Democrazia oggi? Riprendere il discorso sui mezzi e sui fini
I. Mezzi e fini
L’Unione Europea è un mezzo, non un fine. Così come sono mezzi il mercato o le istituzioni della democrazia. E poi ci sono i fini: le mete per cercare di raggiungere le quali una comunità politica predispone e maneggia i mezzi “del caso”: “del caso” nel senso che ritiene adatti e coerenti per muoversi verso i fini; “del caso” nel senso che talora l’individuazione e l’approntamento di tali mezzi procedono un po’ a tentoni, non guidati da una ferrea e univoca legge della storia, da leggi della meccanica umana e sociale, da alcuna provvidenza o “spirito assoluto”, da alcuna legge del progresso o della politica, bensì emergono dal “caos” degli eventi, dalla serendipity del cerca-trova-scopri-inventa, attraverso il mescolarsi di spinte e contro-spinte in una direzione o l’altra, in discesa o in salita, dove per alcuni il passo è lieve e col vento in poppa, per altri ostinatamente controvento. Questa varietà caotica degli eventi, di tendenze e contro-tendenze, direzioni e contro-direzioni costituisce il campo dove si svolge la lotta per la definizione e il modellamento dei mezzi per navigare verso i fini: è un campo-di-forze squisitamente politico. Qui intendo la politica come logica di azione, e non già solo come luogo di azione (come è solitamente vista dalla politologia contemporanea, dalla cultura politica dei nostri giorni, dai mass-media). Carl Schmitt parlerebbe di “criterio del politico”, secondo cui la politica è “conflitto amico-nemico” e implica l’annientamento del nemico (una visione parzialmente convergente con quella di Marx o Lenin e che fa capolino ogniqualvolta consideriamo la parte avversa come “il male assoluto” da sconfiggere senza se e senza ma, quando denunciamo “imperi del male”). Lascio qui da parte quale sia la mia posizione su questa concezione della politica, a suo modo non poco illuminante, e vado dritto a dire che dal mio punto di vista la politica segue una logica imperniata sul governo dell’ostilità tra gli uomini, come ho avuto modo di sostenere in molto miei lavori[1] e di spiegare ripetutamente agli studenti dei miei corsi universitari[2].
Detto dei mezzi, poi in politica, lo accennavo sopra, ci sono anche i fini. Do per scontato che ciascuno (individuo, gruppo, subcultura) può considerare come un fine quello che un altro ritiene un mezzo, e considerare come un mezzo quello che per altri è un fine; ovvero, ogni fine può diventare un “mezzo per un altro fine”. Qui si apre la complessa e controversa questione secondo cui ogni cosa, compreso un ideale, possa essere strumentalizzata, resa cioè strumento/mezzo utilizzato per perseguire un dato fine. Con un simile modo di vedere le cose, entriamo nel regno del relativismo: tutto è relativo. E va bene.
Do anche per scontata la questione weberiana del rapporto tra mezzi e fini, e correlativamente se siano/debbano essere i mezzi disponibili a indicare i fini perseguibili (la weberiana “etica della responsabilità”) oppure se un dato fine resti da perseguire indipendentemente dai mezzi e delle eventuali conseguenze che ciò comporti (la weberiana “etica della convinzione”). A mio avviso è superficiale stabilire in modo univoco e assoluto il primato o la preferibilità dell’uno o l’altro “tipo ideale” di etica in politica[3], tenendo conto che a forza essere responsabili (nel senso inteso comunemente) si rischia di restare senza convinzioni o di metterle sempre da parte: responsabilmente a causa di forza maggiore. E poi si tratterebbe anche di capire e stabilire i mezzi di chi per i fini di chi intendiamo considerare. Insomma, chi è il soggetto a cui li riferiamo? Il singolo? Un gruppo o l’altro? Un’intera comunità politica? Nemmeno questo è un tema semplice, ma è decisivo e non andrebbe rimosso. Con la consapevolezza che in politica anche i fini sono molteplici, “strumentalizzabili” e divisivi, qui mi riferisco ai fini inerenti a quella delimitazione particolare delle idee e delle esperienze politiche che va sotto il nome di democrazia. Dopotutto, in questo ambito è registrabile come sussistano alcuni punti consolidati e piuttosto condivisi su alcuni e principali fini che qualificano un regime o una comunità politica, appunto, come democratica (liberale-democratica): ovvero alcuni fini-valori che rendono idealmente (ovvero normativamente) preferibile la democrazia rispetto ad altri tipi di comunità o regime politico, e perciò massimamente meritevole di essere sostenuta e difesa. Tali fini sono i così detti “valori della democrazia”: una serie di valori da perseguire e da inseguire, di cui la parola democrazia si è fatta emblema catalizzatore, diventando il loro portavoce ufficiale e retorica pervasiva ormai in tutto il mondo (il linguaggio, in politica, conta tantissimo!). Non mi piace stilare cataloghi e classifiche, e oltretutto, anche per le ragioni sopra accennate, l’operazione è sempre scivolosa, ma penso che i alcuni valori siano condivisibili e dèstino la sensibilità più o meno di tutti i “variamente democratici”, almeno virtualmente, in linea di principio. Richiamiamoli alla mente: dignità, giustizia e libertà, eguaglianza, benessere e sicurezza, rispetto, autonomia e autogoverno degli uomini (e delle donne, beninteso). E ora facciamo qualche passo avanti sul nostro argomento.
II. Ma i popoli sognano? E se son desti?
Ogni epoca ha il compito di rifare la forma della democrazia e delle sue istituzioni, dell’economia e del mercato, del “con-vivere insieme con gli altri”, della comunità politica o dell’Europa: si tratta di mettere mano ai mezzi con cui si pensa di inseguire i fini idealmente custoditi nei sogni. Ma il punto che qui vorrei mettere sotto i riflettori è un altro. La domanda da cui ripartire è: ma i popoli sognano? In particolare, sognano i popoli della cittadinanza democratica oggi avvolta nelle braccia della koinè neoliberale? È sensato chiederselo senza essere apostrofati di precipitare in scadenti retoriche derise dalla realtà, e invece ricevere l’attenzione anche di coloro che hanno i piedi per terra e la testa sul collo? Queste sono le questioni sollevate dal “mio” realismo politico.
I popoli non sognano come fanno fisiologicamente i singoli individui. Ma possono sognare in altro senso? Può una società immaginare di forgiare istituzioni politiche, un’economia, un’Europa unita capaci di guardare alle promesse e agli ideali associati alla democrazia? Queste domande aleggiano impertinenti e ostinate nelle mie riflessioni, anche quando il riflettere appare erratico o aporetico. Queste ritengo che siano le domande di una scienza politica e di una filosofia sociale all’altezza della loro missione conoscitiva di “scienze del buon governo” troppo trascurata. Qui devono trovare un loro angolino le Utòpia o le Città del Sole[4], i sogni che ogni popolo ha cullato nel corso della storia, sogni dove si rifugia, spesso braccato, un desiderio insopprimibile di felicità (pubblica e privata), e che nella storia si manifesta tra alti e bassi: sogni che, pure mai realizzati, hanno contribuito in maniera non banale a indurre ad agire e a plasmare le idee e (talora) le pratiche umane della giustizia, dell’uguaglianza, della libertà, del rispetto e della dignità di ogni persona.
Incamminarsi su questo sentiero impervio, una vera e propria long and winding road senza ticket to rid [5], a mezzo delle parole e della politica dei nostri giorni, porta a un certo smarrimento. A osservare la scena come se ci trovasse davanti a un film, a leggere un romanzo o ascoltare una canzone, si direbbe di essere davanti a un cavaliere in cammino, caduto in un labirinto: frustrato, non cede però le armi e ritorna alla “ricerca della ragion democratica perduta”. Orfano dell’incanto democratico, questa silhouette donchisciottesca inesorabilmente s’imbatte nel “potere”. Compare il cinismo del potere, contro il quale i principi della democrazia ingaggiano una lotta inesauribile: capita anche che prenda corpo la disillusione, ancora una volta. Tra cinismo politico e principi democratici, è lotta in mare aperto, senza esclusione di colpi, senza una chiara direzione, e però la speranza di un approdo sicuro e felice resiste; è una lotta che sfianca uomini e donne, siano “Ottentotti o Parigini”, in una Babele di parole spesso svuotate di significato, prive di pudore verso quella libertà del pensare, del dire, del fare che si dice di voler difendere, quasi fosse un Forte Alamo. Nelle storie della storia, i “venti del potere” prendono vie che alla gente sfuggono e che alla fine la vista non acchiappa: è così che ci si piega al convincimento, o alla sensazione, che il succedersi delle cose sia dettato dal caso o dal destino, da entità trascendenti o quasi. Ma il potere che orienta il corso della storia, questa “forza superiore” è, almeno in una qualche ma non insignificante misura, in mani molto prosaiche e ruvide, del tutto terrene, che armeggiano con il denaro fatto ricchezza, con la finanza e con la comunicazione di massa che a ogni cosa e a ogni uomo danno un prezzo: sotto la sceneggiatura del discorso pubblico e dei media, alla fine tutto è in vendita, e chi può compra o con lunga mano condiziona. Niente spazio per un altro tipo di discorso pubblico? Può essere. Ma ciò non basta a fermare il mio dire, ché qualcosa da dire ancora c’è.
Sulla scena della politica c’è posto anche per la “rivoluzione”: le rivoluzioni che hanno travolto vecchi poteri e antichi regimi per generarne di nuovi e più sofisticati. Non è tutto oro nemmeno quello che luccica sotto il sole delle rivoluzioni, è indubbio. Ma andrebbe spezzata una lancia o anche solo una freccetta a favore dei movimenti rivoluzionari della storia, perlomeno da parte di coloro che, con una qualche ragione, portano in gloria il mondo moderno e contemporaneo, e però dimenticano come le nostre care democrazie della modernità siano figlie anche di conflitti rivoluzionari, e violenti.
Per venire più immediatamente a noi, sulla scena della politica c’è molto posto per la crisi economica, ormai da oltre un decennio stabilmente accomodata nelle società occidentali: una crisi che più che congiunturale pare strutturale, dove naufragano risposte politiche fatte di austerità e “conti in ordine”, dettate dall’Unione Europea e praticate dai governi nazionali. Quei governi che volenti (quando guidati da partiti tradizionali e pro-sistema) e talora nolenti (quando guidati da una politica che si vorrebbe anti-sistema ma che appare priva della forza necessaria per esserlo, come nella Grecia di Tsipras; come nell’Italia giallo-verde del patchwork pentastellato-leghista). E c’è pure posto per la crisi pandemica, che sotto il Regno del Covid ha irragionevolmente consacrato la deità della scienza: tutti in ginocchio davanti alla “libertà vigilata delle libertà”, ai diritti del cittadino tramutati in premio ottenuto secondo il “credere, obbedire e combattere contro chi non si mette in fila e non si china”[6]. Ed è ricomparsa pure la guerra, in senso proprio, quella con missili, bombe, carri armati e droni – anche in terra Europea, dove di fatto gli stessi Paesi dell’Unione europea partecipano, a volte comportandosi come tifosi o come scommettitori a una corsa di cavalli, per il “bene dei buoni che stanno con noi buoni”, s’intende, ma senza disturbarsi troppo con il cruccio di capire il perché del conflitto russo-ucraino, né tanto meno “mandando i nostri” al fronte, i soldati della democrazia.
E poi pensiamo, ancora, alle politiche dello sviluppo economico, della redistribuzione dei redditi, alle politiche del lavoro, della produzione non solo di beni privati ma anche di beni pubblici, alle politiche sociali (a partire da istruzione, sanità, pensioni, famiglia) o alle politiche di tutela degli spazi di autonomia dei territori in una democrazia della prossimità e a quelle dell’autonomia delle persone e delle loro relazioni pubbliche e private. Queste politiche si sono solamente inceppate rispetto a come erano state disegnare negli anni del patto social-liberale-cristiano, noto come “patto socialdemocratico” ispirato dal keynesismo? No, non credo. Con il trionfo delle politiche neo-liberali, esse sono tramontate, e da tempo sono in caduta libera: in modo conclamato e prepotente a partire dal 1989, che ha segnato non solo la fine dei regimi di socialismo reale, ma anche la fine di ogni alternativa all’interno delle liberaldemocrazie del secondo Novecento[7].
Infine, ma il catalogo è solo esemplificativo, tutti questi fenomeni di impoverimento della democrazia e dello sforzo di perseguire i suoi ideali si intrecciano anche con una sfida epocale veicolata dai movimenti migratori su scala europea e internazionale: i flussi migratori e le politiche di accoglienza procedono senza reali prospettive di integrazione degli immigrati, creano situazioni di precarietà e insicurezza nei centri di accoglienza e in vaste aree di città grandi e piccole, provocano disagi per i residenti storici, emarginazioni per i nuovi arrivati, tensioni e immiserimento civile per tutti, irrigidimenti e contrasti tra i governi nazionali in Europa. E tutto questo senza che si intravedano soluzioni praticate ed efficaci. Anche qui: un’ennesima sfida sociale, culturale e politica per i valori democratici, che raddoppia il malessere di società già spossate o frustrate da economie e valori della convivenza ammalati.
III. Gate Keepers
Su tutta la scena svettano i superpoteri del mondo finanziario-mediatico globalizzato: veri gate-keepers delle decisioni pubbliche e delle idee/opinioni dominanti, che navigano attraverso i mercati globali: sfuggono ai controlli delle politiche e del diritto statali e internazionali, e spesso anzi li dominano o li co-determinano, sfruttando abilmente e con spregiudicatezza i circuiti del lobbying, delle “porte girevoli”, dei think tank e dei saperi scientifico-accademici. Ciò al cospetto di ceti medi variamente galleggianti, protesi a difendere qual tanto o poco di benessere o semi-centralità di cui godono nella “società degli inclusi”. Ma anche al cospetto di milioni di persone, giovani ed ex giovani, senza lavoro e prospettive, o con “un lavoro che non basta”, prive di un reddito adeguato a una vita dignitosa o a un progetto di vita che non sia il “vivere alla giornata”; o anziani in solitudine e bimbi derubati del futuro, poco visibili e spesso privi delle risorse o delle energie necessarie per farsi sentire, per organizzarsi, per agire. I cittadini, comunemente, han sempre creduto che lo Stato o l’Unione Europea avrebbero provveduto a regolare mercati economici e la convivenza civile perseguendo fini politici di libertà e solidarietà, di dignità, benessere e sicurezza di ciascuno, di autogoverno democratico secondo costituzione. Ma la strada su cui marciano le nostre società non è più questa da tempo.
Stati occidentali ed Unione europea davvero sono altro da tecnoburo-mercato? O le volte anche le profezie ci prendono? Ai tempi della Rivoluzione sovietica il liberal-conservatore Weber osservava come, mentre si cercava di esportare la democrazia americana in Russia, per così dire, la Russia della razionalizzazione burocratica avesse già permeato il capitalismo occidentale: «È veramente ridicolo attribuire all’odierno capitalismo maturo, quale esso viene ora importato in Russia ed esiste in America, un’affinità con la democrazia e la libertà, qualunque senso si voglia dare a queste parole [… ] Ci dobbiamo… domandare se la democrazia e la libertà siano possibili a lungo termine sotto il dominio del capitalismo maturo. Esse saranno possibili solo dove esiste ed esisterà la decisa volontà di non farsi governare come un gregge di pecore… chi vuol essere la banderuola di questa tendenza evolutiva dovrà abbandonare… ideali passati di moda»[8]. Non sono parole di un sovversivo, rivoluzionario, illiberale, anti-capitalista, comunista e “padre del totalitarismo” Marx, mortificato ma banalizzato dai popperiani; ma quelle di un Weber, un liberale, pluralista, democratico (e conservatore) e pro-capitalista Weber, nelle grazie del popperismo un po’ di maniera oggi tanto di tendenza.
IV. Politica pro-sistema e politica anti-sistema
Come ho in più occasioni sostenuto, la scena politica contemporanea è caratterizzata da un profondo processo di rifacimento della politica[9]. Un rifacimento che è anche culturale e i cui protagonisti sono, nel bene e nel male, da una parte i soggetti (non solo “politici” secondo senso comune) della politica pro-sistema e dall’altra quelli della politica anti-sistema. Se vogliamo comprendere le “democrazie di oggi” dobbiamo riconoscere che alla base di questo rifacimento c’è una riaggiornata (ma niente affatto inedita) frattura tra politica pro-sistema e politica anti-sistema. La distinzione e contrapposizione tra destra e sinistra, emersa ai tempi della Rivoluzione francese, poggia su tale frattura. E lì è la partita. Lì la lotta. Lì va rivolta l’attenzione di cittadini, politici e analisti, se si vuole che fratture e lotte restino democratiche. I problemi agitati dalla politica anti-sistema sono oggi vitali. Possono offuscarsi ed essere spinti dietro le quinte della “politica che conta”. Ma ben lungi dal dissolversi per magia, neppure quando la politica anti-sistema, denigrata solitamente come populista o sovranista, vede i suoi interpreti partitici perdere il più delle volte le partite che la coinvolgono e abbandonare i propositi ispiratori, cedendo o compromettendosi con quella pro-sistema[10].
Forse più che in passato, oggi appare sotto la luce del sole una lotta per il potere e per l’egemonia culturale tra politica pro-sistema e politica anti-sistema. Chi vincerà? Chi perderà? C’è spazio per un compromesso che non sia cedimento camuffato? Dipende. Dipende dai rapporti di forza tra chi sta da una parte e chi dall’altra, dalle risorse sociali, culturali e organizzative di ciascuno. Così funziona la politica. Ma ogni epoca ha il compito di democratizzare la politica, di costruire e ricostruire la sua democrazia.
Molti, nel tempo, hanno giustamente dipinto la democrazia come creatura preziosa ma delicatissima, strumentalizzabile e problematica: tanto che può persino cadere vittima sotto i colpi di chi la elogia e parla in suo nome. Parole, queste mie, anch’esse strumentalizzabili, e stirabili a destra o a manca. E sia. Ma restano parole su cui sempre meditare. La storia illustra che ogni epoca inventa e persegue la propria democrazia. Ma la qualità di una democrazia dipende dai sogni e dai fini collettivi che la ispirano e che mobilitano. Vive e cade con essi.
NOTE
[1] A partire da Conflitto e coercizione, il Mulino, Bologna, 1994.
[2] In particolare nei corsi di Scienza politica all’Università di Trento.
[3] Vedi M. Weber, La politica come professione, in Id, Il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino, 1980. Si tratta del testo di una conferenza tenuta da Max Weber all’Università di Monaco nel 1918.
[4] Alludo alle due celebri “operette morali” uscite, rispettivamente, dalla penna di Tommaso Moro e di Tommaso Campanella.
[5] Ringrazio i Beatles per avermi suggerito questa immagine.
[6] Sul tema virus-pandemia-vaccini mi sono soffermato in diversi articoli presenti in “Tempi difficili”.
[7] Vedi G. Nevola, Socialismo e democrazia? Mito della Rivoluzione d’Ottobre e disincanto democratico, in “Rivista di Politica”, 4, 2018.
[8] M. Weber, Sulla Russia, il Mulino, Bologna, 1981, pp. 70-72 (ed.or. 1906).
[9] In proposito rimando a numerosi articoli presenti su “Tempi difficili”. Per un’analisi più articolata e sistematica: G. Nevola, Il “fatto democratico”. Democrazie, crisi, trasformazione, in A. Millefiorini (a cura di), Democrazie in movimento, Milano, Mimesis, 2022; da una differente angolatura e dedivato al caso italiano: G. Nevola, Luci e ombre di una democrazia antifascista, Roma, Carocci, 2022.
[10] L’ultimo esempio di questa tendenza insita nella politica anti-sistema è in Italia l’attuale governo guidato dalla “sovranista” Meloni al fianco del “populista” Salvini e del “già populista” Berlusconi.
(Pubblicato su questo sito il 31 gennaio 2023)