(Uscito su “l’Adige”, 30 dicembre 2020 – Pubblicato su questo sito il 31 dicembre 2020)
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Il 27 dicembre è morto Giorgio Galli, uno dei padri della scienza politica contemporanea. Ricordo quando lo incontrai a Trento. A cena mi raccontò della sua esperienza di professore a Trento, “ai tempi del ‘68”: “Questa cittadina dalle ragazze in minigonna con gli stivali. I trentini le vedevano come delle aliene, e pensavano: ‘Non è possibile che in una società perbene arrivino questi esseri’. Però noi non ci siamo mai sentiti circondati da ostilità: forse da incomprensione, stupore o diffidenza di chi si chiedeva cosa stava capitando alla loro città. Forse erano ancora aggrappati al mondo del Principe Vescovo…» – e qui accennò un sorriso, malizioso ma leggero, affettuoso. Forse gli riaffiorò anche la giovinezza, in quella serata del 2017, tra spätzle, trota ai ferri, un bicchiere di bianco. E una lunga conversazione fino all’una di notte, nel salottino di un hotel-ristorante.
Uomo fine e studioso intelligente, Galli. Un eterodosso e un solista delle scienze sociali, poco incline a farsi assorbire nelle tassonomie autoreferenziali delle discipline accademiche, che padroneggiava senza farsi signoreggiare. Finì la sua carriera da professore associato, non arrivò all’ordinariato, il top accademico. Non gli chiesi perché, ma lui mi accennò qualcosa. E pensai a come va il mondo, alle “circostanze”, ma anche alle difficoltà che può incontrare chi è portatore di idee disallineate rispetto agli schemi imperanti. Mai banale nelle sue analisi, Galli. Mai gregario di correnti. Creatore di idee, semmai, a inseguire la curiosità del conoscere, le risposte alle domande che contano, a gettare una luce su quel mondo sfuggente che è la politica, che è il potere, che è il mondo degli uomini: dalla seminale ricerca sulla partecipazione politica in Italia (anni ’60) alle analisi più ardite dell’ultima fase della sua vita (Scacco alla superclasse, 2016; Magia e potere, 2004), passando per gli studi sulla politica italiana (Il bipartitismo imperfetto, 1966; I partiti politici in Italia, 1977). Autore prolifico, ci lascia decine di libri, centinaia di saggi. Non sempre impeccabili nella scrittura, struttura o confezione delle idee, ma sempre ricchi di idee, penetranti e spesso spiazzanti: spingono a pensare o a vedere qualcosa a cui non si era fatto attenzione, a considerare molti aspetti della vita collettiva da “un’altra angolatura”.
Negli ultimi anni si era concentrato sulle forme del “potere invisibile”; da genuino democratico, si cimentava con la scommessa aurea della democrazia: “democratizzare il potere”, dove esso si muove davvero e non dove, con inerzia, ce lo rappresentiamo. Galli è stato tra i pochissimi scienziati sociali accademici a gettare lo sguardo su fenomeni “opachi”, che solo superficiale supponenza, dogmatismo o cattiva fede liquidano come frutto esclusivo di visioni dietrologiche o cospirative: come se dietro a ciò che possiamo osservare non ci fosse altro, come se attività segrete e cospirative non avessero fatto la storia fino a noi, nel male o nel bene. Così Galli ha preso a fare i conti con il potere e il suo trasloco dai luoghi istituzionali delle decisioni formali (parlamenti, governi, partiti), ai luoghi informali: i grandi gruppi finanziari, bancari, le multinazionali, le “consorterie” o “cricche” (come le chiamava Charles Wright Mills, attirandosi le ire dei Robert Dahl), che agiscono in modo “informale”, che non afferiscono alle istituzioni democratiche accreditate di trasparenza, se non lateralmente o surrettiziamente; solitamente li chiamiamo “poteri forti”, che esistono ma non sono facili da studiare proprio perché “riservati quanto alle cose che contano”. Questi poteri sono decisivi nelle scelte politiche, nelle politiche pubbliche, nell’“allocazione imperativa dei valori nella società”, ossia nella distribuzione di tutte le risorse che una società considera importanti: a partire dal potere e dal prestigio sociale, dai beni materiali e alla salute, dall’istruzione e ai divertimenti: pane e circo… e salute.
Lo ricordo nel nostro incontro a Trento, nei due suoi interventi a Sociologia: con gli studenti del mio corso; in un dibattito di dipartimento. Era un dolce giovinetto di 89 anni: fisico asciutto e minuto, iperattivo, viveva tra Milano e Camogli, e non si stancava di fare ricerche e progetti, di leggere, tagliare giornali, navigare su internet, studiare. Con la curiosità dell’intellettuale genuino, che tiene sempre vivo dentro di sé il “fanciullino” pascoliano. Un professore che sapeva ancora fare brillanti lezioni a vecchi studenti che ritornavano dal passato e ai miei, ventenni, di oggi. Con una memoria di ferro e una mitezza nell’esporre le sue tesi; e il desiderio di confrontarsi con chi la pensa diversamente. Parlammo del suo ritorno a Trento a mezzo secolo da quando vi aveva insegnato, del suo ultimo libro. Discutendo della politica del momento, le parole di Galli si fecero severe e impietose, come un medico alle prese con una grave patologia e che non può girarci attorno: siamo a mezzo passo dal fallimento della democrazia rappresentativa, che dagli anni ’80 non riesce più a mantenere le sue promesse e a perseguire «le sue aspirazioni fondamentali: allargare i diritti, migliorare la vita, sviluppare le libertà, ridurre le diseguaglianze, per tutti». Un bel giorno ci siamo svegliati e ci siamo imbattuti nel “populismo”: «Il successo di questi movimenti – notava Galli – è dovuto alla loro capacità di dare voce al senso di insoddisfazione dovuto non solo alla crisi economica ma anche alla crisi della rappresentanza democratica». Ci intrattenemmo un po’ su quanto il populismo costituisse o meno una minaccia per la democrazia. Fummo d’accordo nel rifiutare giudizi sommari. Sottoposi a suo vaglio una tesi a me cara: i movimenti “populisti” di oggi non sono la causa della crisi della democrazia, non sono la malattia, ma la febbre, il sintomo del malessere. Il mio giovane novantenne annuì. E sottolineò come la democrazia rappresentativa restasse irrinunciabile: per rimediare alla sua crisi attuale – disse – è necessario estendere e potenziare il voto dei cittadini, consentendogli di eleggere parte del consiglio di amministrazione delle multinazionali una tesi formulata negli anni ’60 da Peter Bachrach, politologo troppo trascurato). E qui ad annuire fui io, ma con riserva, gli feci notare. Gli chiesi se pensasse che le democrazie rappresentative di oggi avessero bisogno di meccanismi e cultura della democrazia diretta, di iniezioni di sussidiarietà, di micro-istituzioni di prossimità che avvicinino le decisioni ai luoghi della vita dei cittadini. Simili scenari riformisti erano estranei alla cultura politica di Galli, ed egli non mi nascose le sue perplessità. Ma non chiuse l’argomento. Lo riformulò in una chiave a lui più congeniale, per esplorare possibili strade da percorrere insieme.
Un punto su cui ci trovammo subito fu l’idea che coltivava in quegli anni: la necessità di un “rimescolamento ideologico” tra teorie critiche del capitalismo nutrite da culture politiche di sinistra e di destra. Ma, puntualizzò subito, non quelle sinistre e destre oggi di governo e che si sono appiattite in modo acritico sulla politica neo-liberale, sull’idea che non ci sono alternative al potere dei giganti dell’economia internazionale. Mi lasciò di stucco: a dirlo era un inamovibile liberale democratico di sinistra, e un po’ socialista.
A fine cena Galli chiese al ristoratore notizie sui dolci. La parola mi manca, direbbe il sommo poeta, a dire della delusione negli occhi dell’amico milanese: l’espressione di un bimbo che non capisce, quando ci vien detto che la cucina era già chiusa. Alle 21.30. Davvero, Galli sembrò non capire o non crederci, e continuò a chiedere: «E allora cosa potrei prendere?». «Giorgio, un caffè, un amaro, cose del genere: è rimasto aperto solo il bar…». Ti saluto, Giorgio.