meno fare? In verità, questo stesso diritto è sottoposto a discussioni che vanno oltre le tecnicalità giuridiche degli esperti: chiamano in causa considerazioni morali e decisioni politiche. Ma in democrazia né le une né le altre possono sfuggire al dibattito pubblico e alla sua capacità di elaborare argomentazioni motivate, le quali possono prendere le distanze non solo dal diritto vigente ma anche da quel diritto formale e “positivo” che struttura la legislazione. Alcune di queste argomentazioni contrappongono le ragioni del credente e quelle del non-credente, e chiamano in causa, ancora oggi, il “diritto naturale”. In questo quadro fa riflettere la lezione sui “principi non-negoziabili” del Papa-teologo Benedetto XVI.
Sebbene ormai sia ridotto a dottrina obsoleta, coltivata solo dalla Chiesa, il diritto naturale nasce da un legame “pre-cristiano” tra diritto romano e filosofia stoica (nel corso del II secolo avanti Cristo), al quale si è in seguito abbracciato il Cristianesimo. Da qui ha preso corpo lo sviluppo della cultura giuridica occidentale, ma anche l’Illuminismo, le dichiarazioni sui diritti dell’uomo, le costituzioni moderne, il riconoscimento dei “diritti umani” come inviolabili e inalienabili, l’affacciarsi sulla scena contemporanea di tribunali internazionali. Tutto ciò, secondo la lezione di Benedetto XVI, chiarisce che alla base di un diritto “valido perché giusto”, e non solo perché vigente, ci sono dei «valori che sussistono in se stessi, che conseguono dall’essenza dell’uomo e perciò sono intangibili». Questi valori derivano dalla natura e dalla ragione dell’«uomo in quanto uomo». Nell’ancorare il “diritto giusto”, e quindi la stessa legittimità del potere, al binomio natura/ragione, e non già alla “rivelazione”, Benedetto XVI si fa alfiere di una religione (il Cristianesimo) che si vuole essa stessa ispiratrice della “razionalità” moderna. Tuttavia, la “razionalità” rivendicata da Benedetto si rifà ad una ragione non riducibile alla razionalità positivistica, all’osservazione empirica o al calcolo utilitaristico e dell’efficienza.
Ma Benedetto XVI ha altresì marcato che “natura e ragione”, a loro volta, presuppongono la «Ragione creatrice di Dio». In altre parole, la fede è chiamata a sorreggere la ragione e ad illuminare la natura: la fede in Dio è essenziale per identificare i “valori ultimi” e i diritti fondamentali dell’uomo, per qualificare il “diritto giusto” e la legittimità delle scelte. E qui – dobbiamo osservare – l’uomo di fede, il “credente”, entra in tensione con il “non credente”, con l’uomo senza una fede religiosa propriamente detta. La cultura laica prevalente, infatti, rifiuta una fondazione divina e trascendente della legittimità delle scelte in democrazia: non a caso, il “diritto positivo” ha preso il sopravvento sul “diritto naturale”. A riguardo, Benedetto XVI parla di un «drammatico cambiamento» che ha finito per impoverire la ragione umana e le basi di legittimità della democrazia, sottraendo alla “ragione umana” e alla “legittimità democratica” il riferimento a “principi non-negoziabili”.
A questa altezza sorge il problema del rapporto tra credenti, non-credenti e variamente credenti nella sfera pubblica e nell’agone democratico, ovvero l’accettazione o meno della religione nell’una e nell’altro. Alla “linea di Grozio” dell’“etsi Deus non daretur” (come se Dio non ci fosse) diffusa nella cultura politica laica, ma anche in quella dei credenti, Benedetto XVI ha affiancato la “linea di Pascal” dell’“etsi Deus daretur” (come se Dio ci fosse): una visione, questa di Benedetto XVI, che ha incontrato aperture anche presso figure di riferimento della cultura laica, come ad esempio Jürgen Habermas, filosofo di ispirazione illuminista tra i più autorevoli del secondo Novecento. La “visione pascaliana”, argomentano i suoi sostenitori, getta luce sulle condizioni di legittimità di una democrazia laica, secolarizzata e matura, insistendo sulla “reciprocità”, sul “riconoscimento reciproco” tra credenti, non-credenti e variamente credenti e la loro “pari cittadinanza” in uno Stato costituzionale e liberaldemocratico. Quali le possibili ricadute politico-culturali di questa lezione di Benedetto? Qui ne colgo anzitutto una.
Dentro la cornice di una cittadinanza del “riconoscimento reciproco tra diversi”, a mutare di accento è lo stesso invito rivolto al credente: a questi non si chiederebbe tanto di agire nella sfera pubblica e politica secondo l’“etsi Deus non daretur”, bensì, più moderatamente, di “muoversi nella direzione” di una rinuncia alla trascendenza divina. Questa rimodulazione dell’impegno identitario e pubblico del credente si accompagna ad un altro invito, questa volta rivolto al non-credente: a questi non si chiederebbe di “fare proprio” l’“etsi Deus daretur”, ma piuttosto di “prenderlo sul serio”. L’”impegno di reciprocità” per il non-credente consisterebbe in una riappropriazione culturale di tradizioni e visioni del mondo ancora capaci di conferire un “significato” alla definizione dei valori e dei diritti fondamentali dell’uomo.
La prospettiva di un recupero in chiave critica e “laica” del diritto naturale è mossa dall’idea di fare di quest’ultimo un “terreno di incontro” tra credenti, non-credenti e variamente credenti. Si tratta di un “terreno d’incontro” che riteniamo si collochi, per così dire, “al di qua” di quella “soglia della fede (religiosa)” che tiene distinti, sul piano identitario, non-credenti, credenti o variamente credenti. Un “terreno di incontro” così concepito è un possibile quadro politico-culturale e valoriale attraverso il quale ricercare un “fondamento” e “ragioni” condivise per la legittimità di regimi democratici ancorati ai diritti umani “indisponibili” – e quindi non disponibili nemmeno al potere del popolo, al suo moderno principio di maggioranza democratica o al “principe” di turno che di volta in volta interpreta il potere – fosse anche la tecnologia.
La motivazione per la riapertura di una discussione pubblica su questi temi sta nella diagnosi di un impoverimento delle basi di “senso” e legittimità dello Stato di diritto liberale e democratico. L’argomento è riassumibile nella nota formula di Ernst Wolfgang Böckenförde, secondo la quale lo Stato secolarizzato vive di presupposti morali che esso non è in grado di produrre, e che nel tempo si sono erosi. Benedetto XVI ha sottolineato la necessità di riconoscere che il diritto si riallaccia alla “giustizia” e non già alla “volontà”: solo questo riconoscimento consente di “filtrare” dal potere il “potere legittimo”. Ci sono “buone ragioni” perché la nostra cultura politica, anche quella laica, secolarizzata, liberal o di sinistra, prenda sul serio l’eredità di Benedetto.
Dal mio pur modesto punto di vista – espresso in altre sedi a proposito delle cangianti interpretazioni del rapporto tra politiche di welfare e giustizia sociale – il riferimento al paradosso di Boeckenfoerde è centrale. Specialmente perché spiega la difficoltà di intavolare il confronto cercato da Benedetto XVI tra la ragione confessionale e una ragione pubblica segmentata, oggi più che mai in balia dell’infondatezza morale dello Stato liberale. Difficoltà che soprattutto emerge laddove il menzionato paradosso si traduce in dilemma: amministrare la convivenza pluralistica di più verità mutuate dai cittadini uti singuli da molteplici tavole di valori, oppure dichiarare apoditticamente dogmi autofondativi valevoli erga omnes. Tuttavia, in assenza di una “religione civile” condivisa ed espressiva dei contenuti basilari dell’idem sentire de re publica, gli esiti delle due opzioni mi sembrano corrispondere a quanto segue: il primo corno del dilemma rischia di risolversi in un indifferentismo valoriale incline ad ammettere tutto e il suo contrario, nell’illusione che la riduzione alla dimensione privatistica dei principi sia sufficiente a disinnescare gli attriti e le incompatibilità (quando invece equivale a nascondere il pattume sotto il tappeto); il secondo corno darebbe riscontro a un’autofondazione positivistica e perciò volontaristica, ossia coincidente con la volontà del soggetto di governo, con tutte le criticità che si accompagnano all’individuazione di contenuti permanenti, non sottoposti al mutare degli indirizzi perseguiti da maggioranze estemporanee e non coinvolti nell’arbitraria assimilazione della parte momentaneamente prevalente con il tutto, su cui pure la dottrina dello stato di Schmitt ebbe a esprimersi, eccependo le falle kelseniane e di un giuspositivismo democratico non così immune da involuzioni illiberali.