(Uscito, con altro titolo, su “l’Adige”, 28 giugno 2019; “Alto Adige”, 29 giugno 2019 – Pubblicato su questo sito il 30 giugno 2019)
–
La cultura politica dei ceti dirigenti si concentra sulle sfide delle forze dette populiste, nazionaliste o sovraniste: le considera minacce per la democrazia (liberale), che viene a coincidere con l’Unione Europea e la politica che essa definisce e difende. Questa cultura alligna anche in ambienti meno elitari, nel “ceto medio riflessivo”, dotato di credenziali educative (laureati) e socializzato attraverso i circuiti comunicativi più accreditati (come la grande stampa). Il suo linguaggio per qualificare gli opposti schieramenti non convince: è troppo di parte e interessato, offre spiegazioni distorsive che aiutano poco a comprendere l’odierno rifacimento della democrazia. Penso si debba cambiare paradigma interpretativo e lessico. Perciò preferisco definire gli schieramenti in campo nel modo più neutro possibile: forze politiche a difesa del sistema costituito o di sue varianti (pro-sistema) in conflitto con forze politiche che lo contestano, che pretendono di superarlo e non di “aggiustarlo” (anti-sistema), dove per “sistema” è da intendersi un certo modo, quello neoliberale-dirigista, di concepire democrazia, economia, mercato, politiche, cultura, vita sociale, Unione Europea. Il mio schema semplifica la descrizione, come osserva l’ex senatore Pd Giorgio Tonini sull’Adige del 27 giugno, lo so: ma non per questo è sbagliato. Rimando ad altra occasione il confronto. Qui voglio precisare che con la politica anti-sistema siamo di fronte a soggetti politici la cui esistenza ridefinisce le posizioni in campo, le linee di divisione e il conflitto politico. Per questo è necessario un nuovo schema di analisi e interpretativo, una nuova grammatica della politica capace di cogliere i mutamenti storici dei nostri tempi, che le chiavi di lettura alla Tonini non riescono ad afferrare.
La politica contemporanea è in preda a movimenti profondi, più di quanto traspaia dalla narrazione egemonica. Persino gli equilibri nelle istituzioni Ue usciti dal voto europeo di maggio sono più delicati di quanto indicano i numeri del nuovo parlamento; la posta in gioco non è solo chi guiderà le istituzioni europee, né “Europa sì, Europa no”, che tanto appassiona i commenti post-elettorali.
La politica anti-sistema continua a crescere nelle preferenze dei cittadini, come conferma il voto europeo, soprattutto nelle tante e diverse “periferie”. Non ha ribaltato gli equilibri precedenti, ma ciò non era nell’ordine delle cose, al di là della propaganda dei fronti opposti; non ha colpito a morte l’Europa, ma non aveva simili propositi distruttivi, premeva (e continuerà a farlo) per “un’altra Europa”, diversa da quella di Maastricht e dintorni, per cambiare volto all’Ue, alle sue politiche, alla sua classe dirigente. Qui integro le considerazioni fatte sul’Adige il 23 maggio, con ulteriori tendenze e spunti di riflessione.
- Tolto il caso della famiglia Liberale, forte dei seggi portati da En Marche! al suo esordio nell’europarlamento, se considerata nell’insieme, l’area dei partiti che a vario titolo rappresentano la politica anti-sistema, di destra e di sinistra (Sinistra critica, Verdi, Rassemblement National di Le Pen, Lega, M5S, diversi partiti euroscettici e al momento anche Brexit Party di Farage) è l’unica a essere cresciuta (dal 29 al 38%). Nessun trionfo, è vero, per la politica anti-sistema, che è pure frammentata, divisa e include forze ideologicamente distanti tra loro. Tuttavia, non sfugga, si tratta di forze che danno impulso al rifacimento della politica che ha governato in Europa.
- Non sorprenda l’inclusione dei Verdi nella politica anti-sistema. Che facciano accordi o meno con la maggioranza europarlamentare pro-sistema (Popolari, Socialdemocratici, Liberali), essi sostengono proposte poco in linea con la politica pro-sistema e talora più in sintonia con quella anti-sistema, quali l’abbandono del carbone nel settore energetico entro il 2030, la promozione di un’economia dello sviluppo eco-sostenibile che impaccia la politica delle grandi opere, o l’introduzione di un salario minimo di cittadinanza europea.
- A sfatare il trionfalismo dell’europeismo convenzionale del dopo-voto e a smuovere l’apparente compattezza della maggioranza dell’Ue giocano anche altri fattori. Istanze di una politica anti-sistema sono cresciute pure nel fronte ufficiale dell’europeismo pro-sistema. È il caso, ad esempio, di FIDESZ, il partito di Orban trionfatore nelle urne ungheresi: fa parte dei Popolari europei ma, come noto, è inviso agli alfieri della politica europeista convenzionale e tradizionale (specie in tema di immigrazione e libera circolazione delle persone); oppure dei Socialisti spagnoli, cresciuti sensibilmente alle europee e fortemente contrari a quel fiscal compact pilastro della politica finanziaria europea difesa strenuamente dalle forze pro-sistema, Germania in testa, contestato da molte forze anti-sistema e oggi indigesto pure alla Francia di Macron. Insomma, anche il fronte dell’europeismo convenzionale è frammentato: divergenze degli interessi nazionali, frattura tra Europa dell’Ovest e dell’Est, competizione tra Francia e Germania, rendono l’europeismo tradizionale e l’Europa a guida franco-tedesca più debole di quanto dicano i numeri del Parlamento Ue.
- Il fronte della politica pro-sistema esce dal voto particolarmente indebolito nei grandi Paesi europei, quelli che han guidato la storia dell’Ue: i Popolari e i moderati in Germania, Francia, Italia, Spagna (e Gran Bretagna); i Socialisti Democratici in Germania, Francia, Italia (e Gran Bretagna). Il fronte anti-sistema o eurocritico si è invece imposto in Paesi di primo piano (Francia, Italia e Gran Bretagna), oltre che in Paesi pesanti dell’Est europeo (Ungheria e Polonia).
L’intricato quadro politico scaturito dalle elezioni europee porta elementi di incertezza nel rinnovo delle cariche importanti delle istituzioni europee (Presidente Commissione e suoi membri, Presidente del Parlamento, Presidente del Consiglio europeo, guida della BCE). Ma offre anche una finestra di opportunità per ridefinire il senso di marcia dell’Europa, per incorporare la protesta democratica dentro le istituzioni anziché lasciarla fuori. In ogni caso, già da ora questo quadro è un segno tangibile che l’integrazione europea è ormai un tema “politicizzato”, ossia che divide, sul quale le forze politiche e i cittadini che votano (ma pure quelli che a votare non vanno) nutrono idee, interessi e aspettative differenti sulla “democrazia europea”, sul modello di integrazione, sulle scelte economiche o in campo migratorio.
Se osserviamo le correnti profonde e non le increspature della superficie del mare, al di là di facili trionfalismi europeisti, anche il voto europeo mostra domande di un’altra Europa. L’Ue uscita dal voto quale risposta saprà dare? La palla è ancora tra i piedi delle élites politiche pro-sistema: si accontenteranno di aver vinto una battaglia nella “guerra santa” contro il “sovranismo” e cambieranno tutto affinché nulla cambi? Oppure capiranno che l’Ue è un mezzo che non funziona più, che danneggia i fini democratici dell’europeismo, che va radicalmente cambiata a favore di quei valori che tanti cittadini continuano a vedere in un’Europa “solidale” e della “sussidiarietà” e non nelle visionarie fughe in avanti degli “Stati Uniti d’Europa”? È possibile un’Unione Europea che non viva delle minacce del Finis Europae? Ci sono in giro delle élites responsabili che non si trincerano dietro il “Dopo di noi, il diluvio”?