(Uscito sul “Trentino”, 9 febbraio 2019 – Pubblicato su questo sito il 20 settembre 2019)
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Gettare un sasso nello stagno: era l’obiettivo del mio articolo “Sul gender non è tempesta in un bicchiere” apparso giorni fa sul “Trentino”. Questo giornale sta facendo la sua parte. Ma il confronto resta incerto sulla messa a fuoco del cuore del problema. Allora aggiungo qualche argomento.
Judith Butler è una filosofa americana impegnata su temi politici. Insegna al Dipartimento di Retorica e Letterature Comparate all’Università della California, a Berkeley. È esponente di una teoria critica della società; ha contributo a formulare e diffondere un “pensare politico” e una filosofia “femministi”, attingendo a significative correnti, ad esempio, del post-strutturalismo francese e della psicanalisi europea. Butler è studiosa nota e accreditata nel mondo universitario e nell’opinione colta, benché le sue tesi siano parecchio contestate: da destra e da sinistra, non solo da conservatori ma anche da progressisti, dal mondo cristiano ma anche da quello laico, non solo dalla cultura “maschilista” ma anche da quella “femminista”, come mostra il caso emblematico della filosofa Carla Muraro. Il punto più controverso del lavoro intellettuale di Butler, quello che le ha dato notorietà, riguarda la “gender theory”: una visione filosofica della differenza tra i sessi, con dirette implicazioni politiche e sociologiche. La teoria suggerisce un cambiamento dell’abituale modo di vedere il mondo, la società, la storia e le relazioni tra i sessi, identità e ruoli associati al sesso. Sostiene che la nostra società, la nostra morale e le leggi debbano, ad esempio, riconoscere posto e legittimità a famiglie formate da due mamme o da due papà, a bambini che crescono in presenza di uno solo dei due sessi, a coppie omosessuali, a relazioni affettive, amorose e sessuali “bisessuali”, a persone sessualmente ambigue o indeterminate e che formano famiglie. La tesi basilare è che “biologia non è destino”: dai caratteri e dall’identità biologica sessuali, cioè, non derivano necessariamente caratteri e identità personali o ruoli sociali che qualifichiamo come “femminili” e “maschili”. Come altri studiosi di filosofia e di scienze sociali, Butler cerca di smontare il legame tra sesso (biologico) e genere (culturale), fino a mettere in discussione la stessa binarietà biologica del sesso. Al “nascere” (maschio o femmina) si contrappone il “diventare” (maschio o femmina). Riprendendo Simone de Beauvoir, Butler conclude che donne e uomini non si nasce, ma si diventa. Ovvero: si può nascere uomo e poi diventare donna (o viceversa) oppure né l’una né l’altro e acquisire identità che oscillano tra il maschile e il femminile, o irriducibili a questa bipolarità di genere e di identità sessuale. D’altra parte, anche nel campo dell’ingegneria genetica, della biologia o della medicina, si sono sviluppati filoni di ricerca, come quelli del ICGEB (International Centre for Genetic Engineering and Biotechnology), che negano che il sesso abbia base binaria, fondamenti genetico-biologici che dividono da subito gli individui in maschi e femmine: insomma, la stessa identità sessuale sarebbe fluida.
Questa visione, almeno nelle versioni radicali, rigetta il fatto che le identità delle persone e l’ordine sociale siano definiti da un sistema binario e che quella maschio/femmina sia una polarità “naturale”, ossia un “dato di natura”, “la normalità delle cose”; rifiuta che ciò che si pone al di là della dualità maschio/femmina sia illegittimo, inaccettabile, devianza, anormalità o malattia. Butler è tra coloro che chiedono la messa in discussione e il superamento, sul piano culturale e della vita sociale, del sistema identitario sessuale binario, affinché le persone e le loro relazioni sociali, affettive, amorose e sessuali siano accolte per quello che sono, fuori dallo schema binario maschio/femmina. In un certo senso, Butler e chi la pensa come lei chiedono un mondo in cui le persone siano accolte, nel caso, con tutta la loro “ambiguità”, senza essere costrette a scegliere di essere o donne o uomini, a essere coppie eterosessuali, ad esempio per poter costituire una famiglia, per avere figli o per poterli adottare.
Qualche anno fa, in un’intervista al Nouvelle Observateur a Butler si domanda: «Lei ritiene che non esista una “natura maschile” e una “natura femminile”, che, insomma, non si possa dire “io, in quanto uomo” o “io, in quanto donna”?». La risposta: «Può anche darsi che esista una natura femminile e una maschile: ma non c’è evidenza naturale che ci dica quali esse siano». Ciò che la filosofa americana dice è che il sistema sessuale e identitario binario maschile/femminile trasforma quelle che sono delle costruzioni culturali e sociali in essenze naturali: il femminile, il maschile, l’omosessualità, la transessualità, l’intersessualità, e i modi in cui li vediamo, non sono il riflesso di identità “date in natura” ma identità “create dal diventare” e perciò non dipendono tanto da una rigidità fissata dalla sessualità biologica, bensì da resistenti modelli culturali plurisecolari.
Secondo la teoria del genere, insomma, le identità legate al modello dell’eterosessualità derivano da norme morali e da modelli di comportamento da queste prescritti, dalla loro pervasiva trasmissione quotidiana in ogni circostanza della vita, attraverso media, film, genitori, scuola. Sono tali norme e aspettative di comportamento, afferma la gender theory, a dettarci cosa e come fare per essere normali: per essere una donna o un uomo, una coppia o una famiglia. Guardiamoci negli occhi: nella vita incontriamo persone che detestano queste norme o che le patiscono con sofferenza; incontriamo persone che le vivono con malessere, ma che vi si adeguano, magari solo in apparenza; e incontriamo pure persone che con tali norme si identificano con fervore, che le incarnano con gioia o che ritengono immorale o malato chi non vi si conforma.
Ben venga l’educazione contro le violenze sulle donne o sulle pari opportunità. Ma il pomo della discordia non è questo: è proprio la “questione di genere”. La teoria o ideologia del genere esiste, è diffusa. I suoi argomenti sono sacrosanti, per alcuni; ma per altri inaccettabili e infondati. Negarne l’esistenza è ipocrita o furbesco, sciocco, se non vile: non aiuta la qualità di un dibattito pubblico di cui abbiamo bisogno come il pane e l’acqua: per capire come fare per convivere civilmente, con onestà intellettuale e serietà morale, quando ci imbattiamo in valori che, gli uni di fronte agli altri, riteniamo non-negoziabili. “Teoria del genere” non è solo una fantomatica invenzione del Vaticano: lo è pure quella proposta dal difficile lavoro intellettuale e scientifico di Butler. Essa ci pone sfide che accompagnano la vita quotidiana e il nostro universo di valori. Non comprendere e non discutere pubblicamente questo punto cruciale riguardante i corsi di educazione al genere e i suoi “curricula impliciti” nelle scuole, sia quando promossi (da una politica di centro-sinistra), sia quando sospesi (da una politica di centro-destra), rischia di diventare un’occasione perduta per la crescita di una cultura politica democratica matura, capace di affrontare apertamente le fratture sui valori che, a volte timide a volte bellicose, si annidano nei vissuti dei cittadini: dentro le fragilità e le incertezze della condizione umana.
A margine, mi si consenta di dire che, al di là delle etichette usate in ambito accademico o nel discorso pubblico, anche gli “studi di genere” implicano necessariamente un lavoro “teorico” sul genere, e quindi contribuiscono a elaborare “teorie del genere”: Butler docet, che si condivida o no la sua specifica teoria del genere. Credo che esperte ed esperti di “studi del genere” non possano eludere questo fatto. Altrimenti che genere di studi sarebbero?