(Pubblicato su questo sito il 4 marzo 2021 – Uscito, con altro titolo, su “Alto Adige”, 8 marzo 2021; “l’Adige”, 12 marzo 2021 )
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Molti han tirato sospiri di sollievo con l’arrivo di Draghi al governo. Draghi e i suoi uomini rappresentano, finalmente, l’ingresso della razionalità e della competenza alla guida del Paese, l’avvio di un approccio scientifico ai problemi, una politica affidata all’analisi dei dati e agli esperti. Forte e trasversale è il plauso con cui l’opinione pubblica ha accolto il “terremoto Draghi”, il “Draghi taumaturgo”, il “governo dei migliori”, il “partito di Draghi”, almeno nella parte più vocale della società, che nell’ascesa di Draghi e dei Draghi boys vede “una rivoluzione contro la dittatura dell’ignoranza”. I partiti, più e meno confusi o irritati, fan buon viso a cattivo gioco, ma, variamente deboli, giocano la loro piccola partita sul campo, in ossequio a una logica di sistema fatta valere dal Presidente Mattarella nel rispetto della Costituzione, ma non per questo aliena da valutazioni politiche, e cioè di “potere”, per usare una parola disturbante nel lessico e pensare dominante, “sanificato” e “politicamente corretto”.
Diciamolo: i giudizi che esaltano non solo la legalità ma anche la piena “legittimità del trono” al draghismo non sono sempre genuini. Ma spesso sì: chi mai vorrebbe essere governato da ignoranti e incompetenti? E poi, più silente e umbratile, c’è la filosofia di supporto del “Francia o Spagna purché se magna”, attribuita all’Italia ma “universale”: non importa chi governa, ma i risultati e che io stia bene o me la cavi. Questo modo di vedere e valutare le cose desta però perplessità: primo, distrae da una lettura lucida e spassionata (il tacitiano “sine ira et studio”) della presunta rivoluzione in corso; secondo, è molto disinvolto nel trattare la democrazia. Una pietra d’inciampo è proprio la questione della competenza in politica. Molte le facce della competenza in politica e che suscitano polemiche e sentenze. Ma molti anche gli equivoci. Che dire, in particolare, sul tema della competenza dei governanti?
Il tema riguarda anche come una società seleziona i suoi governanti. Nella storia non sono moltissimi i modi di andare al governo, i modi di reclutare o designare alle cariche pubbliche; ma non sono neppure solo uno: conquista con la forza, ereditarietà, cooptazione, estrazione a sorte, competenza. La via tipica che identifica la democrazia è invece l’elezione. Questa, tuttavia, nella vita pratica si aggiunge o si combina variamente ad altre vie, però non le sostituisce. La storia e il presente ci dicono che il ricorso alla competenza in politica è, non solo ma anche, strumento importante per riequilibrare l’applicazione pura del principio elettorale e di maggioranza, peculiare della democrazia, ossia per mitigarne gli effetti incontrollabili o indesiderati per diversi motivi. Variamente definiti nel corso del tempo, gli interessi, i convincimenti e le buone ragioni che ispirano la ratio aristocratica e/o oligarchica (a difesa della bontà del “governo dei pochi o dei migliori”) han maturato un compromesso politico con gli interessi, i convincimenti e le buone ragioni che ispirano la ratio democratica (sostenitrice della bontà del “governo dei molti): un compromesso che è “politico”, nel senso che attiene al “campo” dei rapporti di potere e delle idee che lo legittimano. Così, oggi come ieri, assumere cariche o decisioni politiche è cosa che non si sottrae alla questione della competenza.
Di tutto ciò si discuteva già nell’antica Grecia, con Platone che vedeva il governo della Repubblica affidato ai filosofi: uomini saggi e sapienti, dotati di conoscenze e preparazione, e perciò ritenuti capaci di perseguire il bene della polis. Ma attenzione: per Platone, come per Aristotele, il ricorso ai “competenti” era giustificato non tanto dal loro pur importante sapere tecnico e scientifico (quello che tale era ai loro tempi), bensì dalla saggezza e sapienza, virtù necessarie a governare la cosa pubblica. Su queste basi, Aristotele auspicava un “governo misto”, una commistione tra virtù politiche fertilizzate dal principio democratico e competenze tecniche collegate a un principio aristocratico: contemperare demos e aristoi, “il popolo” e “i migliori”. Da allora molta acqua è passata sotto i ponti. Eppure, ancora oggi, in democrazia alla competenza tecnica si dovrebbe chiedere di elaborare e suggerire i “mezzi” (anche alternativi tra loro) utilizzabili per raggiungere quei “fini” che spetta alla guida politica indicare. Questa, ad esempio, la lezione di un liberal-conservatore come Weber, poco sedotto dal “potere del popolo”, dalla demos-crazia, e che invece riconosce gli imperativi della razionalità e della competenza. Si obietterà: ma i fini, come i mezzi a cui raccordarli, sono molteplici e in antagonismo tra loro, quali e come scegliere, come gerarchizzare? Il problema non è nuovo: nel “politeismo dei valori” già vivevano gli Ateniesi e la loro cultura politica. In democrazia sui fini si mette mano attraverso il processo e il confronto pubblico, attraverso la lotta politica ed elettorale per il consenso attorno ai “fini in competizione” che circolano nel pluralismo della “società aperta”. Questo detterebbe lo spirito democratico, con le sue pretese di libertà, eguaglianza, trasparenza, ecc.; anche secondo Weber, spirito non populista, ma liberale che cerca di fare sul serio i conti con la democrazia, esattamente come un Tocqueville. L’idea che siano le expertise tecniche e scientifiche a scegliere tra i mezzi e a dettare i fini pubblici, oltre a non essere ben fondata, porta a sconfinare nella tecnocrazia: un regime altro rispetto alla democrazia. Sotto traccia, qui entrano in gioco i “vincoli” (europei, il virus, ad es.). Ma su questo un’altra volta.
Quelle che chiamiamo democrazie, al di là della retorica e del linguaggio convenzionali, sono invero “governi misti”, di cui già parlavan gli Antichi e i Moderni. Le democrazie “reali” sono sistemi che combinano criteri di governo di tipo democratico (volontà politica espressa dai cittadini e rappresentata dai politici) con altri criteri di natura tecnocratica (competenze scientifiche degli esperti), e altri criteri ancora (forza, potere, ricchezza). Nei governi misti, perciò, ciò che conta, che fa la differenza, è il dosaggio tra i diversi ingredienti del cocktail, e il variare del loro dosaggio. Quando parliamo di “competenza in politica” dobbiamo perciò capire bene in cosa questa debba e possa consistere, affinché sia possibile valutare quanto nel nostro governo misto pesi o arretri l’ingrediente democratico di fronte all’ingrediente tecnocratico o ad altri. Oggi, tenere sotto controllo il dominio dell’ideologia tecnocratica (ma anche altri criteri di governo) significa capire che c’è un limite al di sotto del quale la componente democratica del nostro governo misto perde rilevanza. Identificare quando si supera tale limite è però cosa difficile per i contemporanei, come insegna la “legge del salame”. Oggi un virus ci tiene sotto schiaffo, minaccia la vita, il benessere, le libertà, l’economia; oggi più che mai si è alla ricerca di sicurezza, conforto, rassicurazioni, certezze. Ci affidiamo alla scienza dei virologi, per il vaccino; e alla scienza di Draghi, per il governo. La cultura tecnocratica pervade la nostra mentalità, in maniera sottile o con verbosità debordante. Quella tecnocratica è un’ideologia facile e tentatrice. Ma tradisce il cuore della pratica e dell’idea stessa di democrazia. Persino i sistemi autoritari o totalitari presentano tratti di un governo misto, se scrutati oltre la superficie, come fece Neumann col suo Behemoth a proposito della Germania nazista. C’è governo misto e governo misto, voglio dire. Capirlo non è una rivoluzione. Ma è rivoluzionario, cari democratici.