Capitol Hill, i social e Trump: è medioevo

(Pubblicato su questo sito il 17 gennaio 2021 – uscito su “l’Adige” e “Alto Adige” del 19 gennaio 2021)

Noi, cittadini di democrazie liberali e costituzionali (così sono definite quelle in cui viviamo), possiamo accettare che Trump, presidente uscente degli Stati Uniti, mentre è legittimamente in carica sia espulso o sospeso dai social media a causa di sue dichiarazioni e giudizi politici? Che a deciderlo siano i proprietari delle Big Technologies e magnati della comunicazione mentre nessuna autorità pubblica l’ha dichiarato illegittimo? Se l’intento è di spegnere un incendio, lo si sta facendo con la benzina o con colate di cemento: si rischia di generare effetti perversi nella società. Così l’ordine democratico va a rotoli, e la cultura democratica fuori di testa. Internet, dove agiscono social e siti web, ha una storia. Ricordiamone qualche passaggio, a sfondo della contrapposizione tra chi critica le decisioni dei social nel nome di uno spazio pubblico di libertà senza restrizioni e chi ne difende la legittimità in nome della proprietà privata. Aiuta ad affrontare i problemi resi acuti dal “caso Trump”.

Nel 1996 John Barlow rivolge un appello ai governi del “mondo industrializzato”: <<Governi del Mondo, stanchi giganti, io vengo dal Cyberspazio, la nuova dimora della Mente. A nome del futuro, chiedo a voi, esseri del passato, di lasciarci soli. Non siete graditi fra di noi. Non avete alcuna sovranità sui luoghi dove ci incontriamo. Noi non abbiamo alcun governo eletto. Mi rivolgo a voi con l’autorità con cui parla la libertà stessa. Io dichiaro che lo spazio sociale globale che stiamo costruendo è per sua natura indipendente dalla tirannia che voi volete imporci. Non avete alcun diritto morale di governarci. Noi non vi abbiamo invitati. Voi non ci conoscete e non conoscete neppure il nostro mondo. Il Cyberspazio non si trova all’interno dei vostri confini. Non pensate che esso si possa costruire come un edificio pubblico. È un atto di natura e si sviluppa per mezzo delle nostre azioni collettive. Non siete stati coinvolti nelle nostre partecipate discussioni e non avete creato il valore dei nostri mercati. Voi non conoscete la nostra cultura, la nostra etica, né i codici non scritti che danno alla nostra società più ordine di quello che potrebbe essere ottenuto dalle vostre imposizioni. I vostri concetti di proprietà, espressione e contesto non si applicano a noi >>. È la “Dichiarazione di Indipendenza del Cyberspazio” (DIC): esprime la visione dei tempi d’oro del mito della libertà della e nella rete. È l’idea anarco-libertaria di libertà. Barrow, sia detto per inciso, tra gli anni ’60 e ’70 ha lavorato con i Grateful Dead, una band di culto della cultura rock e psichedelica di quell’epoca, e questa “cultura della Mente libera” traspare nella visione politica che ispira la DIC. La DIC annuncia il redde rationem con l’autorità dei governi, disconosce ogni pretesa di regolamentazione “pubblica” dello spazio di sovranità della sfera “privata”; nell’affermare l’autonomia/autogoverno di un’inedita libera società civile che vive in internet, la DIC non è neppure sfiorata dall’idea che tale spazio possa essere controllato e regolato da potentati economici privati. Ma la DIC aveva un senso ormai alle spalle: negli anni ’90 le cose per la rete stavano cambiando.

La visione contenuta nella DIC era, e resterà, ingenua e superficiale. Ma incoerente e ipocrita era e resta pure quella che rifiuta la regolamentazione pubblica in virtù di quella libertà e quei diritti di proprietà privata che sono colonna portante delle nostre società liberali e capitalistiche: libertà e diritti oggi mobilitati a difesa delle censure decise da social “privati” contro Trump, ma non solo contro lui (in Italia ne sono stati lambiti Il Manifesto e Libero). Perché c’è incoerenza, ipocrisia e persino irrealtà in questa visione? Per il semplice ma decisivo fatto che nella vita collettiva non c’è modo di evitare la regolamentazione tramite leggi pubbliche da parte di autorità di governo, siano i governi democratici-liberali o meno. Infatti, come giornali e stazioni radio-televisive, anche i siti web beneficiano tutti i giorni della regolamentazione pubblica. Proprio a partire dai diritti di proprietà privata, che sono la quintessenza di una regolamentazione niente affatto privata. Posto che la regolamentazione è ineludibile, resta da stabilire “quale regolamentazione” sia preferibile in democrazie come le nostre. Andiamo avanti.

Internet: lo spazio e l’infrastruttura tecno-comunicativi dove si muovono i siti web e i social media, dove passiamo parte della vita, per comunicare e informarci. Non nasce in natura. E non è stata creata dal settore privato. Anche la sua storia, singolare coincidenza, inizia negli anni ’60, quando l’Advanced Research Project Agency (Arpa) del Dipartimento di Difesa americano crea una nuova rete per computer (Arpanet), con l’obiettivo specifico di consentire l’interazione tra i computer con cui lavora, per permettere ai suoi ricercatori di condividere ricerche e risorse informatiche. All’inizio degli anni ’70, il governo Usa prova a vendere Arpanet ai privati, che però rifiutano. Nel 1984 viene introdotto il DNS (Domain Name System). Alla fine degli anni ’90 si comincia a usare il termine “internet”, per indicare la rete sovvenzionata dal governo federale, ossia le varie reti collegate tra loro e che usano lo stesso protocollo. Nel 1990, mentre crollano il Muro di Berlino e il socialismo reale, al Cern di Ginevra viene creato il “www” (World Wide Web), un ramo multimediale di internet. In tutto questo periodo, pur sollecitate, le società private si tengono ben fuori dall’impresa.

È solo dagli anni ’90 che internet trova diffusione e usi commerciali. Nel 1995 l’asse portante della rete americana viene venduto ai privati, a un consorzio di multinazionali, e il governo federale attribuisce a una sola società il diritto di registrare i nomi di dominio. Creata e portata avanti dal governo, oggi internet è in mano ai privati, per lo più libera e non dipendente dalle autorità di governo. Salvo che per un “dettaglio”, cruciale: il riconoscimento e la tutela dei diritti di proprietà. Questi diritti sono attribuiti dalle leggi dello Stato e tutelati a spese dell’erario. Insomma, i social esistono e sono di proprietà privata di Tizio, Caio e Sempronio come figli di un mondo (internet) non creato dal “privato” ma dal “pubblico” e come riflesso di diritti (proprietà privata) definiti, tutelati e difesi da leggi e agenzie pubbliche (a partire da quelle che si occupano di violazione della proprietà privata o di cyberterrorismo). C’è di più: oggi i social, per loro natura e funzione, sono equiparabili a beni non solo privati ma anche pubblici: sono essenziali per la libertà di opinione e il pluralismo dell’informazione, per caratterizzare come democrazie i nostri regimi politici. Che a deciderne accesso ed esclusione siano potentati privati ci fa tornare al medioevo, quando feudatari e signori della guerra stabilivano per conto proprio chi poteva fare cosa nei territori di cui erano padroni. E spesso erano padroni fuori da ogni legge, se non quella arbitrariamente stabilita da loro e dalle loro truppe o bande armate. Gli altri, semplicemente obbedivano. Volenti o nolenti, si piegavano alla forza del signore, e lo ringraziavano per la sua (eventuale) “generosità”: erano dei sudditi. Ma noi siamo cittadini, soggetti della sovranità democratica. O no? E dato che neppure internet può essere terra di libertà assoluta, qualcuno deve regolamentare i social: accesso, uso, espulsione. E allora? Un’autorità democratica è preferibile al potere privato: se pur non è la panacea di tutti i mali, è il male minore. Perciò: noi, cittadini di democrazie liberali, possiamo davvero accettare che Trump, comunque lo si giudichi, sia espulso o sospeso dai social?

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