(Uscito, in versione diversa e con altro titolo, su “UniTrentoMag”, 3.12.2018 – Pubblicato su questo sito il 20 gennaio 2020)
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Nella primavera di cinquant’anni fa usciva l’ultimo singolo dei Beatles. Sul lato A era incisa The Long and Winding Road: una melodia struggente, che il produttore Phil Spector aveva appesantito con archi sinfonici, sbagliando arrangiamento, snaturando il brano (una ballata pianistica) e facendo infuriare Paul McCartney, autore del brano. I Beatles si erano appena sciolti: siamo ai titoli di coda, postumi. Era (e resta) una malinconica canzone, ma anche una preghiera, dice di un cammino di dolori e di speranze che porta a una porta: qualcuno si è perso e improvvisamente pare ritrovarsi, nel bussare a quella porta, chiedere di poter entrare. È la canzone di una strada lunga e tortuosa, sotto il vento e la pioggia, si allude ad errori, a dolori e a speranze. The Long and Winding Road vende 4 milioni di copie: un buon successo commerciale. Ma oggi voglio ricordarla perché, a riascoltarla e nel contestualizzarla nella sua epoca suona come il congedo doloroso e malinconico dei “mitici anni 60”, canta di rimpianti che supplicano un riscatto. Nel 1970 siamo nella fase calante del lungo 68 italiano. E quella porta a cui nella canzone si bussa non si riaprirà, lasciando lo sguardo solo sui tormenti e i dubbi di una strada piena di curve e di intemperie. Seguendo una libera associazione che non mi preme nemmeno di giustificare, vorrei per un momento riflettere sull’oggi parlando del “lungo e tortuoso” 68 italiano.
La concezione di un “lungo Sessantotto” italiano e la sua articolazione interna aiutano a comprendere perché le predominanti correnti interpretative del Sessantotto non solo faticano a dialogare tra loro, ma risultano anche poco convincenti nella lettura di quella stagione. Semplificando un po’, nella cultura politica post-Sessantotto alle prese con eredità e significato del 68 possiamo distinguere due principali correnti interpretative. La prima tende a demitizzare e a squalificare il Sessantotto: vede in esso sbandate ideologiche, gruppettismo settario, violenza omicida e un tocco di paranoia esistenziale, secondo una linea di continuità tra la contestazione studentesca e gli “anni di piombo”. La seconda identifica nel Sessantotto un movimento gioioso e liberatorio, che ha cambiato una società imbalsamata e opprimente, e marca una netta linea di cesura tra protesta studentesca e terrorismo armato. La prima corrente tende a vedere un unico “lunghissimo Sessantotto”, che, sostanzialmente, dal 1966 (se non dal 1965) arriva fino agli anni ’80; la seconda, un “brevissimo Sessantotto”, che si dissolve ben prima dell’arrivo degli anni ’70 (per un approfondimento si veda G. Nevola, Frammenti di un discorso politico-culturale. Il 68 nel 2018, tra democrazia di qualità e politica anti-sistema, in “SocietàMutamentoPolitica”, n. 18, 2018; ora anche su questo sito).
Lo dico con un certo schematismo: entrambe le correnti hanno ragione, in parte; ma entrambe hanno soprattutto torto. Il Sessantotto italiano è stato “uno e trino”. Il che significa che è sbagliato sottovalutare le sue differenziazioni interne, le sue discontinuità (come fa la prima corrente); ma anche che è sbagliato sottacere quella che definirei la sfuggente fase di congiunzione tra “un primo Sessantotto”, quello della contestazione studentesca, e “un terzo Sessantotto”, quello della violenza armata (come fa la seconda corrente). Fuori da ogni equivoco, gli anni di piombo non sono il Sessantotto del movimento studentesco (simbolicamente immortalato dal Maggio francese), le Brigate Rosse non sono Rostagno, qualunque giudizio se ne voglia dare. Ma, ancora fuori da equivoci, nel terrorismo degli anni 70-80 si annida un’eredità, per quanto sfigurata, del “Sessantotto anni 60”. È per questo che c’è da essere cauti nel caratterizzare il lungo Sessantotto italiano: si tratta di una stagione complessa e sfaccettata, persino contraddittoria, che sfuma e ridisegna i suoi connotati nel corso degli anni. Un’epoca che non può essere scolpita in maniera unilaterale (“buonista” o “cattivista” che sia). Analizzare oggi il Sessantotto, a partire da quello italiano, significa lavorare sulle sue curvature; e prendere le distanze sia dai più acidi o disillusi critici di “ogni Sessantotto”, quanto dai più bonari o delusi difensori ad oltranza di un “Sessantotto autentico” finito presto o tradito. Dagli uni e dagli altri arrivano ricostruzioni che oscurano la nostra vista più di quanto la illuminino.
Discutere pubblicamente e cercare di riappropriarsi culturalmente e storicamente, oggi, del lungo Sessantotto italiano, e della sua memoria pubblica, è compito anzitutto delle generazioni post-sessantottine: tanto ai fini di un’analisi critica e dei giudizi storici, quanto per la comprensione della sua eredità e del mondo di oggi. È in primo luogo alle generazioni “post-sessantottine”, specie quella che non ha vissuto direttamente quella stagione ma che pure ne è stata lambita, che spetterebbe questo compito: perché generazionalmente e biograficamente caratterizzata da quella miscela di “coinvolgimento e distacco” che secondo Norbert Elias agevola la buona conoscenza di un fenomeno.
Infine. Pensiamo al patrimonio politico-culturale, alla carica ideale, ai valori di giustizia e di emancipazione, di libertà e di eguaglianza che, nonostante tutto, nel Sessantotto c’erano o almeno un certo Sessantotto aveva cercato a suo modo di rilanciare. E confrontiamolo con il paesaggio politico-culturale dei nostri giorni, con la sua omologazione del pensare e del fare, irrigidita nell’ideologia (o “narrazione”) del “non ci sono alternative” e del “politicamente corretto”, nella pervasiva chiusura “pro-sistema” coltivata con gusto pseudo-tecnocratico dalla cultura politica dominante. La storia e la scienza politica insegnano che i sistemi politici rigidi, incapaci di “incorporare” la protesta e di convivere con le sfide dei tempi e i soggetti che le interpretano, alla lunga sono destinati a crollare. Nel caso dei regimi liberal-democratici, così ha osservato Shmuel Eisenstadt, il destino è il deperimento della loro qualità e la chiusura degli orizzonti futuri (per un approfondimento si veda G. Nevola, Socialismo e democrazia? Considerazioni sul mito della Rivoluzione d’Ottobre e sul disincanto democratico, in “Rivista di Politica”, n. 4, 2018).
È anche per questi motivi che il patrimonio culturale che ha viaggiato nel lungo Sessantotto meriterebbe di essere ripensato criticamente e riesplorato con occhi nuovi. Una buona parte di questo patrimonio, specie quella che ha spinto la generazione del Sessantotto agli slanci di un “idealismo attivo”, è poi tramontato tra la fine degli anni ‘70 e gli anni ‘80, sfociando in frustrazioni, senso di fallimento o cinismo, e in qualche lacerante inquietudine interiore tra i protagonisti dell’epoca. Una buona parte di quel patrimonio è poi tramontata, inoltre, nella (anche comprensibile) reazione collettiva agli anni plumbei e tragici che hanno attraversato il lungo Sessantotto italiano, quando pallottole terroristiche, oscure trame, bombe e paure hanno svuotato le piazze e ingessato la sfera pubblica, fino a segnare il trionfo del riflusso nel “privatismo” e del “pensiero unico”.
Per cercare di cogliere il perché di tutto questo, e anche il “dove siamo ora”, può essere utile riconsiderare il lungo Sessantotto e, con attenzione e animo libero, la sua “fase di mezzo”: quella tra la stagione dell’immaginazione al potere e la stagione degli anni di piombo, quella fase tra lo spartito della teoria critica della società e dell’immaginazione sociologica e lo spartito delle bande armate e dello stragismo. Quel sottile e misterioso filo tra l’una e l’altra è ancora, dolorosamente, da portare alla luce. Per riordinare le nostre idee e le nostre coscienze. Solo così, forse, riacciufferemo il bambino gettato insieme all’acqua sporca. Forse. Di questo dovremmo occuparci, e non solo nel cinquantesimo anniversario del Sessantotto. All’autunno del Sessantotto, alla stagione di mezzo tra la primavera-estate e l’inverno del Sessantotto, si sposa tragicamente bene, il verso finale di una canzone di John Lennon, anch’essa del 1970 e inserita nel suo primo album da solista dopo lo scioglimento dei Beatles: “The dream is over”. È l’ultima parola?
il 68 è finito il 12 dicembre 1969, l’innocenza e l’utopia sono state sfregiate e violentate il 28 maggio 1974 (piazza della Loggia), il 4 agosto 1974 (italicus), il 2 agosto 1980 e ad oggi non ci sono verità processuali credibili, poeti come Lennon e Pasolini ci hanno, in modo diverso, sensibilizzato
Corriere della Sera, 14 novembre 1974
Cos’è questo golpe? Io so
di Pier Paolo Pasolini
Io so.
Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato “golpe” (e che in realtà è una serie di “golpe” istituitasi a sistema di protezione del potere).
Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969.
Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974.
Io so i nomi del “vertice” che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di “golpe”, sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli “ignoti” autori materiali delle stragi più recenti.
Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974).
Ecc.
Al biennio rosso si è reagito con il fascismo, al 68 con le stragi, al 77 con il teorema Calogero svuotando tutta l’area del dissenso, oggi basta un iphone e questo identifica i tempi veramente difficili che stiamo vivendo.
Mauro