(Uscito su “Trentino”, 20 marzo 2016; “Alto Adige”, 21 marzo 2016 – Pubblicato su questo sito l’11 giugno 2020)
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Di tanto in tanto, l’opinione pubblica è sollecitata a riflettere sui limiti di coesione sociale della nostra società, sul decadimento dell’idea di “bene comune” e dell’impegno a suo favore. Ci si interroga sull’individualismo che permea le società occidentali. Si levano voci che lamentano un ripiegamento individualistico su noi stessi individualisticamente, che denunciano lo sfaldamento del tessuto connettivo delle nostre società dove regna l’individualismo.
C’è qualcosa di psicologico, forse di antropologico, in questo individualismo che dà le coordinate di significato alla nostra vita privata e pubblica. Ma dietro il modo in cui viviamo, dietro le scelte collettive e la maniera con cui ci governiamo c’è anche una questione di cultura politica, o ideologica. A ciò è utile risalire per comprendere il nostro mondo, per meditare su cosa seminiamo e cosa raccogliamo. Per questo vorrei ritornare sul neoliberalismo, la cui cultura è stata pochi anni fa attaccata, insieme ai suoi luoghi, dal fondamentalismo islamico, a colpi di violenza e morti. Ma la società neoliberale è in sofferenza anche per molti chi vi convivono pacificamente. Da tempo hai i suoi problemi, che non sono accidentali né caduti dal cielo.
Dall’epoca del suo trionfo politico-culturale, il neoliberalismo dimentica o nega la sua natura di visione del mondo che dà una “particolare” forma all’economia, alla politica, al diritto, alla cultura. Questo è il punto. Nell’opinione corrente, il neoliberalismo si è accreditato come a-ideologico, si narra come conferma dell’epoca post-ideologica. La società costruita, pensata o desiderata con i caratteri neoliberali pare ai più la sola “oggettivamente” disponibile, reale, immaginabile. In verità, il neoliberalismo segna anch’esso la nostra epoca come ideologica: non siamo alla “fine delle ideologie”. Le ideologie, peraltro, non sono il male assoluto e sono ineliminabili dalla vicenda umana. Possono provocare danni enormi, certo. Ma lo stesso possiamo dire del pragmatismo, dell’opportunismo o del cinismo imperanti – sé dicenti non-ideologici, ma ideologie anch’essi. Dovremo re-imparare a discutere seriamente e a viso aperto di ideologie vecchie e nuove, obsolete o acerbe, riconoscerle e scegliere con un po’ di consapevolezza come ricostruire il nostro mondo: perché il mondo è sempre in ricostruzione.
“Non ci sono alternative” è il mantra dell’ideologia neoliberale. Ma assurgendo a “pensiero unico”, essa diventa anche “totalitaria” – come intuito da Pasolini. Possiamo immaginare alternative o varianti? Possiamo. Per riaprire il dibattito osserviamo, ad esempio, che il programma politico-culturale del liberalismo, in parte quello classico ma soprattutto quello del neoliberalismo dell’ultimo mezzo secolo, è stato di “scambiare” la società “calda” delle comunità tradizionali con la società “fredda” degli individui moderni. La sua promessa di accrescere libertà, benessere e dignità degli individui e dei cittadini ha modellato la modernità e le liberaldemocrazie. La modernità liberale reca con sé l’idea di relazioni sociali di tipo contrattuale e basate sulla libera volontà al posto di quelle “vincolanti” della “comunità”: relazioni imperniate sul primato dell’individuo, sull’individualismo e un razionalismo utilitaristico, sul “disincanto del mondo”; relazioni capaci di liberare dagli opprimenti legami comunitari delle società tradizionali. Per la narrazione (neo)liberale, la comunità è fenomeno residuale: sopravvivenza reazionaria, al più nostalgia romantica e utopistica di un’età dell’oro mai esistita. Progresso e civiltà guardano altrove.
Una diagnosi serena del nostro tempo suggerisce, però, un completamento e superamento della modernità liberale – senza misconoscerne i benefici. Forse è il momento di disancorare l’idea di comunità dall’arcaicità in cui l’ha relegata un illuminismo malinteso. Oggi a chiedere attenzione è un bisogno di “comunità nella modernità”: qui è la sfida dello “spirito” comunitario. Il valore da riconquistare è il solidarismo civico, partecipativo: questo fa la differenza tra una democrazia di qualità e una dove di tanto in tanto si va a votare. Ma la cultura politica prevalente muove in direzione opposta: ci si sta abituando a vedere votare solo la metà (o poco più) degli aventi diritto. Il voto si “sparpaglia” anziché aggregarsi, e il tanto nobilitato bipartitismo o bipolarismo politico va a rotoli in tutta Europa. Per risposta, la classe politica e dirigente italica da anni armeggia con i sistemi elettorali per rendere stabili e “maggioritari” governi in realtà espressione di minoranze o frutto trasformistico e arlecchinesco di sommatorie di minoranze: “maggioranze” troppo artificiali. Diciamolo: l’ingegneria elettorale e istituzionale non basta; anzi: non deve bastare. Occorre soprattutto lavorare pazientemente sui nostri modelli culturali, riflettere con senso critico e lungimiranza sui valori del vivere civile. Questo ci aspetteremmo da chi occupa posizioni dirigenti e ha responsabilità collettive, e intellettuali. Di questo dovrebbe esser consapevole e convinto anche il normale cittadino. Prendersi cura della res publica, a partire da un rione o borgo, è compito di tutti. Non per trarne benefici “particulari” o “familistici”, ma per contribuire a creare un posto migliore dove vivere tutti – dividendo con maggior senso di equità e decenza la torta, ripensando gli ingredienti per la sua crescita. Darsi da fare per impreziosire i nostri salotti domestici, confidando che una volta entrati in casa chiudiamo la porta, alla lunga è cosa triste. Anche pericolosa: il “far west” o la disperazione che imperversano alle spalle della porta prima o poi la faran saltare, e con essa cristalli e sogni chiusi in casa.
Per riqualificare la libertà, il benessere e la dignità delle persone dobbiamo cominciare ad incamminarci oltre quell’individualismo un po’ spicciolo e superficiale che finisce per svilire il “privato” di ciascuno e la vita pubblica di tutti. Benedetto XVI, negli anni del suo papato, ha insistito sui “valori non negoziabili” – suscitando vespai di polemiche, persino nel mondo cattolico. Se mai c’è un qualche principio non negoziabile, è da cercare nei pressi del connubio tra solidarismo civico e dignità delle persone. Forse è chiedere troppo alla nostra epoca. Ma qui sta il lato “incantevole” della democrazia. Senza un soprassalto di virtù comunitarie e “repubblicane”, tutte le riforme saranno solo variazioni su un tema stonato. E si aggraverà il “disagio” della modernità neoliberale.