(Uscito su “Alto Adige”, 19 dicembre 2020; “l’Adige” del 20 dicembre 2020 – Pubblicato su questo sito il 19 dicembre 2020)
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Aprire o chiudere gli impianti di sci nel Natale del virus pandemico? La scelta <<deve avvenire a livello europeo>>, dice Fugatti, Presidente della Provincia Autonoma di Trento: <<altrimenti si creerebbe uno squilibrio a livello europeo>>. Uno studio dell’Università di Cambridge (“Crisis, austerity measures and beyond”, 2018) riferisce dei danni al patrimonio archeologico della Grecia (e dell’umanità, aggiunge l’Unesco), talora permanenti, provocati dalla gestione del debito nazionale greco e dalle politiche di austerità di Ue, Bce e Fmi. Fugatti fa bene a reclamare misure a livello europeo sugli impianti sciistici per meglio gestire la crisi virale e i suoi effetti su salute, lavoro e socialità dei cittadini. Ma le sue preoccupazioni sui monti innevati sanno di strabismo di fronte alle montagne di divisioni, egoismi e concorrenza nelle politiche di “pane, circo… e salute” con le quali conviviamo. Cambridge fa bene a lanciare l’allarme sulla protezione dei tesori archeologici, ma a molti suona come “bizza da intellettuali” quando nelle casse pubbliche mancano i soldi per pensioni o sanità.
Ma a quale Europa si appellano il Trentino e i ricercatori di Cambridge? “Squilibri”, “austerità” e diseguaglianze sono funzionali alla stella polare della nostra epoca: la competitività sui mercati, quella “distruzione creativa” grazie a cui mercato e suoi cicli economici assicurano sviluppo, ricchezza e benessere, secondo la visione schumpeteriana che, dura o meno, domina nella nostra cultura politica e permea l’Ue. Nel mondo neoliberale, capitalismo (più o meno di mercato), ciclo economico della crescita, competitività han cambiato il volto della democrazia, valori e rapporti di potere al suo interno.
La democrazia liberale europea, oggi difesa con zelo contro i populismi illiberali è, al più, una postdemocrazia: nobilitata nel nome dei diritti, di libertà e giustizia, e pure in nome dell’Europa di Ventotène, protetta dallo scudo Ue. Ma forse viviamo in ex-democrazie per le quali non abbiamo il nome giusto o non vogliamo usare quelli disponibili. Anche nell’eccezionalità dell’odierna crisi, il “paradigma del debito e dell’austerità”, pur pro tempore ammorbidito, resta il gate-keeping ideologico che governa la “democrazia” in Europa. Un paradigma che mal si concilia con il freno alle diseguaglianze di cittadinanza, con le aspettative di giustizia sociale, con i valori di cui si nutre la nostra rappresentazione democratica. Dietro questo stato di cose ci sono fattori e motivi storici, neanche tanto lontani, di cui l’Ue, piaccia o meno, è discendente diretta. Altro che figlia dei “visionari” Spinelli, Rossi e Colorni. Al più l’Ue è vagamente imparentata con l’Europa di De Gasperi, Adenauer e Schumann; ma, soprattutto, è erede del disegno pragmatico e “realistico” che associamo a Monnet, con i suoi equivoci e la narrazione edificante e seducente che ne è seguita. Vediamo un tassello di questa storia.
Ai tempi della sua Commissione Ue, il socialista tecnocrate Delors cercò di dare una “dimensione sociale” all’Europa comunitaria: uno spazio per le politiche sociali a difesa dei ceti più fragili. Ma con l’Atto Unico (1986), poi promosso dallo stesso Delors, come effetto dell’opposizione della Thatcher e di nuovi negoziati, la “dimensione sociale” perse rilievo. Dalla metà degli anni ’80, nel campo dell’integrazione europea interessi e idee della grande impresa e finanza internazionale han prevalso sempre su quelli dei lavoratori dipendenti, del piccolo artigianato e delle piccole imprese, dei piccoli professionisti e dei consumatori. Da qui, negli anni, l’emergere di quel deficit democratico dell’Ue, a lungo negato da molti analisti, di cui si nutriranno “populisti” e “sovranisti”. Con un linguaggio volutamente d’altri tempi, tra l’amaro e l’ironico, Schmitter e Streeck, politologi di fede socialdemocratica (europeista convinto il primo, deluso e più critico il secondo), concludevano: pare che «l’euroborghesia» abbia finalmente trovato nell’Ue «la ‘Commissione Esecutiva’ per la gestione degli affari comuni persa a livello dello Stato nazionale». Il “Proletari di tutto il mondo unitevi” di Marx non aveva visto del tutto male. Si era solo sbagliato sui protagonisti dell’unione.
E arriviamo all’Europa figlia del Washington Consensus (WC), come lo definì il suo teorico, l’economista Williamson, che traccia le linee di politica economica del neoliberalismo globalista. Il WC si afferma già negli anni ’70 e diventa egemone nel decennio successivo. Risultato? Redditi e ricchezza della “popolazione del 99%” smettono di crescere, quelli della “popolazione dell’1%” aumentano vertiginosamente. Oltre che povertà e diseguaglianze economiche, l’egemonia neoliberale globalista genererà esclusione e marginalizzazione dei ceti popolari, sui quali cadrà un senso di precarietà e disagio non solo materiale ma anche culturale, psicologico, simbolico, dei loro stili di vita e visioni del mondo. Da qui nasce il variegato “mondo di sotto” della nostra epoca, che in parte nutre la politica anti-sistema, a destra, sinistra e centro. Un mondo che la politica pro-sistema della nostra Ue può solo arginare con le sue narrazioni politiche e con qualche salvagente assistenziale, residuale emergenziale: paternalisticamente. La “svolta” dell’Ue del Recovery Fund non può rappresentare questo “mondo di sotto”, per tanti motivi. Neppure con la maestria e il pragmatismo radioso delle uscite pubbliche di Draghi (ad es. al Meeting di Rimini di agosto), il cui genuino significato è confuso dai troppi applausi. In tutto questo, caro lettore, non c’è alcuna dietrologia, se non quel pizzico necessario per farsi un’idea della realtà del potere che si tende spesso rimuovere.
Siano ben chiare due cose. Primo: per l’Italia i fondi europei sono ossigeno, come per gli altri Paesi ma anche un po’ di più. Di tali risorse han bisogno tutti, pure i Paesi “virtuosi” o “frugali”, la solida Germania; e ne ha bisogno l’Europa intera, e la stessa Ue per sopravvivere: data la fitta interdipendenza delle economie nazionali, una crisi economica mal trattata può tradursi in crisi sociale e politica, anche di segno anti-europeo o anti-Ue, con rischi di effetto-domino per Paesi magari un po’ meno leggeri economicamente e meno politicamente impotenti della Grecia ingenua del 2015: la Brexit non è una fake news. Quindi, nulla da obiettare sulla distribuzione tra gli Stati membri di finanziamenti “mediati” dalle istituzioni europea. Ma la questione decisiva è: per farne cosa? Secondo: il nostro Paese ha certo bisogno di riforme importanti. Ma, anche qui: non è volontà di Dio o della natura che debbano essere quelle “raccomandate” dall’Ue; né tanto meno che le riforme, come se scritte sulle tavole di Mosè, debbano essere strumenti di aggiustamento e conservazione di una società neoliberale anziché di progettazione di un “nuovo mondo” post-neoliberale. Dopotutto, nella sua lunga storia il capitalismo ha assunto facce diverse, come mostra il New Deal americano o il compromesso neokeynesiano-socialdemocratico dei “Trenta (anni) gloriosi” nell’Europa del secondo ‘900.
La democrazia ha oggi un volto triste e rugoso. Come quello di tanti vecchi che si son dati da fare per ricostruirla dopo la guerra, immaginando qualcosa di meglio di quella che oggi li vede andarsene nel silenzio della confusione degli stati d’animo del Natale, o nell’armeggiare numeri e misure da parte della politica e degli esperti del virus. “Tristezza democratica”, sfuggì di bocca tempo fa a un tale.
..repetita juvant…Lei caro professore come un mantra tiene sempre alto il concetto di democrazia,strenuo difensore del potere del popolo. Purtroppo oggi questo potere è stato surclassato dal potere finanziario. Quanti dubbi in merito alla nostra socialdemocrazia. Ovviamente con numerose variabili le colpe sono nostre,dalla mera funzione del voto che ha perso potenzialità,alla nostra cara società consumistica dalla quale non sappiamo liberarci,agli egoismi nostri che ci rendono inconsapevoli vittime del nostro consumismo. Non lavorare per vivere dignitosamente ma per arricchirci perdendo di vista valori semplici ma fondamentali, probabilmente siamo in un circolo vizioso di cui non possiamo più farne a meno,siamo.. produttori/consumatori.. con tutto quello che ne consegue. L’UE pone vari step prima di ..mollare il vil denaro…ma abbiamo uno storico di uso improprio di questi fondi,mancanza di progettualità e una politica volatile. Io stesso abito in una zona turistica in sofferenza per la situazione attuale ma quando penso ai paesi del terzo mondo dove ho lavorato dico alla mia famiglia che non ci manca niente,siamo fortunati. Durkheim, primo studioso di.. fatti sociali..diceva che ci sono due gendarmi : uno dentro di noi fatto dalla nostra coscienza,cultura,tradizione,emotività,l’altro esterno che è quello istituzionale, forze dell’ordine in genere.Forse è questo che sta venendo meno nei nostri rapporti..i due gendarmi si sono lasciati andare!!!
Caro Prof. Nevola anch’io vedo nel cambiamento di paradigma degli anni 70-80 con l’abbandono di ogni solidarietà per sposare le dottrine neoliberiste un punto di svolta decisivo.
Le sinistre per l’accettazione quasi passiva di questo paradigma (terza via etc.) sono state in un certo senso tacciate di tradimento da parte delle classi popolari e per questo abbandonate. Il problema è che non si vedono alternative credibili. I partiti populisti mi sembrano forti nella pars destruens ma molto poveri nella pars costruens.
Addirittura il fatto che le masse popolari deluse dalle sinistre si rifugino a volte nel voto ai miliardari (Berlusconi, Trump, Bolsonaro) credo dia un’idea chiara del corto circuito ideologico in cui siamo caduti.
Sicuramente le istituzioni europee in parte bloccate dai veti nazionali, in parte limitate dai bias ideologici neoliberisti da cui non riescono a liberarsi non riescono ad essere quel baluardo della democrazia che dovrebbero e potrebbero essere,
Anche perché ci dobbiamo ricordare che l’Europa, con tutti i suoi difetti e i suoi limiti, continua a rimanere uno dei luoghi più democratici del mondo (sigh).
Spero davvero che ci sia qualche illuminazione e si capisca che per quanto riguarda le riforme “non è volontà di Dio o della natura che debbano essere quelle “raccomandate” dall’Ue; né tanto meno che le riforme, come se scritte sulle tavole di Mosè, debbano essere strumenti di aggiustamento e conservazione di una società neoliberale anziché di progettazione di un “nuovo mondo” post-neoliberale”.