Uscito, in versione ridotta e con altro titolo, su “l’Adige” del 20 ottobre 2019 e “Alto Adige” del 21 ottobre 2019 – Pubblicato su questo sito il 18 ottobre 2019
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Le democrazie, ancora una volta nella loro storia, mostrano i segni dei loro limiti. Il tema della democrazia e delle sue promesse non mantenute, sollevato oltre 30 anni fa da Norberto Bobbio, andrebbe seriamente rispolverato, per mettere in ordine le idee e gli ideali sulla democrazia, sul destino all’incompiutezza intrinseca del sogno democratico, sul fatto che il funzionamento delle “democrazie reali” frustra le aspettative popolari, ma anche di parte dell’opinione di élite, sullo scollamento tra i proclami e i comportamenti effettivi delle istituzioni democratiche, del ceto politico e delle classi dirigenti (a livello nazionale, europeo, internazionale). Emblematica è l’incapacità a gestire le crisi contemporanee: quelle economico-sociali, finanziarie e di indebitamento degli Stati, quelle delle diseguaglianze intra-nazionali e inter-nazionali e dell’occupazione, quelle “migratorie” (con tanto di ripristino di blocchi e controlli alle frontiere), quelle dell’ecologia ambientale e dell’”ecologia umana” sulla quale ha insistito papa Ratzinger, quelle dei conflitti internazionali. Enorme, o più visibile che in passato, è il potere di forze globali come i centri finanziari internazionali, le corporations multinazionali e le “mafie” mondiali che governano i vari “mercati” (della finanza, delle idee, dei beni, delle persone), forze che restano difficili da identificare o controllare sul piano delle responsabilità pubbliche, quando non del tutto fuori dalla legge. Parlare di “democrazia” è oggi cosa sempre più difficile, mentre tutti ne usano la retorica per accreditarsi con un trofeo il cui brillio dorato lascia più d’uno perplesso.
Dobbiamo ripensare a fondo la democrazia. Quale stimolo può venire da Aldo Capitini (1899-1968), da un intellettuale dimenticato, da una visione ai nostri occhi piena di limiti ma carica delle sfide tipiche dell’”inattualità” di un pensiero?
I
Omnicrazia: il potere di tutti: è il titolo dell’ultimo saggio scritto da Capitini nel 1968, anno della sua morte, e pubblicato postumo nel 1969. Capitini è noto ai più come teorico e organizzatore della nonviolenza, come ideatore della “Marcia per la pace dei popoli e la fratellanza” di Assisi, la città di quel San Francesco a cui l’intellettuale perugino sembra ispirare i fondamenti della sua visione della politica come vita nella polis e nel Creato. Figura ricca, sfaccettata e singolare nel panorama italiano, nella sua biografia troviamo intrecciati ricerca filosofica, culturale e politica, attività di professore universitario (alla Normale di Pisa, a Cagliari) e di organizzatore di iniziative politiche e di centri sociali per la “democrazia dal basso” (come i Centri di Orientamento Sociale); militante antifascista, dirigente del CNLAI, “cattolico dissidente” prima dell’esplosione del “dissenso cattolico” nutrito di sessantottismo (nel 1956, ad esempio, il suo libro Religione aperta è messo all’indice); è amico, collaboratore o interlocutore di Guido Calogero, Ugo La Malfa, Luigi Russo, Walter Binni, crea e dirige numerose riviste di dibattito politico-culturale o di progettazione di esperienze socio-comunitarie; vicino alla sinistra social-comunista e azionista, da cattolico critico, non diventerà mai né intellettuale o politico socialista o comunista, democristiano o del Partito d’Azione. Lavorerà sempre in e per spazi del pensiero e dell’azione interstiziali, di frontiera, disallineato rispetto alle ortodossie e alle culture dominanti, sempre a favore della crescita delle idee nei territori e dal basso.
A suo modo, Capitini è stato un liberalsocialista. Tra il 1937 e il 1940 insieme al filosofo Calogero, maestro del futuro Capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi, lavora al Primo manifesto del liberalsocialismo: di fronte al fascismo si propone una saggia alleanza tra «il miglior liberalismo e il miglior socialismo», nella convinzione che libertà, eguaglianza e giustizia sociale sono valori solidali tra loro e non contrapposti. Progressivamente, però, Capitini si allontana dal liberalsocialismo corrente della sua epoca, a suo avviso troppo liberale e poco socialista. Prende le distanze da Calogero, secondo cui la democrazia si fonderebbe sul principio di «tenere conto degli altri». A Capitini non basta che degli altri “si tenga conto”. La sua visione della democrazia e del socialismo è più esigente e, se vogliamo, radicale: democrazia o è «il potere di tutti» o non è; il socialismo deve inverarsi nella democrazia se questa non è solo politica ma anche economica e se la libertà ha da essere anzitutto «liberazione spirituale». Con il linguaggio politologico di oggi diremmo, come fa Amatya Sen, che la democrazia non è solo “diritti” ed estensione del riconoscimento di diritti formalmente eguali per tutti ma anche equa distribuzione delle risorse (capacities, capacità) necessarie per poter accedere ai diritti e usufruire dei beni della cittadinanza democratica. A questa visione Capitini darà la sua messa a punto in Omnicrazia.
Nel suo ultimo lavoro, il “Gandhi italiano”, come qualcuno l’ha definito, echeggia e contribuisce a definire il clima culturale e i fermenti politico-ideologici della stagione del 68. Impliciti, o sottotraccia, nelle pagine di Omnicrazia intravediamo linee teoriche e filosofiche, e diagnosi della società industriale del tempo, condensate in quello che forse è stato il principale manifesto teorico-politico e sociologico del 68: One Dimensional Man di Herbert Marcuse. L’uomo a una dimensione era uscito negli Stati Uniti nel 1964 e tradotto in Italia nel 1967. Marcuse suggeriva una prospettiva per guardare oltre i traguardi raggiunti dalla democrazia liberale. Notava che «I diritti e le libertà furono fattori d’importanza vitale alle origini e nelle prime fasi della società industriale», ma nei successivi sviluppi organizzativi e culturali si rivelarono non più sufficienti o adeguati. Nella loro stagione d’oro, sottolinea Marcuse, «Le libertà di pensiero, di parola e di coscienza erano idee essenzialmente critiche, al pari della libera iniziativa che esse servivano a promuovere e proteggere»: erano conquiste tese a superare una cultura materiale e intellettuale obsolescente e a sostituirla con una nuova, più efficiente e razionale nel rispondere ai bisogni e alle domande di giustizia. Poi, una volta istituzionalizzati, i diritti e le libertà liberali «condivisero il fato della società di cui erano divenuti parte integrante», il destino, cioè, della società industriale e capitalistica, borghese e liberaldemocratica. Va così la storia. A questo punto, e arriviamo agli anni ’60, conclude Marcuse: «L’indipendenza del pensiero, l’autonomia e il diritto alla opposizione sono private della loro fondamentale funzione critica, in una società che pare sempre meglio capace di soddisfare i bisogni degli individui grazie al modo in cui è organizzata. Una simile società può richiedere a buon diritto che i suoi principi e le sue istituzioni siano accettati come sono, e ridurre l’opposizione al compito di discutere e promuovere condotte alternative entro lo status quo». Capitini, analogamente a Marcuse, ritiene che l’emancipazione umana e il progresso civile degradano se alla società del presente si danno come orizzonte di mutamento e alternative ridotti a variazioni dello status quo. La sua “filosofia della compresenza” di tutti gli esseri (umani e non), intesi come soggetti (e destinatari di beni) dotati di pari voce nelle scelte collettive, lo induce a definire la sua epoca come una «civiltà di passaggio» che rischia di restare paralizzata se non recupera una dimensione “religiosa”, non già confessionale ma spirituale. Per Capitini la civiltà dei consumi, del benessere materiale, delle proprietà private, poliziesca e securitaria offre molto ma, pure, toglie molto, e non a tutti allo stesso modo.
II
L’età dei diritti, le lotte per la giustizia sociale e l’eguaglianza, la progressiva inclusione di uomini e donne nel sistema di cittadinanza hanno fatto la loro parte. Secondo Capitini, però, la democrazia (liberale) non basta a dare soddisfazione alla vita e alla dignità umana: se un riformismo che contrasti i difetti della democrazia realizzata è doveroso, esso però non basta. Le società moderne, liberali e costituzionali ci hanno consegnato l’immagine e il “fine” della “democrazia dei diritti”, della divisione ed equilibrio dei poteri. Tuttavia, al termine della sua lunga riflessione e azione politica, Capitini rileva un dato essenziale, spesso trascurato dalla scienza e dalla cultura politica dei nostri giorni: la democrazia non è solo “diritti” e “diritto”, non è solo limitazione e divisione del potere a garanzia delle libertà degli individui, della società civile e dei suoi corpi intermedi, non è solo garantismo costituzionale. La democrazia, anche la nostra, è anche e soprattutto “potere”, ovvero capacità di farsi valere, laddove il potere è, in parte, delegato ad alcuni e alle istituzioni rappresentative, in parte, sfugge alle istituzioni del demos. Il nocciolo della democrazia secondo l’omnicrazia capitiniana sta, invece, nel fatto che il potere stia nelle mani di tutti i cittadini, perché “avere potere” significa disporre degli strumenti necessari per realizzare i fini di giustizia, libertà e bene comune, altrimenti si scivola inevitabilmente in una “democrazia dei sudditi”. Insomma, per usare la distinzione innestata nel pensiero politico contemporaneo da Isaiah Berlin, la democrazia rimanda tanto alla “libertà da” o “libertà negativa”, quanto alla “libertà di” o “libertà positiva”, ovvero, nel linguaggio di Eisenstadt, è sia democrazia costituzionale che democrazia partecipativa.
Per superare i suoi difetti, secondo Capitini, la democrazia deve cedere il passo all’omnicrazia, da costruire con le pratiche della nonviolenza attiva, che non significa pacifismo fine a se stesso. Egli indica alcuni pilastri come decisivi per il cammino verso il “potere di tutti”: 1) un parlamento vitale ma non centralistico né verticistico bensì articolato in assemblee disegnate secondo principi di orizzontalità e di sussidiarietà, con forti iniezioni di cultura e istituti di democrazia diretta; 2) un’opinione pubblica in grado di colmare la distanza tra chi esercita il potere e chi no, che diventa possibile solo se l’informazione e i mass media non siano sotto il controllo di potentati finanziari o dello Stato, poiché ciò tenderebbe a produrre informazioni e opinioni tendenziose o conformiste; 3) una centralità dell’educazione e della formazione culturale che renda capaci uomini e donne, giovani e anziani, di utilizzare con intelligenza le informazioni disponibili e forti di un senso critico verso i provvedimenti presi dai dirigenti, perché «l’educazione è qualcosa di più della comunicazione delle informazioni, mira a formare una capacità di giudizio».
Educazione all’autonomia e al pensiero critico, religiosità non confessionale e decostruzione del cattolicesimo, valori della nonviolenza e “cura del Creato”, democrazia diretta e dal basso, socialismo nella libertà: graditi o meno che siano, i temi di cui Capitini si è occupato sono i nostri. Eccetto uno: il “potere di tutti” secondo la radicale versione capitiniana. Sui vari temi, le tesi di Capitini presentano non pochi limiti e semplificazioni. Dell’omnicrazia, però, risalta forte proprio la sua “inattualità”. Quella di Capitini del resto, è una visione escatologica della politica, per quanto modulata secondo un incrementalismo “riformista-rivoluzionario” che la cala nella mondanità della vita quotidiana. Quella di Capitini, inoltre, è una concezione irenica della politica che non fa seriamente i conti con mondo intriso di antagonismo e politeismo dei valori. Né l’irenismo né l’antagonismo che arriva al conflitto “amico-nemico” sono estirpabili dalla vita collettiva: essi segnano la condizione tragica a cui conduce la duplicità umana, che vede gli uomini e le donne ora angeli ora demoni, ma alla fine solo “umani”, né angeli né demoni. Capitini è stato un visionario. Incontrò l’indifferenza o l’ostilità del Vaticano e del PCI, le due principali Chiese della cultura politica della sua epoca: la stessa indifferenza o ostilità che oggi pare riservargli l’odierna cultura dominante neoliberale. Ma nel tempo dell’afasia dell’Utopia forse avremmo bisogno (anche) di qualche visionario. Ma in tempi di afasia dell’Utopia forse c’è bisogno di qualche visionario. Dubito che la politica dell’ominicrazia possa essere accolta da noi contemporanei, anche solo come principio regolativo della vita collettiva. Ma dietro questo dubbio, non lo nascondo, c’è tutta la forza del discorso Grande Inquisitore di Dostoevskij. E un po’ di triste amarezza.
Tuttavia, ripensare la democrazia come “democrazia della sussidiarietà” potrebbe aiutare a maneggiare il rompicapo democratico: organizzare la democrazia dal basso e dal piccolo, e farla salire man mano lungo la scala delle istituzioni politiche e territoriali, favorendo una cultura e dispositivi capaci di nutrire forme originali di democrazia rappresentativa e un senso di “comunità nella modernità”. Prima ancora che di ingegneria costituzionale, istituzionale o elettorale, ripensare la democrazia dei nostri tempi richiede un paziente lavoro di rifacimento della nostra cultura politica, una riappropriazione del significato di democrazia e delle sue pratiche al di là di retoriche interessate o inerziali. Solo su queste basi è possibile cimentarsi con soluzioni istituzionali di democrazia sussidiaria capaci di realizzarne genuinamente i propositi. Si tratterebbe di mettere d’accordo Rousseau e Madison, con l’aiuto di Althusius, Locke e John Stuart Mill: comunità e federazione per la libertà, per l’eguaglianza e per la solidarietà (se non fraternità). Una politica anti-sistema nella democrazia? Obiettivo molto difficile da realizzare. Se poi non lo si riesce nemmeno a pensare…
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Il 5 ottobre su Aldo Capitini e sulla sua “Omnicrazia” si è tenuto a Bolzano un convegno organizzato dalla Fabbrica del Tempo e dal Centro per la Pace, a cui hanno partecipato Ivan Dughera (filosofo e antropologo di Bolzano), Gaspare Nevola (politologo, Università di Trento), Patrick Rina (giornalista, ORF di Bolzano), Werner Wintersteiner (politologo, Università di Klagenfurt).
Rendere curiosi è forse il dono più grande che può fare uno studioso, ed in particolare uno studioso di scienze politiche, pertanto porgo i miei più sentiti ringraziamenti per avermi introdotto al pensiero di Capitini, che confesso non conoscevo granché bene.
In particolare trovo affascinante il concetto di “omnicrazia”, anche se perlopiù è stato ignorato dalla discussione politica, ed è oggi difficilmente recuperabile come è stato giustamente sottolineato nell’articolo.
La “democrazia della sussidiarietà” va ricercata non solo come rinnovamento della forma democratica, ma anche dei suoi contenuti etici e ontologici.
«Ponendo come originario l’individuo in quanto indipendente dagli altri individui e quindi irresponsabile nei confronti del loro destino la società occidentale è costretta ad assumere come valore incondizionato la repressione della negazione che i vari soggetti operano reciprocamente», pertanto «La verità della democrazia è il suo essere la negazione di quel negativo che è la violenza», ma una tale negazione non è che una forma ancora più forte di violenza (anche se spesso invisibile). Questo problema è enunciato in “Differenza e negazione. Per una filosofia positiva” dal filosofo Luigi Vero Tarca, nel quale egli cerca pure di indicarne una soluzione. Anche la “filosofia della compresenza” di Capitini sembra possa offrire buoni spunti per affrontarlo, come pure la “con-vivialità” di Ivan Illich o altre teorie che aspettano solo di venire alla luce