Oxfam, Davos e i don Chisciotte

(Uscito, in versioni leggermente diverse, su “Alto Adige” del 24 gennaio 2020 e “l’Adige” del 25.gennaio 2020 – Pubblicato su questo sito il 25 gennaio 2020)

Scena 1. Il nuovo Rapporto Oxfam, appena uscito, dice che le diseguaglianze galoppano. Nel 2019, poco più di 2000 “Paperoni” possiedono un patrimonio che supera quello di 4 mld e mezzo di persone: la concentrazione della ricchezza acuisce il divario tra ricchi e poveri a livello mondiale, che è aumentato rispetto al 2018. La situazione non è diversa in Italia, dove nell’ultimo ventennio la ricchezza dei più ricchi (1% della popolazione) è cresciuta di quasi 8 punti percentuali, mentre quella del 50% dei più poveri è diminuita di oltre 35 punti.

Scena 2. Dal 21 al 24 gennaio a Davos (Svizzera) si terrà la 50° edizione del World Economic Forum (WEF). I grandi della terra, della finanza e dell’economia, della politica e della società, si troveranno a discutere e mandare messaggi al mondo. Sappiamo che le parole pronunciate dai palcoscenici mediatici spesso contrastano con gli intendimenti e le parole che i protagonisti si scambiano dietro le quinte: sta ai commentatori e all’opinione pubblica vagliarne criticamente la discrepanza. Quest’anno sentiremo cosa diranno i Trump e i Soros, Van der Leyen (presidente Commissione Ue), Lagarde (presidente BCE), Georgieva (direttrice FMI), Ren Zenghfei (fondatore di Huawei), l’immancabile Greta Thunberg (“persona dell’anno” secondo il Time). Stando al programma, ovviamente si parlerà molto di ambiente, di un mondo a sviluppo sostenibile. Ma anche di un mondo alla ricerca di coesione sociale e di senso etico.

Scena 3. Klaus Schwab, l’ottantenne economista e ingegnere, fondatore e direttore del WEF, nei giorni scorsi si è espresso sullo stato dell’economia, della politica e della società, con parole che meritano attenzione, visto il mondo e gli interessi a cui il suo Forum guarda. Dice che l’avanzata delle forze anti-sistema è una «contro-reazione a quel liberalismo estremo e alla sua spinta ai massimi profitti»; definisce le pressioni anti-sistema un sintomo e una conseguenza del progressivo venir meno del senso di giustizia sociale, dell’inasprirsi della percezione collettiva delle diseguaglianze sociali, e non la causa dei mali di cui soffrono le democrazie dei nostri giorni. «Dagli anni ’70 banche e finanza hanno perso ogni contatto con l’economia reale»: c’è bisogno di un «capitalismo responsabile», di un sistema nuovo, dove le aziende, ad esempio, non siano considerate solo organismi economici ma organismi sociali che oltre a produrre risultati economici positivi (crescita) provocano anche «effetti negativi», «costi esterni» nocivi per l’ambiente e la salute, e per la coesione sociale. Le imprese e i governi non hanno del tutto appreso, aggiunge Schwab, la lezione della crisi del 2008, né quella dei limiti della globalizzazione. Il che dovrebbe farci riconsiderare il primato neoliberale attribuito al mercato.

Schwab insiste sui limiti della globalizzazione, e sugli abusi della retorica, economica e politica, che da tempo dominano nell’ideologia del globalismo: «Nel passato si poteva giustificare la globalizzazione senza limiti sostenendo che produceva più vincitori che vinti», milioni di persone sono stati strappati dalla povertà, «Ma oggi il pendolo sta tornando indietro», e altri milioni di persone maturano la consapevolezza di essere lasciati indietro, non solo nel mondo in via di sviluppo ma anche in quello sviluppato, dove molti si trovano esclusi e ridotti a periferie sociali, politiche e culturali della cittadinanza contemporanea. Il promotore del WEF denuncia la globalizzazione aperta e «senza cuore», l’obiettivo è «trovare un equilibrio tra l’apertura dei mercati e la necessità di salvaguardare la coesione sociale».

Scena 4. È noto che nel corso del suo sviluppo storico il capitalismo ha prodotto tanta ricchezza, ma anche povertà, materiali e immateriali. Ha favorito il benessere economico, da un lato, dall’altro diseguaglianze, ingiustizie sociali, miseria umana, esclusioni culturali e psicologiche. Da tempo la sua cornice neoliberale mostra segni di crisi, ha creato una separazione tra “mondo di sopra” e “mondo di sotto”. In Occidente, sulla linea che divide questi due mondi oggi annaspa e si agita un ceto medio la cui rappresentanza politica sfugge alle capacità di risposta delle destre e sinistre tradizionali, di governo: un ceto medio il cui consenso spesso arride a forze politiche che agitano obiettivi più o meno anti-sistema, ossia che si pongono ai confini dell’ideologia neoliberale. Buona parte di questo ceto medio (i “penultimi” della società liberaldemocratica) si colloca su posizioni trasversali rispetto all’asse destra-sinistra: centro-sinistra e centro-destra tradizionali faticano ad aggregare le domande della società, non riescono a farsi interpreti dei sentimenti di insicurezza e di “deprivazione relativa” dei “penultimi”, non capiscono la loro percezione di scivolare nel “mondo di sotto”, nelle “periferie della considerazione” sociale, culturale e politica, prima ancora che nelle periferie economiche e territoriali. Così, in politica, tra alti e bassi, ha assunto nuovo rilevo quel confronto/scontro tra politica pro-sistema (neoliberale) e politica anti-sistema (post neoliberale) che rende instabile, confuso e incerto il governo delle democrazie, che ha disilluso molti nei confronti di un’Unione Europea troppo sorda ai nuovi problemi, bisogni e precarietà di fasce consistenti della società. I così detti populismi o sovranismi sono il sintomo dell’irradiarsi nel tessuto sociale di una “guerra tra ultimi e penultimi”, di cui sono responsabili prime la miopia delle élites e l’impotenza delle forze politiche pro-sistema, (moderate e progressiste), spesso intrappolate in strumenti di analisi inadeguati o nel piccolo cabotaggio del “così stanno le cose”.

Scena 5. I nostri sono tempi di rivoluzione senza rivoluzionari. Questo rende più facile andare avanti nella vita e nella politica di tutti i giorni, ma più difficile trovare soluzioni all’altezza delle sfide del cambiamento in corso. Il risultato è che a fronte del mondo implasticato e logoro di Tv e media c’è un mondo in sofferenza. Le nostre sono diventate “democrazie sgraziate”, tristi o rabbiose, rudimentalizzate o rancorose: non solo nei toni e nel linguaggio, ma nell’ethos della convivenza civica. La fiducia e il rispetto reciproci tra i diversi segmenti della società scarseggiano; ancora peggio va la fiducia verso la classe politica e le istituzioni pubbliche, comprese università, esperti, imprenditoria, sindacati, mass media e giornali, chiese. Le liberaldemocrazie stanno consumando la coesione sociale e la solidarietà “tra diversi” accumulata faticosamente dal dopoguerra. Non riescono ad alimentarle. L’efficientismo competitivo, economico, tecnico, amministrativo, scientifico, produttivista e “mercatistico”, ha generato guasti e buchi nel tessuto etico e valoriale della vita collettiva.

Scena finale. I problemi del nostro tempo ci chiedono di riconsiderare con occhi nuovi il “mondo dato per scontato” modellato dal neoliberalismo. Si riparta da qui. Riflettano, a destra e a sinistra, gli zelanti cacciatori di populismo e sovranismo: dietro la sfida, scomposta, della politica anti-sistema ci sono un mondo e una politica che stanno cambiando, e che devono cambiare se vogliamo recuperare la coesione sociale smarrita. La sfida della politica anti-sistema sta nella domanda di una nuova coesione sociale, nelle domande di inclusione e di rispetto dei “periferici”. Senza coesione sociale non c’è democrazia degna di questo nome.

 

 

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