Art. 21. Democrazia, elezioni e diritti, universali ma sulla Carta

(Pubblicato su questo sito il 18.11.2020 – In corso di pubblicazione in AA.VV., 30 voci per 30 diritti. Commenti liberi agli Articoli della Dichiarazione Universale dei diritti dell’umanità (a cura di Ferrandi e Marcantoni),Trento, Fondazione Museo Storico del Trentino, 2020)

Ogni individuo ha diritto di partecipare al governo del proprio paese direttamente o attraverso rappresentanti liberamente scelti. Ogni individuo ha diritto di accedere, in condizioni di eguaglianza, ai pubblici impieghi del proprio paese. La volontà popolare è il fondamento dell’autorità del governo e dev’essere espressa attraverso periodiche e veritiere elezioni. (Dichiarazione universale dei diritti umani, art. 21, 1948)

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Con l’art. 21, la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo (1948) proclama l’estensione all’intera comunità umana del principio di democrazia che sta alla base delle costituzioni moderne. Libertà, partecipazione e inclusione nella sfera delle decisioni politiche sono diritti dell’uomo che vanno riconosciuti e protetti, e stanno a fondamento di ogni convivenza democratica. Il processo attraverso cui libertà e democrazia, giustizia ed eguaglianza, hanno trovato riconoscimento, rimanda a una storia lunga, attraverso importanti snodi della modernità politica. Alla fine, i diritti universali dell’uomo paiono aver trovato la loro fondazione. Ma “proclamare” i diritti “sulla carta” non è sufficiente: affinché siano effettivamente vissuti, i diritti hanno bisogno di essere attuati e garantiti nella vita di tutti i giorni. La Dichiarazione, per un verso, rappresenta una sintesi della storia già compiuta, per l’altro, una bussola per la strada che resta da percorrere, dove i diritti dell’uomo non sono scolpiti una volta per tutte, nel bene come nel male. La Dichiarazione può diventare la Magna Carta universale dell’umanità? Può, oggi, aiutarci nell’impresa di uomini novelli Sisifo della modernità, dell’iper-modernità o della post-modernità che dir si voglia? O non ci resta che rinunciare? Questa è la difficile sfida dei nostri tempi.

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Con l’art. 21 la Dichiarazione Universale proclama l’estensione all’intera comunità umana del principio di democrazia che sta alla base delle costituzioni moderne. Si afferma che il riconoscimento e la protezione dei diritti dell’uomo stanno a fondamento di ogni convivenza democratica: senza diritti dell’uomo non c’è democrazia; senza una stretta unione tra diritti dell’uomo e politica democratica, i valori umani e democratici perderebbero di significato nella vita collettiva: la dignità delle persone, le condizioni di libertà, eguaglianza e giustizia, la pace, la sicurezza e il benessere di tutti, la ricerca della felicità da parte di ciascuno.

   In secondo luogo, includendo i diritti politici e la democrazia nella famiglia dei diritti umani, la Dichiarazione vuole sancire che i diritti di cittadinanza non sono solo “diritti del cittadino”, e cioè quelli associati alla comunità statuale di cui si è membri, ma pure “diritti dell’uomo in quanto uomo”, indipendentemente dalla sua appartenenza nazionale e giuridica.

   Il processo attraverso cui libertà e democrazia, giustizia ed eguaglianza, hanno trovato riconoscimento, rimanda a una storia lunga. Ha avuto importanti accelerazioni attorno a tre snodi della modernità politica: 1) quello della loro affermazione come “ideali” da perseguire, a cui ha dato impulso l’Illuminismo europeo (Locke, Rousseau, Kant). 2) Quello della loro definizione e protezione costituzionale nell’ambito dello Stato di diritto liberale e democratico, a ridosso della Rivoluzione Americana e della Rivoluzione Francese del XVIII sec., ma anche grazie alle due rivoluzioni inglesi del XVII sec.; e qui ogni Stato diventa responsabile della protezione concreta e giuridica (o meno) dei diritti dei suoi cittadini. 3) Quello della Dichiarazione Universale delle Nazioni Unite che, nel 1948, “trasforma” i diritti del cittadino membro di uno Stato in diritti universali di tutti gli uomini, che, per così dire, diventano “cittadini di una città che non conosce confini”, “cittadini del mondo”.

   Alla fine, i diritti universali dell’uomo paiono aver trovato la loro fondazione ultima, almeno secondo il “diritto positivo”, che è quel diritto prevalente nella nostra epoca e che vede la fondazione dei diritti nelle norme statuite e sacralizzate nelle Carte secondo principi di libera adesione e consenso generale da parte di chi le sottoscrive. A ciò la Dichiarazione aggiunge l’ ”universalizzazione” dei diritti dell’uomo in essa proclamati. Ma, va osservato, “proclamare” i diritti “sulla carta” non è sufficiente: affinché siano effettivamente vissuti, i diritti hanno bisogno di essere attuati e garantiti nella vita di tutti i giorni. Perciò, con riguardo ai diritti politici e democratici, la Dichiarazione è un punto di partenza più che di arrivo per rendere effettivi diritti che, al momento, restano ancora “un ideale comune da raggiungere” per tutti i popoli e per tutte le nazioni. Ai nostri tempi, l’ONU non è in grado di rendere “effettive”, efficaci ed operative, le norme para-giuridiche proclamate.

   I limiti della Dichiarazione attendono molto lavoro. In primo luogo, riguardo all’efficacia delle norme universali, perché a livello internazionale, a fronte degli Stati-nazione sovrani (chi più e chi meno), non esiste una “comunità umana” organizzata e dotata di quel “monopolio dell’uso legittimo della forza” necessario a proteggere i diritti dell’uomo su scale universale: la stessa tutela o meno dei diritti dell’uomo è per lo più affidata, nella concreta vita quotidiana, alle scelte compiute dagli Stati, come ci mostrano anche i nostri tempi di crisi pandemica. Una norma universale non sorretta da sanzioni applicabili e da mezzi coercitivi atti allo scopo, produce diritti (e doveri) spesso “universali” solo sulla Carta. In secondo luogo, a distanza di decenni la Dichiarazione mostra un altro limite, che riguarda i contenuti e la declinazione dei diritti democratici. La Dichiarazione risulta invecchiata di fronte ai mutamenti storici e alle sfide derivanti da nuovi diritti emersi nell’epoca successiva al dopoguerra. Lo sviluppo vorticoso della tecnica e delle tecnologie, le profonde trasformazioni dell’economia e della finanza, la crescente quantità e circolazione delle informazioni, la diffusione di nuovi e potenti mezzi di comunicazione, hanno prodotto grandi rivolgimenti nella vita umana e nei rapporti sociali, nella vita quotidiana come nella sfera politica; hanno sollevato nuovi bisogni, sensibilità, forme di libertà e di regolazione e legittimazione del potere in democrazia. Ad esempio, nel campo della partecipazione al potere da parte del cittadino comune, della sua inclusione nella sfera delle scelte pubbliche, oggi è più evidente che mai quanto il potere economico privato sia decisivo nella definizione delle politiche che condizionano pesantemente la vita di ogni uomo e donna. Secondo una linea di pensiero di sicura fede democratica, oggi riemerge un tema che è alla radice della “questione democratica”: nel governo di una società democratica l’inclusione politica del cittadino non può solo basarsi sul “contare i voti” ma necessita anche di farli “pesare”, quale sia lo spazio politico volta a volta considerato (locale, nazionale, europeo, globale). Ne consegue che il potere democratico, per avere efficacia, non può restare circoscritto nella sfera delle istituzioni politiche classiche (parlamenti e governi, a livello locale, nazionale, europeo o globale), ma estendersi pure alla sfera e ai luoghi dove si concentra il potere (economico, finanziario, politico). Insomma, come altre volte nella storia della democrazia, cambia la “soglia di inclusione” dei cittadini nel governo della cosa pubblica, e la sfida dei “diritti (e doveri) del cittadino” incrocia quella dei “poteri del cittadino”.

   Nonostante i progressi dei diritti universali dell’uomo, se li sottoponiamo a un esame critico, è difficile negare quanto gli audaci proponimenti dei filosofi illuministi, le sofisticate formulazioni giuridiche e la crescita delle organizzazioni internazionali, l’impegno di uomini di “buona volontà”, restino offuscati o delusi. Il cammino verso una realtà democratica e di diritti umani universale è ancora lungo. Ma un punto non va perso di vista: nella Dichiarazione fa capolino la coscienza storica che l’umanità è arrivata ad avere dei suoi valori fondamentali. La Dichiarazione, per un verso, rappresenta una sintesi della storia già compiuta, per l’altro, una bussola per la strada che resta da percorrere, dove i diritti dell’uomo non sono scolpiti una volta per tutte, nel bene come nel male.

   Nell’Antica Grecia, contro Aristotele, per i difensori di quella forma di governo che poi avrà molta fortuna con il nome di “democrazia”, la democrazia era intesa come quel sistema di autogoverno partecipativo che contribuiva alla ricerca della felicità tra persone che vivono insieme. Da allora di acqua ne è passata sotto i ponti della storia, per la democrazia e per i diritti dell’uomo-cittadino. Oggi persino quei sistemi che continuiamo a chiamare democratici rischiano di esprimere soprattutto “le promesse non mantenute” della democrazia. E tuttavia sembra che qualcosa di “magico” sia attaccato addosso alla democrazia e ai diritti dell’uomo-cittadino – a dispetto delle sue alterne o problematiche fortune, a dispetto del fatto che la ricerca della felicità abbia preso vie diverse da quella che la ancoravano allo spazio dei diritti e dei doveri della comune cittadinanza come valore degli uomini e delle donne. Questa “magia della democrazia” andrebbe coltivata con cura. Qui sta la difficile sfida dei nostri tempi: la Dichiarazione può diventare la Magna Carta universale dell’umanità? Può, oggi, aiutarci nell’impresa di uomini novelli Sisifo della modernità, dell’iper-modernità o della post-modernità che dir si voglia? O non ci resta che rinunciare?

   Nell’odierna condizione di “democrazia disincantata” e demoralizzata, schiacciata nell’impegno solo a favore del benessere, del successo e del profitto personali, dove fiducia e rispetto, lealtà, senso civico e senso critico, “bene comune”, paiono compromessi, permane il bisogno di un “re-incanto democratico”. Sarebbe nostro dovere prenderlo sul serio, decifrarlo e governarlo. Se la democrazia ha avuto una storia costellata da ondate di successi e fallimenti, perenne rimane la sfida del suo fascino. Su queste premesse e su questo tavolo di lavoro dovremo poggiare e aggiornare la Dichiarazione del 1948. Per cercare di accorciare la distanza che separa la democrazia reale da quella ideale, all’interno dei singoli Stati e nel mondo intero. Ciò richiede una cultura politica matura. Ma anche la forza per ridisegnare quel sistema di divisione ed equilibrio dei poteri ereditato da Montesquieu, che tanto ci ha dato ma che oggi pare ridotto a “trappola e nebbia democratica”, dove la vita dei diritti dell’uomo-cittadino è fievole di fronte all’organizzazione del potere nel nostro mondo.

 

 

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