Tradizione e rivoluzione, dall’oscurità della storia. Una lettura sotto l’ombrellone

  1. Una comunità che arriva dall’oscurità della storia

Kalasha (o Kalash) è una comunità che arriva dall’oscurità della storia umana. Da secoli vive sulle pendici dell’Hindikush, ai confini tra Pakistan e Afghanistan. Vive nelle valli che le sue genti, secondo immemore tradizione, chiamano “Il Tetto del Mondo”. Sotto il profilo politico-amministrativo, la comunità fa parte del multietnico Pakistan a dominanza musulmana, di cui costituisce la comunità più piccola (circa 5 mila persone) e una minoranza religiosa che continua a seguire un culto “pagano”, politeista. I suoi abitanti sono geneticamente ritenuti euro-asiatici, e forse con geni europei; hanno in prevalenza una carnagione rosea, capelli biondi e occhi chiari, non di rado azzurri; si ritengono discendenti dei soldati di Alessandro Magno, che ebbe a governare quelle terre con le sue milizie. Nel corso del tempo la comunità ha abbandonato i territori più bassi, sempre più islamizzati, e si è ritirata in tre remote valli di alta montagna, nel distretto di Chitral. Questo, tuttavia, non le ha permesso di restare al riparo dagli aspri conflitti armati che hanno via via pervaso l’Afghanistan e lo stesso Pakistan, dato che l’area – proprio perché impervia – è diventata luogo di guerriglia e di manovre militari di portata strategica in un confine caldo della conflittualità internazionale

Con ogni probabilità, gli attuali Kalasha rappresentano l’ultima discendenza di una popolazione antichissima ora in via di estinzione. La loro è un’economia di sussistenza, basata sulla coltivazione del grano e della vite e sull’allevamento di ovini e bovini. Alcuni villaggi sono modernizzati, hanno case fornite di energia elettrica; altri permangono in una condizione più arcaica. I visitatori occidentali sono rimasti sempre affascinati da questa comunità, quasi trapiantata nel mondo moderno-contemporaneo direttamente dal paleolitico (sottolineo “quasi”). E questo capita sia quando l’hanno dipinta trucemente (come nel caso dell’inglese George Scott Robertson, in qualità di colonnello in servizio e capo di spedizione in tali lande, nonché osservatore a cui si devono diversi influenti libri di fine XIX secolo), sia quando ne hanno offerto un ritratto idilliaco (come nel caso di turisti-viaggiatori della nostra epoca), sia quando hanno fatto della comunità un “oggetto di studio” (come nel caso di antropologi, etnografi e archeologi).

 

  1. L’egualitarismo e l’economia Kalasha

La comunità Kalasha rappresenta un esempio di società tradizionale, riconducibile alla categoria della “società fredda”, secondo un noto concetto caro all’antropologia di Claude Lèvi-Strauss. La comunità ha destato molto interesse anche tra gli antropologi della politica e dell’economia, che nel corso del XX secolo ne hanno analizzato l’organizzazione sociale, politica ed economica riallacciandola al suo contesto culturale e religioso. Da questo punto di vista, uno degli aspetti più rilevanti è l’egualitarismo che struttura la vita collettiva Kalasha. Un egualitarismo che, all’interno della comunità, si manifesta anzitutto nelle norme e nelle pratiche di distribuzione della ricchezza e di circolazione dei beni economici e sociali (incluso il bene “prestigio”). Alcuni antropologi hanno definito quella Kalasha una civiltà “orizzontale”, imperniata sul “modello fraterno” di organizzazione sociale e politica: una civiltà contrapposta a quelle “verticali”, imperniate su un “modello paterno”, come è il caso della nostra modernità occidentale. Alla civiltà che ha espresso i Kalasha alcuni riconducono persino l’“invenzione della democrazia”, contrastando così la standard history of democracy, la quale vede la democrazia originata in Occidente, nella Grecia antica e nella polis ateniese del VI secolo a. C. – come apprende ogni bambino del nostro pezzo di mondo fin dalla scuola elementare. Insomma: Kalasha non già come sito di “barbarismo”, ma come sito di civiltà o, meglio, di “contro-civiltà”. Una civiltà, beninteso, priva di scrittura; una civiltà perdente e che non ci ha lasciato tracce della sua auto-rappresentazione e della narrazione di sé stessa. A buon diritto la possiamo considerare una civiltà “misteriosa”.

Al riparo dall’ombrellone, scrutando l’orizzonte oltre il mare… beh, forse fare i conti con questo mistero può aiutare a mettere meglio a fuoco la civiltà moderna, quella nostra, e con ciò l’“eccezionalismo” occidentale ed europeo, la sua forza di irradiazione verso genti e continenti, volta a volta, approcciati come barbari, selvaggi e arretrati, i quali, loro sì, con il nostro “eccezionalismo” hanno dovuto fare i conti, secolo dopo secolo, fino ad oggi (peraltro, sia detto per inciso, senza solitamente avere la possibilità di scegliere se farci i conti oppure no, e senza avere nemmeno un ombrellone).

L’economia Kalasha è tutt’ora imperniata sull’agricoltura e la pastorizia. Ma a partire dagli anni ’70 dello scorso secolo si è in parte trasformata a causa della penetrazione della moneta e del mercato, degli interventi statali pakistani e di varie organizzazioni internazionali (governative e non), e persino per l’effetto di un qualche flusso turistico. Così, la minaccia della fame, la miseria e il dispregio che accompagnavano i Kalasha si sono allontanati dalla loro vita. La comunità è oggi mediamente più istruita e gode di un qualche benessere. Tuttavia, il suo attaccamento alla tradizione rimane molto forte, e continua a riprodurre non pochi caratteri della società e dell’economia dominanti prima della modernizzazione degli anni ’70, quando non esistevano grandi possedimenti terrieri o di greggi, quando tutte le famiglie erano proprietarie di almeno un campo e quasi tutte possedevano quella ventina di capre necessarie ad assicurare un livello di sussistenza dignitoso. Ancora negli anni ’70, nota Alberto Cacopardo (che da decenni dedica ai Kalasha ricerche sul campo), «lo stile di vita delle persone più in vista non si distingueva in nulla da quello di tutti gli altri, né quanto a qualità dell’alimentazione, né quanto ad altri aspetti del consumo». La compravendita di beni e derrate alimentari non era praticata: lo scambio di tipo mercantile era estraneo ai rapporti all’interno della comunità, e i beni circolavano tra i suoi membri quasi del tutto in base a principi di reciprocità. L’economia di reciprocità è ancora prevalente tra i Kalasha di oggi.

 

  1. Lo “scambio primitivo”: la reciprocità redistributiva

Per inquadrare come funziona tale economia della reciprocità è utile rifarsi a uno schema formulato da Marshall Sahlins nella sua “sociologia dello scambio primitivo”. Sahlins distingue varie forme di reciprocità, classificandole e ordinandole lungo un continuum che vede a un’estremità la “reciprocità negativa” (tentare di ottenere qualcosa in cambio di nulla), e all’altra estremità la “reciprocità positiva” o “generalizzata” (dare qualcosa senza ricevere o pretendere nulla in cambio, l’esempio tipico è quello della generosità della madre nei confronti del figlio bambino); tra questi due estremi si colloca la “reciprocità bilanciata” (dare qualcosa aspettandosi, prima o poi, una contropartita di valore sostanzialmente equivalente).

Ebbene, tra i Kalasha i trasferimenti di beni a titolo gratuito, del tipo “reciprocità bilanciata” e “reciprocità positiva”, erano la norma, non l’eccezione, in particolare riguardo ai beni alimentari, essenziali per la sussistenza nelle condizioni date di vita della comunità. Inoltre, la comunità destinava gran parte dei prodotti della pastorizia al “consumo cerimoniale”, ossia era condivisa e consumata collettivamente in occasioni di rituali e celebrazioni festive. Detto per inciso, questo tipo di destinazione e di consumo dei prodotti della pastorizia faceva in modo (e a quanto pare continua, in parte, a farlo) che per gli individui una dieta ricca di proteine non dipendesse dalla ricchezza personale o famigliare in termini di bestiame, bensì dalle occasioni cerimoniali alle quali essi prendevano parte. Queste norme della vita comunitaria Kalasha hanno per effetto una mancata corrispondenza tra la distribuzione del patrimonio e la distribuzione del consumo, ovvero un certo disallineamento tra la “quantità” del patrimonio posseduto e la “qualità” dei consumi alimentari di cui un individuo può godere.

 

  1. Tra “evergetismo”, prestigio sociale e sistema di rango

Questa pratica della redistribuzione “rituale” (e le norme che la sorreggono), sia detto incidentalmente, trova eco o corrispondenza in quella dell’evergetismo nell’antica Grecia e nell’antica Roma, in un contesto molto lontano da svariati punti di vista: ossia nel cuore delle origini della civiltà occidentale, dove l’evergetismo si associa alla prassi politica (anch’essa a suo modo normata) del “pane e circo” e della ricerca di prestigio e di consenso pubblico da parte degli uomini in corsa per guadagnare magistrature e cariche istituzionali (come mostra l’analisi esemplare dello storico antichista Paul Veyne). Sebbene la pratica redistributiva Kalasha e quella dell’evergetismo si iscrivano in logiche collettive e politiche non sovrapponibili tra loro, resta il fatto che anche al re-distributore Kalasha ne veniva qualcosa in cambio: il riconoscimento da parte della comunità di un prestigio sociale. I meccanismi redistributivi erano, infatti, codificati (senza essere fissati in scrittura) in un sistema di rango.

I titoli di rango erano quelli di “uomo glorioso” e di “grande uomo”, che si conseguivano tramite l’elargizione di grandi feste pubbliche che prevedevano il sacrificio di un gran numero di capi di bestiame e una distribuzione su larga scala di pane, latticini e carne. Esisteva anche il titolo di “uomo eroico”, che era tributato a chi uccideva un nemico appartenente ad altra etnia e che prevedeva anch’esso l’elargizione di una grande festa. La celebrazione di un matrimonio o quella di un funerale erano dei “riti di passaggio” attraverso i quali coloro che disponevano di mezzi potevano acquisire ulteriore prestigio. Il conseguimento di tali titoli si accompagnava all’attribuzione di emblemi che manifestavano pubblicamente il rango sociale acquisito da alcuni membri della comunità. Ma in una società votata all’orizzontalità e alla reciprocità, come era quella Kalasha, il prestigio e il rango pubblico acquisiti da taluni, e manifestato tramite un sistema codificato e il conferimento di emblemi, tendeva a produrre nella comunità una frattura di carattere essenzialmente sociale e “simbolico” (e non tanto economico), e oltretutto urtava la sensibilità comune. Come insegnano gli antropologi (e un tempo anche altri scienziati sociali), i differenziali di prestigio associati a un sistema di rango possono infatti causare risentimenti, tensioni collettive e conflitti non meno delle diseguaglianze economiche e di ricchezza.

 

  1. Tradizione e rivoluzione

Ma, a questo punto, ciò che soprattutto colpisce l’osservatore è il fatto che una ventina di anni fa in tutte e tre le vali di insediamento dei Kalasha viene deciso di eliminare la fonte della discriminazione simbolica e delle tensioni sociali che essa innescava: in particolare, viene abolita la trasmissione ai discendenti degli emblemi di rango. Così, oggi le pratiche sociali del dono redistributivo ritualizzato comportano l’acquisizione di onore, ma non quella di rango. Ed eliminano l’ereditarietà degli emblemi.

A riprova di questa volontà Kalasha di rompere con le pratiche della tradizione pur di difendere i principi di un’organizzazione sociale che vuole restare orizzontale e “fraterna”, in un villaggio è stata introdotta un’ulteriore innovazione, non poco significativa. Come illustra Cacopardo, «Secondo la tradizione, la fornitura del cibo per i pasti comuni dei funerali è a carico della famiglia del defunto che solo in casi particolari può contare sull’aiuto del lignaggio, o almeno del suo segmento più prossimo». La conseguenza è che molte famiglie si vedono costrette a vendere i loro campi per poter sostenere i costi del funerale. Così, all’inizio degli anni ’80 dello scorso secolo l’assemblea di Krakal ha deliberato di modificare le norme consuetudinarie, «stabilendo che da allora in poi tutto il villaggio avrebbe contribuito alle spese di tutti i funerali». Per entrare un po’ nel dettaglio, «Sono state stabilite delle quote di contribuzione in cereali, in linea di massima uguali, che possono tuttavia variare in funzione della ricchezza della famiglia. A questo si aggiungono le quote per la carne e i latticini, che oggi vengono pagate in denaro dalle famiglie che non hanno più capre», famiglie che, in alternativa, possono farsi carico delle spese per i paramenti funebri, i quali in virtù dell’eliminazione del sistema di rango sono oggi diventati per tutti uguali e allineati a quelli dell’”uomo glorioso” di un tempo.

Cacopardo, opportunamente, rileva la singolarità e l’emblematicità del fenomeno scaturito dalle rivoluzionarie decisioni dei Kalasha sopra richiamate: «mentre in passato l’omogeneità economica era garantita attraverso la disomogeneità sociale indotta dai differenziali di rango, proprio nel momento in cui la penetrazione della moneta e del mercato creavano le condizioni per l’accumulo di ricchezza finanziaria, la potenziale disomogeneità economica che ne deriva viene compensata dalla cancellazione della disomogeneità sociale che il sistema di rango generava. La cultura non è acqua: minacciato dalle trasformazioni della modernità, il modello fraterno si rivale trasformandosi per preservare se stesso».

Il senso che guida la convivenza collettiva e le soluzioni adottate dalla comunità Kalasha di fronte a ciò che essa giudica come una inaccettabilità morale (ma pure funzionale) delle diseguaglianze sociali, economiche e civili, tale senso, può essere ritradotto nel linguaggio della teoria delle classi e della cittadinanza moderna, recuperando, ad esempio, alcune considerazioni del sociologo inglese Thomas Humprey Marshall. In una sua celebre conferenza del 1949, nel contesto storico del nascente “patto socialdemocratico” tra le forze politiche di ispirazione liberale, cristiana e socialista: «la diseguaglianza del sistema delle classi può essere accettabile nella misura in cui viene riconosciuta l’uguaglianza di cittadinanza». Qui emerge che il criterio per definire una vita civile per i membri di una comunità politica democratica è dato dalle condizioni di vita adatte a condurre una vita da gentleman. La comune rivendicazione a godere di queste condizioni, ci fa notare Marshall, «esprime un desiderio[1] di essere ammessi a partecipare al retaggio sociale». Questo, a sua volta, significa che ciascuno sia e si senta accettato come “membro a pieno diritto della società”, e cioè come cittadino non solo sulla carta. Insomma, l’uguaglianza di status non è meno importante dell’eguaglianza economica o di reddito, sempre che le diseguaglianze economiche non risultino indecenti. La comunità Kalasha forse incarna vividamente proprio tale desiderio.

 

  1. La lettura sta per terminare. Via l’ombrellone, il sole sta per tramontare. Di sfuggita ancora uno sguardo al mare, mentre lui vorrebbe continuare

Una società è civile, ed è degna di fregiarsi del titolo di civiltà, solo a condizione di essere decente. Ossia quando i suoi membri si rispettano, si riconoscono dignità e non si umiliano gli uni con gli altri; e quando le sue istituzioni non umiliano le persone e non le escludono dal consorzio umano, ora in modi più sottili ora più spicci; detto in altri termini, una società può essere considerata civile a condizione che non generi quelle “vite da scarto”, di cui il catalogo offerto da Zygmunt Bauman mostra solo la punta dell’iceberg di quella miseria umana che è l’altra faccia della grande civiltà approdata al Terzo Millennio, come la nostra. Forse i Kalasha avevano capito tutto questo già nel passato della loro civiltà arcaica, nella loro “società fredda”. E forse se ne ricordano nel presente. La comunità Kalasha rappresenta una civiltà perdente, almeno ai nostri occhi. Altra, come ben sappiamo, è la civiltà che ha vinto. Ma la domanda è: ha vinto, ma ha perso la misura?

Si badi: non si tratta di discettare sulla “caduta originaria”, di resuscitare il “mito del buon selvaggio” o di passeggiare con Rousseau. Il punto è che non è in gioco alcuna caduta originaria: non si tratta di recitare il copione del laudator temporis acti. Semmai, una volta mangiata la mela della conoscenza e del giudizio, e una volta cacciato dal Paradiso, all’uomo è rimasto l’assillo di costruire un paradiso in terra. E questo posso anche capirlo. Ma farebbe bene, quest’uomo, a sforzarsi (un po’ stoicamente?), con coraggio nel cuore e con serenità nell’animo, per cercare di afferrare il significato dell’eterno Sisifo che accompagna la sua vicenda.

Ha scritto Mario Brelich: «Che cosa mancava all’uomo, per diventare Dio, un’entità, una potenza non inferiore a lui? Nient’altro che l’immortalità, la quale sembra si trovasse lì, a un palmo di distanza dall’onniscienza…».

Ma l’uomo è l’uomo. Arriva persino al dubbio inquietante intorno all’onniscienza divina. Può smettere di dubitare su sé stesso e sulla sua civiltà, anche la più grandiosa?

NOTE
  1. Corsivo mio.
Letture per approfondimenti

Z. Bauman, Vite di scarto, Laterza, 2005.

M. Brelich, Il navigatore del diluvio, Adelphi, 1979.

A. Cacopardo, Chi ha inventato la democrazia?, Meltemi, 2019.

C. Lasch, Il paradiso in terra, Feltrinelli, 1992.

T.H. Marshall, Cittadinanza e classe sociale, Utet, 1976.

M. Sahlins, L’economia dell’età della pietra, Bompiani, 1980.

M. Sahlins, Un grosso sbaglio. L’idea occidentale di natura umana, Eléuthera, 2010.

P. Veyne, Il pane e il circo. Sociologia storica e pluralismo politico, il Mulino, 1984.


(Pubblicato su questo sito il 12 luglio 2022; uscito su Sinistrainrete il 20 luglio 2022)

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