Intervista su una democrazia antifascista. Cosa ha dato e cosa ha tolto alla nostra Repubblica?
Intervista rilasciata a Letture.org su Luci e ombre di una democrazia antifascista (Carocci editore, 2022)
1) Prof. Gaspare Nevola, Lei è autore del libro Luci e ombre di una democrazia antifascista. Viaggio nella Repubblica edito da Carocci. L’antifascismo rappresenta un “canone” politico-identitario della nostra Repubblica: come ha resistito tale canone di fronte ai cambiamenti e alle fratture sociali, politiche e culturali che ne hanno segnato la storia?
Il libro è una sorta di viaggio attraverso le diverse stagioni politiche e culturali della Repubblica, ruota attorno al tema dell’identità politica della Repubblica e al canone della memoria pubblica che vi si intreccia: l’identità politica e il canone della memoria sono quelli di una democrazia antifascista. Le feste civili della Repubblica (25 aprile, 2 giugno, 4 novembre), la loro nascita, il loro persistere e il loro mutare di accenti nei decenni esprimono le luci e le ombre della nostra democrazia antifascista. Questi rituali civici, pur con i loro conflitti, polemiche o appannamenti dei sentimenti collettivi, sono riusciti a riproporre il canone politico-identitario dell’antifascismo. Tuttavia, come evidenzio nel libro, tale canone pervaso da “fratture”: come un vaso di porcellana che si presenta intero e però si mostra corroso dalle crepe. Le fratture hanno indebolito il canone dell’antifascismo, tuttavia non hanno mai portato alla sua distruzione o archiviazione. L’epos e l’ethos della Resistenza e della Liberazione hanno fin dall’inizio offerto un’incarnazione plastica dei valori di libertà e di giustizia che ispirano il canone politico-identitario della nostra democrazia antifascista. Il canone antifascista è sigillato nella stessa Costituzione, trova costante espressione nei discorsi celebrativi delle alte cariche dello Stato, di uomini politici e intellettuali; si riverbera nella società anche attraverso la scuola, i nomi delle strade e delle piazze, i musei e i monumenti e, last but not least, attraverso i messi di comunicazione di massa. Il canone antifascista della democrazia repubblicana non esaurisce però la ricchezza, la varietà e la disarmonia della memoria collettiva, dei vissuti e dei motivi contrastanti che hanno ispirato e tramandato i ricordi soggettivi delle persone e delle famiglie, dei gruppi, delle comunità territoriali e dei “luoghi della memoria”. Il canone, piuttosto, delinea i contorni identitari di un “patto” sulla memoria antifascista ovvero, a seconda della stagione politica, i contorni dell’“egemonia” di una o l’altra narrazione dell’antifascismo elaborata dalle culture politiche repubblicane (a partire da quella cattolico-democristiana e quella socialista-comunista o marxista, forze uscite vittoriose dalla lotta contro il fascismo): tutto ciò, ovviamente, a detrimento della memoria degli sconfitti e dei loro eredi politico-culturali. Il canone antifascista, infine, è stato continuamente esposto a mutamenti di accenti che, anche quando apparentemente piccoli e non distruttivi del canone, nondimeno lo hanno volta a volta riplasmato. Questo “destino” del canone antifascista altro non è che un riflesso dei cambiamenti sociali e culturali, politici e delle sensibilità che definiscono e ridefiniscono i “quadri di riferimento” identitari, simbolici e valoriali di una società secondo “criteri” di rilevanza” dettati dal presente e che governano quella che chiamo “l’accoglienza del passato nel presente”.
2) Che cosa significa “patriottismo della Costituzione” e perché “la Costituzione più bella del mondo” ne ha privato la Repubblica?
La domanda solleva un tema complesso e cruciale, e richiede una risposta articolata. La dottrina del patriottismo costituzionale non è del tutto nuova o novecentesca. Si è storicamente formata nell’alveo della tradizione politica e istituzionale del repubblicanesimo, secondo varianti più “liberali” o più “comunitarie”. È da questa tradizione, e dalla sua singolare miscela di ingredienti illuministici e romantici, che ha trovato consolidamento moderno, in Europa come negli Stati Uniti, un modo di “pensare e praticare” la nazione centrato su elementi volitivi, civici e politici anziché su quelli esclusivamente ascrittivi o etno-culturali. Nella tradizione repubblicana, la patria si accorda ai valori democratici di libertà e solidarietà civica, ai diritti di cittadinanza e al pluralismo. Nell’ottica del patriottismo costituzionale, la Costituzione è la comune patria dei soggetti e del pluralismo di una democrazia, ovvero la carta di identità collettiva di una “società aperta” chiamata a ospitare la “convivenza tra diversi” e le “alternative di governo”. Nel Secondo dopoguerra, travolte nel sangue e nel totalitarismo dei nazionalismi europei della prima metà del Novecento, patria e nazione erano diventate parole indigeste, inservibili per la ricostruzione di una vita democratica e civile all’insegna di libertà, pace e solidarietà: un po’ in tutta Europa, ma in Italia con una dirompenza che trova eguale solo nella Germania postnazista. Il senso di patria e di appartenenza nazionale, di cui si avverte bisogno collettivo per un “nuovo inizio”, viene allora ricercato o surrogato, a seconda dei casi, attraverso i principi e i valori affermati nelle costituzioni democratiche. Si tratta di un nuovo orientamento politico-culturale e di una nuova sfida, rilanciati in particolare in Germania dal filosofo Sternberger e poi ripresi con maggiore fortuna da Habermas. Possiamo riassumere il senso di questa visione e di questa sfida con una formula icastica: la patria è la Costituzione. Qui sta la base elementare della teoria (o dottrina) del patriottismo costituzionale. Il mutamento di prospettiva non è di poco momento: riguarda come concepire e come porsi all’interno di un regime liberaldemocratico di fronte alla questione dell’identità nazionale senza cadere nel nazionalismo classico; si tratta, cioè, di riconsiderare quale significato e quale valore attribuire ai fondamenti politico-culturali e ai sentimenti sociali dell’appartenenza collettiva nazionale ovvero al senso di patria. Questa questione si pone drammaticamente in quei Paesi europei la cui identità nazionale è uscita sfigurata e condannata dalla prima metà del Novecento, e l’Italia è tra questi Paesi. Tra le molte conseguenze di questo mutamento di prospettiva c’è, più o memo sotto traccia, niente meno che una presa di distanza dall’aureo dogma politico-culturale postbellico che recita: “la Costituzione al posto della patria”. A questo dogma ideologico in Italia si erano immediatamente aggrappate le culture principali dell’antifascismo: contro le intemperie in cui era, alla fine, affondato il nazionalismo agito anzitutto (ma non solo) dai regimi fascista e nazista, contro le tragedie continentali e le guerre del Novecento. Ma durante lo stesso Secondo dopoguerra, in Europa prende forma l’idea di un’alternativa a quel dogma dominante che respinge ogni anelito verso la nazione o la patria: si tratta di un’idea che ripensa in termini positivi il legame (intimo) tra patria (nazione) e democrazia e che (per così dire) intende sostituire la formula “la Costituzione al posto della patria” con la formula “la patria dentro la Costituzione”. Il patriottismo costituzionale diventa così un’attraente ipotesi di lavoro anche per i costruttori della democrazia italiana.
Il concetto di patriottismo costituzionale che utilizzo converge ma non coincide con quello habermasiano (come ho teorizzato in un libro precedente: Democrazia, Costituzione, Identità). Nella dottrina del patriottismo costituzionale ad avere massimo risalto è il principio del riconoscimento reciproco dell’identità e della legittimità politica delle parti in competizione democratica. Quella del patriottismo costituzionale è una “sacra volta” che definisce e protegge al meglio il profilo politico-identitario di una democrazia in sintonia con le aspettative e i valori di quella “società aperta” issata a bandiera del “mondo libero” dell’Occidente postbellico. La formula politico-identitaria del patriottismo costituzionale, la “sacra volta” che esso delinea per il pluralismo democratico, si basa su una concezione che vede nella democrazia un “campo di forze” politico dove ciascuno dei soggetti del pluralismo è incluso come soggetto legittimo del metodo democratico, e pertanto è legittimato: (1) a far valere la propria visione della patria repubblicana; (2) a farla valere tramite la propria azione politica, le proprie policies e idee; (3) a dare impulso e indirizzo alla sua visione della “casa comune democratica” sia quando è maggioranza vincitrice, sia quando è minoranza perdente e all’opposizione; (4) tutto ciò fino a quando il soggetto politico è formalmente o di fatto ammesso al gioco democratico e, tipicamente, alle elezioni, che costituiscono cardine imprescindibile del “metodo democratico” e parametro essenziale della “definizione minima di democrazia”.
Dal mio punto di vista, il patriottismo costituzionale punta a definire una “democrazia aperta”, ossia una “casa comune” per una pluralità di forze ideologiche, politiche e sociali che si riconoscono in una “sacra volta” antifascista, dove a ciascun soggetto del pluralismo sono riconosciute la legittimità e la possibilità di declinarne i contenuti dell’antifascismo secondo la propria “interpretazione”. Perciò il patriottismo costituzionale viene meno (e con esso le possibilità per una “democrazia aperta”) negli scenari politici e ideologici in cui l’“avversario democratico” è percepito e trattato da “nemico”, latente o camuffato, al quale è bene non permettere piena cittadinanza democratica. In casi del genere, a prendere forma è quella che chiamo una “democrazia chiusa”: uno scenario dal sapore schmittiano di “politica amico-nemico”, dove però in gioco non è tanto l’annientamento fisico del nemico, bensì la sua distruzione virtuale, la distruzione della sua identità politica. In queste situazioni, è tutta la teoria politica della democrazia moderna e costituzionale che va in cortocircuito.
Nella fase di “stato nascente” della Repubblica s’intravedono tracce di un tessuto politico-identitario riconducibile al patriottismo costituzionale, consono a qualificare la democrazia come “spazio di legittimazione reciproca” tra forze politiche tra loro antagoniste e alternative in competizione per il governo della res pubblica. La tessitura di un patriottismo costituzionale “in bozza” s’intravede nella cultura politica e in alcune scelte chiamate a fare i conti con la “nuova politica” inaugurata dai totalitarismi ed ereditata dall’Europa post-totalitaria (ma anche post-oligarchica): la “politica di massa nel pluralismo” impegna, infatti, la progettualità democratica delle élite. Per gestire con successo questa giuntura critica epocale, e consolidare il passaggio al regime democratico, nell’Italia repubblicana le forze politiche sono forti del capitale politico-identitario dell’antifascismo: si tratterebbe di gestirlo e ritradurlo nell’ottica di un “patriottismo costituzionale”. In effetti, i partiti (specie quelli di massa) non mancano di tessere nella società i fili di un patriottismo della Costituzione: lavorano sul territorio e sulla socializzazione democratica di massa; il loro impegno nella società civile in formazione è intenso. Ogni partito guarda, certo, alla propria base e coltiva il proprio bacino elettorale, ma non trascura l’insieme della cittadinanza, che, data la varietà dei neocittadini da “educare alla democrazia”, costituisce un potenziale elettorale a cui nessun partito intende rinunciare senza giocare la partita. Ciascuno a suo modo e ciascuno con i propri canali organizzativi e la propria “corona” associativa e municipale, i partiti agiscono sia come agenzie di socializzazione “partigiana” (ossia partitica) alla democrazia, sia come agenzie di integrazione nazionale (democratica).
L’abbozzo di patriottismo costituzionale affiorato durante la fase di “stato nascente”, pur con i suoi limiti, di fatto contribuisce a definire la coesione nazionale repubblicana. In questa fase di status nascente la nuova democrazia repubblicana cammina, infatti, sotto il segno del patriottismo costituzionale: sovranità, libertà e indipendenza politiche; memoria storica forte di un canone e di simboli identitari condivisi; riconoscimento reciproco tra le parti e riconoscimento della pari legittimità democratica dei partiti; arco costituzionale come sistema di inclusione dei partiti nel campo democratico della “patria costituzionale”; Costituzione che ricompone le fratture politico-identitarie della società del tempo; governi di unità nazionale. Ma la storia ci dice anche altro. Nel volgere di pochi mesi la prospettiva del patriottismo costituzionale viene messa all’angolo: la vicenda politico-identitaria della democrazia antifascista prende un’altra piega. La guerra, la lotta di liberazione e la “guerra civile” sono alle spalle: sulla scena irrompe la Guerra fredda. La sua logica e le sue dinamiche internazionali si combinano con quelle domestiche, soprattutto nei Paesi che via via, più o meno “liberamente”, si erano in precedenza collocati sull’asse fascio-nazista guidato da Germania e Italia e uscito sconfitto dal conflitto mondiale. In Italia, la Guerra fredda influenza profondamente la politica della neonata democrazia, i rapporti tra i partiti e la competizione elettorale; a tratti innesca una “guerra fredda interna”, una “guerra civile fredda”. Le ricadute di questo riorientamento della politica internazionale postbellica hanno immediate conseguenze sulla politica interna italiana (come del resto in quella di tutti i paesi europei). Gli Stati Uniti promettono (e danno) aiuti economici “in cambio” di un governo senza il Partito comunista. Ai canali della pressione politico-diplomatica ed economica, gli Stati Uniti abbinano quelli socio-culturali, e in primis della comunicazione di massa: cinema, radio, musica, letteratura, biblioteche, centri di informazione (come le Usis) sono tra i principali strumenti di una massiccia campagna di propaganda sociale e politico-culturale a favore del “mondo libero” occidentale. La coesione del fronte politico antifascista subisce forti scosse. La minaccia all’unità antifascista ora non viene principalmente da settori neofascisti persistenti o latenti nella società, bensì dall’anticomunismo che rapidamente cresce e si afferma all’interno delle forze dell’antifascismo moderato, e significativamente nell’universo democristiano. Nonostante le sinistre, con Togliatti e il Pci in testa, continuino strenuamente a difendere la formula dell’unità democratica antifascista nata con il Cln, nel clima “politicamente esigente” della Guerra fredda che divide l’Europa tra Stati Uniti e Unione Sovietica, la strada della neonata Repubblica pare segnata. E De Gasperi se ne fa subito principale e freddo interprete con l’estromissione dal governo del Pci e del Psi: l’esperienza dei governi di unità nazionale giunge al capolinea. L’attenzione, le speranze e i timori di tutti, e delle forze politiche per prime, si concentrano sulle elezioni politiche nazionali del 1948. La posta in gioco è il futuro della giovane democrazia: riguarda la collocazione internazionale dell’Italia, i rapporti di forza tra i partiti e le stesse dinamiche all’interno del campo politico antifascista; sarà un passaggio cruciale per la qualità del consolidamento della Repubblica e per il suo profilo politico-identitario anche per il futuro.
Da tutto questo discende che, con la delegittimazione della piena identità democratica dell’avversario, alla Repubblica italiana e alla sua democrazia antifascista viene a mancare l’orizzonte del patriottismo costituzionale. Nel clima e con le scelte che ruotano intorno al 18 aprile (le elezioni del 1948), certo per iniziativa della Dc e dei suoi alleati moderati, ma con un “dietro le quinte” che vede coinvolte anche le sinistre, cambia la prospettiva democratica. A risentirne sono (e saranno) la qualità e la salienza democratica del regime antifascista.
Una seconda occasione per la costruzione di una democrazia antifascista all’insegna del patriottismo costituzionale cade negli anni del “lungo Sessantotto” italiano, con riferimento ai governi di “solidarietà nazionale”. È alle scelte politiche in qualche misura sensibili allo spirito patriottico-costituzionale democratico che, bene o male, si deve il fatto che l’Italia riesca a respingere l’attacco del terrorismo al cuore dello Stato, quando la democrazia italiana appare sull’orlo del precipizio e travagliata da una di crisi sistemica. La politica di “solidarietà nazionale” è il suo salvagente. Tuttavia, l’esperienza dei governi di “solidarietà nazionale” non diventa volano per la maturità della democrazia antifascista e si rivela una sorta di missione mancata per la cultura del patriottismo costituzionale. La principale spiegazione di questo fallimento rimanda a un deficit di cultura politica democratica. La politica della comprensione e della legittimazione reciproca tra il Pci di Berlinguer e la Dc di Moro risulterà, al massimo, una favola (o un incubo, a seconda del punto divista) che non s’incontrerà con la realtà, e che affonda con la morte di Moro e l’isolamento politico di Berlinguer e il suo Pci.
Cogliere l’appuntamento storico con il patriottismo costituzionale nell’immediato Secondo dopoguerra e/o tra gli anni ’70 e ’80 avrebbe consentito alla Repubblica e al patto costituzionale di rafforzarsi e rigenerarsi, dando massimo risalto al principio democratico del riconoscimento reciproco dell’identità e della legittimità politiche dei soggetti del pluralismo. Ma così non fu.
3) Che ruolo svolgono, in tale liturgia, le feste civiche del 25 aprile, del 2 giugno e del 4 novembre?
La liturgia dei riti civili e della memoria pubblica, in occasione delle feste del 25 aprile, del 2 giugno e del 4 novembre, svolge diverse funzioni politiche e sociali: 1) quella di istituire e riaffermare i legami collettivi tra i membri di una comunità politica nel presente; 2) quella di istituire, riaffermare e aggiornare nel presente i legami dei cittadini con la storia e con il passato della loro comunità politica, dando risalto a quei valori identitari che suscitano sentimenti di appartenenza nazionale e buone ragioni per voler continuare a sentirsi parte della comunità repubblicana; 3) quella di rievocare ritualmente momenti simbolico-identitari delle esperienze fondative della Repubblica, attraverso una “ripetizione” ma allo stesso tempo anche una “attualizzazione” nel presente del significato delle esperienze nazionali e dei valori e ideali che hanno alimentato tali esperienze. In sintesi, le feste civili, come è tipico dei riti pubblici, sono strumenti simbolico-culturali, politici e sociali attraverso i quali si perseguono e trovano espressione, per un verso, l’unione e la condivisione della comunità politica, ovvero il consenso nei confronti dell’immagine con cui la comunità viene identificata e narrata; per l’altro verso, la divisione e il dissenso verso una data identificazione o rappresentazione della comunità stessa. Insomma, specie in una democrazia, i riti di identificazione e di memoria pubblica uniscono e, allo stesso tempo, dividono su aspetti ritenuti cruciali per la “convivenza tra diversi”.
Per questo motivo, le feste di una nazione costituiscono un osservatorio privilegiato per l’analisi politica dei processi di integrazione e di conflitto sociale e politico. Una democrazia racconta sé stessa, e plasma i suoi caratteri identitari, anche con la celebrazione di feste ufficiali e ritualizzate. È importante sottolineare che queste narrazioni rituali identitarie hanno uno stretto rapporto con il clima politico-culturale che percorre una società nelle sue differenti congiunture storiche e nel cumularsi e ricambio delle generazioni. La liturgia delle feste civiche esprime un legame del passato con il presente, la memoria pubblica ritualizzata porta in scena i valori, le norme di comportamento e gli assunti identitari di un Paese, ma anche i problemi della sua identità politica, che in queste occasioni da impliciti possono diventare espliciti, essere messi a tema e criticabili. L’importanza dei riti pubblici e della cultura politica di una democrazia discendono dal fatto che la la politica è (anche) produzione, circolazione e controllo di cultura (politica), ed è (anche) conflitto per la produzione, la circolazione e il controllo di credenze e linguaggi, di idee, simboli e riti, di miti e memorie, ovvero, ancora, la politica è (anche) lotta in vista di un patto o di un’egemonia politico-culturale sui valori. Attraverso i rituali e i luoghi della memoria, i discorsi pubblici o ufficiali, nelle occasioni di feste o commemorazioni nazionali civili si attivano i dispositivi simbolici dell’identificazione collettiva, del potere o del contropotere che inscenano il “presente del passato”, raccordandosi a monumenti e bandiere, a inni e danze, a colori e canzoni.
I riti pubblici, non v’è dubbio, sono intimamente legati a processi di manipolazione, si piegano a retoriche strumentali, si prestano a finalità di “copertura ideologica”, a seconda dei casi nascondono o alimentano conformismo ritualistico o strumentalizzazione. Per questo essi sono spesso oggetto di critica, considerati con sospetto o degradati a “oppio dei popoli”. In effetti, nei riti tende a consumarsi un vero e proprio “tradimento della sincerità” o dell’autenticità che essi promettono e di cui si ammantano. Al di là di ogni giudizio di valore, questa faccia dei riti pubblici non è tuttavia una “perversione” sociale indotta dalla dimensione rituale, rimanda piuttosto a fenomeni che fanno parte della fisiologia della vita sociale e politica. Del resto, nemmeno il canone della memoria è “autenticità” o “verità”: il canone è, a un tempo, strumento ed effetto della costruzione e della strutturazione della memoria; perciò è anche manipolazione, intesa nel senso etimologico originario e, per così dire tecnico, di “mettere mano”, “dare forma” (a qualcosa), “lavorare” (su qualcosa). Il canone della memoria pubblica è, cioè, un dispositivo che si inserisce nei complessi processi sociali, culturali e politici che lavorano alla “messa in ordine” di sistemi simbolici, semantici e mitici tipici (ma non esclusivi) della sfera politica. Questo lavoro culturale è guidato da “criteri di rilevanza” i quali, a loro volta, dipendono da visioni del mondo, da interessi, passioni, credenze, giudizi e pregiudizi che fanno capo ai soggetti coinvolti (individuali, collettivi o istituzionali) e ai loro rapporti di forza. Applicare lo schema binario “vero/falso” a questi fenomeni, come pretendono di fare molti approcci scientifici, è fuorviante o ingenuo. In sede di analisi scientifica, ciò che penso sia rilevante non è dis-velare o certificare l’autenticità o meno di una memoria pubblica, del suo canone ufficiale o l’ancoraggio dei riti pubblici a una “storia” (vera) o a un “mito” (falso). obiettivo primario della conoscenza scientifica è cercare di comprendere la logica o la ratio (politico-culturale) del “significato” che un fenomeno osservato ha per coloro che vi sono coinvolti; è sulla base di questo assunto epistemologico che le scienze sociali cercano di mettere a fuoco i processi umani, culturali e politici di percezione e di “significazione” che sono all’opera nella vita collettiva. Sono questa logica e questi processi che, di fatto, definiscono la nostra “realtà”: per lo studioso, perderli di vista può comportare il non capire o restare disorientato di fronte al fenomeno preso in esame.
La memoria pubblica e il suo “canone ufficiale” non sono qualcosa di statico, fissato una volta per tutte e monolitico. Hanno bensì un carattere dinamico, pluralistico e spesso conflittuale, dove differenti e talora divergenti soggetti, con le loro (sub)culture politiche e le loro rispettive memorie, interagiscono sul “significato presente dei passati”. Le dispute sulla memoria sono fenomeni non banali. Per mezzo del passato entrano in gioco, sia a livello di cultura di élite che di cultura vernacolare, questioni fondamentali del presente, che concernono la stessa natura, struttura e legittimità del potere istituzionale, e quindi la lealtà nei suoi confronti. La memoria pubblica, perciò stesso, diventa una risorsa per la critica del presente.
Venendo più in specifico alle feste civiche della democrazia antifascista italiana, esse sono “canonizzate” dal calendario repubblicano definito tra il 1946 (decreto legge del governo De Gasperi) e il 1949 (legge 27 maggio, n. 260). La ricorrenza del 25 aprile fissa il giorno del tributo politico-simbolico alla Liberazione: è la festa che celebra la liquidazione del fascismo e la liberazione dall’occupazione nazista. Con il suo rango di festa nazionale, essa canonizza nella memoria pubblica (ufficiale) l’epos della lotta del popolo italiano contro l’oppressione e l’occupazione nazi-fasciste (Resistenza come guerra di liberazione), canonizza l’insurrezione popolare e partigiana a “mito di fondazione” della Repubblica, e legittima la Resistenza e i suoi protagonisti come artefici del nuovo regime (democratico). La consacrazione politico-simbolica del 25 aprile è decisiva, in particolare, per i comunisti, che guadagnano la legittimità democratica di “combattenti per la libertà”. Ciò contribuisce a identificare il Pci come garante anch’esso della Repubblica democratica, nonostante la sua appartenenza ideologica al comunismo e il suo legame geopolitico internazionale con il regime sovietico: due collocazioni di certo non in linea con il “mondo libero” capitalistico e con il patrimonio ideologico-valoriale liberaldemocratico, e che si faranno presto e a lungo sentire.
La data simbolica del 2 giugno assurge formalmente a festa nazionale, l’unica del calendario. Questo suo primato festivo trova motivazione nel fatto che la ricorrenza celebrata intende fissare nella memoria pubblica quel passaggio politico e istituzionale (la scelta referendaria del 1946) grazie alla quale, per espressione della volontà popolare, la Repubblica viene fondata come sistema istituzionale e valoriale, in chiave espressamente antimonarchica, ma anche esplicitamente antifascista (come sancito dalla Costituzione nel 1948). Pur non essendo ufficialmente una “festa della Costituzione”, nelle pratiche simbolico-rituali, nella retorica pubblica e nel canone della memoria pubblica, il 2 giugno tende ad assumere anche questa valenza celebrativa, finendo per assolvere una funzione, per così dire, di supplenza di una vera e propria “festa di identificazione costituzionale”. Non a caso, è a questa ricorrenza che, in particolare, si guarda (nel passato come ai nostri giorni) quando ci si riferisce al “patriottismo costituzionale” come formula dell’identità democratica della Repubblica italiana; e non a caso, inoltre, è il presidente della Repubblica, custode della Costituzione e garante dell’unità nazionale, che assurge a protagonista-principe delle commemorazioni e delle pratiche simbolico-rituali.
La ricorrenza simbolica del 4 novembre, infine, è legata alla memoria della fine della Grande Guerra. Rappresenta l’unica festa presente nei calendari civico-nazionali di tutti i regimi politici che si sono susseguiti nella storia dell’Italia unita, pur se diversamente declinata e denominata (anniversario della Vittoria, festa delle forze armate, giorno dell’Unità nazionale). La sua canonizzazione nella memoria repubblicana trova motivo politico-identitario nel senso di continuità storica e istituzionale dello Stato-nazione italiano. Forse anche per questo e, soprattutto, per la sua lunga tradizione celebrativa, essa ha offerto il modello rituale al quale hanno fatto riferimento le altre cerimonie festive nazionali.
Ma già nel corso degli anni ’50, il 25 aprile diventa quasi una sorta di “festa separata”, tanto sul piano della memoria politico-ideologica, quanto nelle pratiche rituali sul territorio, nella memoria dei vissuti soggettivi di donne, uomini, bambini che crescono, di famiglie che hanno attraversato esperienze contrastanti tra loro nell’Italia di quegli anni che il 25 aprile vorrebbe o dovrebbe condensare in una comune memoria collettiva, politica e nazionale. Nel corso degli anni la festa del 2 giugno manterrà invece i tratti di una celebrazione nel complesso non contestata o a bassa intensità di contestazione. La ricorrenza manifesta, cioè, una natura “pacificata” o “neutralizzante”, che la rende molto diversa dal 25 aprile. D’altra parte, nel corso degli anni il 2 giugno è accolto anche da non poco disinteresse pubblico e istituzionale – almeno fino agli anni di Ciampi al Quirinale, che si impegnerà a valorizzare la festa. Anche il ricordo del 4 novembre, pur risultando meno problematico, riflette le crepe del canone della memoria pubblica, che in questo caso rinviano a fratture politico-culturali in merito al significato della guerra e al valore della vittoria militare, all’uso della forza e alla pace nelle relazioni internazionali e nei rapporti tra gli Stati europei.
4) Perché la democrazia antifascista non aggiorna il suo patto costituzionale dopo il tramonto della “prima Repubblica” e delle forze politiche dell’arco costituzionale che lo avevano siglato?
Due sono le condizioni principali necessarie per arrivare a un patto costituzionale o per aggiornarlo: per un verso, che esista un’identificazione tra sistema partitico e Costituzione; per l’altro, che esista un riconoscimento reciproco della legittimità democratica dell’avversario politico. All’epoca del tramonto della “prima Repubblica” e delle forze e culture politiche dell’arco costituzionale storico, tali condizioni non sono date. È vero che all’epoca i soggetti del pluralismo democratico della “nuova” Repubblica post 1989 dichiarano di identificarsi con la Costituzione, operano in modo formalmente conforme a essa e professano persino il reciproco riconoscimento di legittimità democratica. Tuttavia, al di là delle dichiarazioni ufficiali, su questo piano pesano negativamente alcuni dati di fatto che meritano attenzione. In primo luogo, diversi partiti della “seconda Repubblica” che hanno acquisito rilevante peso politico, e assunto anche responsabilità di governo, sono: (1) in alcuni casi, eredi di forze politiche che non hanno a suo tempo sottoscritto la Costituzione, ovvero che erano escluse dal vecchio arco costituzionale che diede vita al “patto politico” repubblicano della democrazia antifascista (si pensi ai discendenti dell’Msi); (2) in altri casi, formazioni politiche del tutto “nuove” e/o estranee alle tradizioni politiche che hanno prodotto la Costituzione (si pensi a Lega Nord, Forza Italia, ma per gli anni successivi lo stesso si può dire del M5s). In secondo luogo, le forze politiche emerse o affermatesi con la “seconda Repubblica” tendono ad esprimere istanze e cleavages che non sempre trovano adeguato riconoscimento nella Costituzione. È perciò problematico considerare tali partiti, sic et simpliciter, come “contraenti” della Costituzione in vigore e del patto politico-identitario a questa soggiacente. Non a caso, sono questi partiti che, a partire soprattutto dal 1994, premono (ciascuno a suo modo) con maggiore insistenza per un cambiamento della Costituzione o invocano una nuova Assemblea costituente. In terzo luogo, al di là delle posizioni ufficiali, i partiti, nuovi e vecchi, di centro-sinistra o di centrodestra, non perdono occasione per squalificare la legittimità democratica degli avversari: si accusano vicendevolmente di rappresentare dei disvalori politici; le frequenti “crociate” di reciproca delegittimazione democratica non risparmiano praticamente alcuna parte politica. Nella cronaca e nel confronto politico trovano grande eco le retoriche dell’“emergenza democratica”, della “democrazia a rischio” o in pericolo, della minaccia fascista o comunista, del fascismo o del comunismo “striscianti” e da fermare, del “tradimento della patria”, con tanto di addebiti storici ed etico-politici, di vecchia o più recente data.
Al di là dei loro risvolti più strumentali e propagandistici, spesso dettati da polemiche politiche contingenti, l’aspetto più importante di queste “crociate” è che esse trovano risonanza ed elaborazione anche presso l’opinione pubblica colta, tra intellettuali e accademici, e alla fine fanno presa sul senso comune collettivo, da una parte e dall’altra degli schieramenti politici. Senza dubbio, negli anni della “seconda Repubblica” il linguaggio politico e le forme della comunicazione pubblica subiscono quell’imbarbarimento e quell’impoverimento che segneranno l’inizio di una tendenza che avrà molta fortuna. Ma oltre a questo, il fenomeno segna altre dinamiche e tensioni politico-culturali non meno profonde, che evidenziano il diffondersi di una sorta di guerra civile mentale: una guerra culturale, tra culture politiche. A esserne permeata è un po’ tutta la società, dove la discussione politica e il dibattito ideologico democratico tendono a sfigurarsi in pratiche di delegittimazione politica e morale reciproca, tanto surriscaldate da indicare una democrazia malata. Ancora una volta nella storia italiana (come già negli anni del “centrismo” democristiano e in quelli del Sessantotto), il confronto tra parti impegnate nella lotta all’interno del campo politico ha luogo in un perimetro che restringe fortemente lo spazio della legittimità democratica, del confronto aperto tra avversari di un gioco democratico comune e condiviso. E tutto ciò avviene nonostante il fatto che i contendenti siano legalmente inclusi nelle procedure e nel “metodo” democratico. Così, a contrapporsi non sono avversari accomunati da un patriottismo costituzionale: piuttosto, ciascuno cerca, almeno sul piano della “politica visibile”, l’annientamento politico-identitario del nemico. In questo quadro, come suggerisce la mia lettura sistemica e non “partigiana” della democrazia, a rischiare di “perdere la sua faccia” e di essere sconfitta è la “democrazia aperta”, mentre la democrazia antifascista rivela il suo volto di “democrazia chiusa”. Tutto questo ha conseguenze nocive per la qualità di una democrazia, benché possa essere gradito ai “partigiani” dell’una o dell’altra parte del campo politico della lotta democratica, e soprattutto ai “partigiani” (peraltro cangianti nel tempo) dell’antifascismo, sia quando sono maggioranza parlamentare, sia quando sono minoranza all’opposizione. In altre parole, la condivisione del “metodo” democratico non coincide con la condivisione del “credo” democratico, come invece detterebbe una cultura politica del patriottismo costituzionale. È questo lo scenario di una democrazia antifascista che emerge quando la vittoria politico-elettorale del proprio nemico viene intesa come una sconfitta o il precipizio dell’intero sistema democratico, quando il riconoscimento reciproco come “avversari democratici” è tale solo nelle parole di circostanza.
Rigenerare un patto costituzionale è praticamente impossibile quando la cultura politica del patriottismo costituzionale non è moneta corrente. Un patto costituzionale implica, infatti, che il riconoscimento reciproco della piena legittimità democratica debba avere un duplice riscontro: per un verso, deve trovare corpo in un riconoscimento reciproco ufficiale, pubblico, effettivo e consequenziale della pari cittadinanza democratica tra le forze del “campo politico” democratico, tra i protagonisti del conflitto democratico; per l’altro, deve trovare adesione e “sostegno diffuso” almeno di una parte significativa delle varie agenzie rappresentative dell’opinione pubblica e delle culture politiche, nonché degli apparati dello Stato, sia a livello di élite che di massa. Tali condizioni non sono presenti nell’Italia della “seconda Repubblica” pur accarezzata dalla pedagogia ciampiana a favore di una “patria democratica per tutti gli Italiani”.
La politica italiana della “seconda Repubblica”, al di là degli appelli alla “pacificazione nazionale” reiterati dal presidente Ciampi e in seguito ripresi dal suo successore Napolitano, da varie autorità pubbliche, da capi politici o da intellettuali, si caratterizza per lacerazioni, appartenenze partigiane e discrimini di legittimità democratica che si trascinano fino ai nostri giorni e al sopraggiungere di altri soggetti politici (più o meno nuovi). Simbolo principe di questo clima politico-culturale, che rivela perduranti difficoltà nel rivitalizzare il patto costituzionale, è la ricorrenza celebrativa e il significato della memoria del 25 aprile: un 25 aprile che “resiste” come referente simbolico-identitario della Costituzione vigente, che continua a contribuire a definire il canone politico-identitario e della memoria pubblica della democrazia antifascista, ma che non riesce a ritradursi in risorsa capace di dare sostanza politica a un patriottismo costituzionale rigeneratore del patto costituzionale. Tali difficoltà sono più profonde di quanto normalmente si pensi: riflettono nodi etico-politici e culturali mai sciolti, e talora anche profonde lacerazioni nei vissuti delle persone.
Gli aspetti simbolico-identitari della vita collettiva di una democrazia non andrebbero banalizzati, pena la banalizzazione della stessa memoria storica e del valore dell’appartenenza a una patria democratica comune, e con ciò della qualità di un regime democratico. Sono, queste, buone ragioni affinché la nostra cultura politica non sia troppo disinvolta nei confronti dei fili aggrovigliati di cui è tessuta la nostra storia politica, e che abbisognano di continua revisione critica. Gli anni di Ciampi e Napolitano al Quirinale ci hanno lasciato un libro ricco di stimoli. In particolare, la pedagogia civico-nazionale ciampiana ha sollecitato la sensibilità popolare sul fatto che la storia e la memoria pubblica non sono per definizione fastidiose vischiosità del passato, ma forze vitali del presente di una società. Ma l’eredità degli di Ciampi e di Napolitano contiene anche molte pagine bianche, o intrise di ambiguità e incertezza perduranti. Alla fine, la democrazia antifascista della “seconda Repubblica” viaggia tra equivoci e problemi identitari reali, continuamente ricacciati sotto il tappeto. Ad esempio, la “pacificazione” democratica della nazione, tirata da una parte e dall’altra, è ripetutamente annegata nella varietà di significati di cui viene caricata: in suo nome si arriva a chiedere tanto una “parificazione” tra eredità antifascista ed eredità fascista degli italiani, quanto un’applicazione estensiva dello stigma del fascismo da parte dei cultori dell’antifascismo. Ma in suo nome si vorrebbe anche consumare una “de-politicizzazione” dell’antifascismo e dell’anticomunismo, che riduca fascismo e comunismo a reperti di un passato di perdenti ormai senza vita.
Sfigurata da equivoci e problemi reali, ancora nel XXI secolo la “pacificazione” non è l’approdo della democrazia antifascista. Dobbiamo farci i conti, se vogliamo tutelare quel bene comune e pubblico che è la “democrazia aperta” e di fronte al rilievo politico che negli ultimi trenta anni hanno assunto nuove formazioni non riconducibili a quelle dell’arco costituzionale, e che si sono affiancate a quelle post, ex o neo democristiano-cattoliche, a quelle post, neo o ex comuniste e a quelle post, neo o ex fasciste. Piaccia o meno, antifascismo e fascismo, anticomunismo e comunismo non sono solo retaggi ideologici del passato: continuano a essere strumenti identitari, risorse retoriche e ideologiche, mezzi di lotta politica attivi nella definizione della vita democratica e nelle scelte politiche del presente; vischiosamente, intridono anche quelle che sono forse le più “originali” fratture politiche della “nuova” Repubblica: berlusconismo vs. antiberlusconismo, leghismo vs. antileghismo, liberaldemocraticismo vs. populismo, europeismo vs. sovranismo, contrapposizioni ideologiche il cui profilo politico non di rado viene a qualificarsi ancora in termini di (neo)fascismo, post-fascismo, anti-fascismo, a-fascismo o, sottotraccia, in termini di (neo)comunismo, post-comunismo o anticomunismo, restituendo perciò stesso salienza politica alle fratture e al linguaggio politico costitutivi della democrazia antifascista.
Quanto alla costituzione repubblicana, in alcune sue parti importanti essa è vissuta (da settori niente affatto marginali della politica e della società) come “estranea” o distante dalle fratture o questioni diventate salienti, appare come disallineata o invecchiata rispetto a istanze e mutamenti significativi della società, delle sue culture e forze politiche. In un tale quadro politico, la possibilità di unire il Paese attorno a un patriottismo costituzionale necessiterebbe niente meno che di un “nuovo patto costituente” tra le forze e le culture politiche, o almeno di un “patto ri-costituente”. Ma la possibilità di muoversi lungo una strada del genere richiede a una democrazia, e anzitutto ai suoi ceti dirigenti, un lavoro politico, ma anche culturale e identitario, serio e impegnativo: qualcosa di assimilabile a quanto in Italia avvenne, per un tratto, all’epoca del passaggio dal regime monarchico-fascista a quello repubblicano-democratico.
5) Cosa ha dato e cosa ha tolto, la democrazia antifascista, alla qualità di una democrazia, come quella italiana, ancora oggi in affanno?
Direi che la democrazia antifascista ha dato alla qualità di una democrazia la religione civile e il canone identitario dell’antifascismo. Direi, con una battuta che richiederebbe un altro libro per essere adeguatamente sviluppata, che l’antifascismo ha dato sì una democrazia al Paese, ma una “democrazia chiusa” che vede svilite la qualità di una democrazia matura. Per converso, la democrazia antifascista ha tolto o impedito un patriottismo costituzionale, e con esso la possibilità di perseguire una “democrazia aperta”, ovvero una democrazia dove tutti i soggetti non posti fuori dalle leggi costituzionali possano non solo legalmente andare al governo (magari per “un incidente della storia” o per “errori del popolo”), ma siano anche considerati pienamente e parimenti legittimi dalla cultura politica dominante e dalle strutture di potere che operano sullo sfondo dei circuiti istituzionali democratici.
Vorrei infine concludere con tre notazioni finali:
- Alla luce della fisionomia assunta dalla democrazia repubblicana, in particolare a partire dal 1994, e poi fino ai nostri giorni, diventa vieppiù problematico definire il sistema politico italiano e le sue culture politiche ancora ed esclusivamente in base a quel “patto di identità politica” del dopoguerra di cui la Costituzione tutt’ora in vigore è incarnazione. A spiegarne il perché è un dato semplice ma dirimente: di quel patto sono venuti meno i soggetti politici e le identità culturali che lo avevano partorito e nutrito; quel patto ha visto sciogliersi la sua base elettorale e politico-culturale, ovvero il suo “sostegno diffuso”, per dirla con linguaggio politologico.
- Nel libro sottolineo i nodi irrisolti di una democrazia antifascista, legati alla memoria e all’eredità politica del fascismo e dell’antifascismo, del comunismo e dell’anticomunismo, per porre in evidenza come e perché essi continuino a definire il discorso pubblico attuale, a definire il campo politico della democrazia italiana e le tensioni e contrapposizioni sul perimetro della legittimità democratica nell’Italia contemporanea. Il persistere di questi caratteri della politica italiana dipende da due fattori essenziali, ma solitamente trascurati: a) dal fatto che gli schemi culturali, valoriali e ideologici che nutrono una democrazia sono più radicati di quanto spesso si pensi; b) dal fatto che tali schemi sono una faccia, un mezzo e un fine di quel processo sociale che è il potere: sono, cioè, una molla e una posta in gioco irriducibili della politica, ossia (per usare ancora una volta il concetto di Bourdieu) del “campo” delle forze e delle dinamiche del potere. Quanto al peso della storia, non si tratta solamente di sottolineare quel fatto riassumibile nel poetico “il passato che non passa”. Perché in politica, per parafrasare Gabriel Garcia Marquez, il passato non è semplicemente ciò che è accaduto o che abbiamo vissuto, ma quello che una società ricorda e come lo ricorda, e come racconta e vive quello che ricorda. Così, la qualità o la maturità di una democrazia chiamano in causa anche la memoria, la rimozione e la manipolazione (sia questa fisiologica nell’agire degli uomini o mistificatoria, artatamente congegnata e perseguita). E tutto questo accade anche in democrazia, qualunque definizione se ne voglia dare.
- Nel libro ho ricostruito il profilo storico-politico, ideologico e culturale di una democrazia antifascista, quale quella italiana. E l’ho fatto considerando la democrazia dal punto di vista “sistemico” e non già da uno o l’altro punto di vista “partigiano”. Nel condurre l’indagine (il “viaggio nella Repubblica”) mi sono fatto guidare da quelle che considero le “buone ragioni” della democrazia come sistema, e non già dalle ragioni di chi valuta la qualità della democrazia in termini di destra e sinistra, o che apprezza la democrazia quando a vincere è la sua parte ma che invece lancia allarmi di crisi della democrazia o di attentato alla democrazia quando a vincere è la parte avversa. Penso che l’antifascismo sia un attributo della democrazia, ma a una condizione: se favorisce l’apertura e non la chiusura del sistema democratico e se riesce a governare il pluralismo delle alternative politiche e l’antagonismo democratico riconoscendo pari legittimità morale e politica a tutti i soggetti del pluralismo che partecipano nel gioco democratico e a cui la Costituzione antifascista consente non solo di prendere parte alle elezioni, ma anche di vincerle, senza che essi siano stigmatizzati o delegittimati in nome di un antifascismo usato come arma di lotta contro l’avversario. Il “metodo democratico”, se bene inteso e utilizzato, è assai esigente e, anche se (per così dire) non promette la luna, implica che quando un soggetto politico è ammesso al gioco deve essere ammesso senza riserve politiche o etico-politiche. Se così non è, è la democrazia a essere messa all’angolo, non il nostro avversario/nemico: a rischiare di “perdere la sua faccia” e di essere sconfitta è la “democrazia aperta”, mentre la nostra democrazia rivela il suo volto di “democrazia chiusa”. Tutto questo ha conseguenze nocive per la qualità di una democrazia, benché possa essere gradito ai “partigiani” dell’una o dell’altra parte del campo della lotta democratica. Qui sta il vero banco di prova della nostra democrazia antifascista, come mostrano i nostri giorni e la storia repubblicana. E da qui, le luci ma anche le ombre di una democrazia antifascista. Un patriottismo costituzionale ridotto a mera retorica non basta. Interrogarci sulle occasioni mancate del patriottismo costituzionale può aiutare a mettere a fuoco i problemi della democrazia contemporanea e a capire perché la democrazia antifascista fatica a trovare le risposte e non rende un buon servizio a una democrazia matura e di qualità. Insomma, mentre l’antifascismo è un attributo della democrazia, non sempre la democrazia si rivela un attributo dell’antifascismo
NOTA BIO-BIBLIOGRAFICA. Gaspare Nevola, scienziato sociale, è professore ordinario di scienza politica all’Università di Trento. Recentemente ha portato in piazza le sue lezioni pubbliche sulla democrazia, nell’ambito della manifestazione studentesca “Primavera culturale”. È autore di numerosi saggi accademici e pubblicistici. Tra i suoi libri: Conflitto e coercizione (Bologna, 1994); Giustizia sociale e giovani (Roma, 2000); Una patria per gli Italiani? (Roma, 2003), Democrazia, Costituzione e Identità (Novara, 2007). Da qualche anno cura Tempi difficili, blog di dibattito pubblico.
(Intervista uscita su Letture.org, maggio 20221 (www.letture.com) – Pubblicata su questo sito il 14 maggio 2021 e su Sinistrainrete il 6 giugno 2022)
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Gli aspetti simbolico-identitari della vita collettiva di una democrazia non andrebbero banalizzati, pena la banalizzazione della stessa memoria storica e del valore dell’appartenenza a una patria democratica comune, e con ciò della qualità di un regime democratico. Sono, queste, buone ragioni affinché la nostra cultura politica non sia troppo disinvolta nei confronti dei fili aggrovigliati di cui è tessuta la nostra storia politica, e che abbisognano di continua revisione critica.
Non si può che convenire con Nevola: il pericolo è quello della banalizzazione.