Democrazia o salvezza? Elezioni o il Bene del Paese? Questi gli interrogativi che non vogliamo porci. Ma cosa ci dice, in ultimo, la crisi del governo Draghi?
1.Vita o crisi di un governo, voti di fiducia del Parlamento. La fisiologia di una democrazia parlamentare
La settimana scorsa il Presidente del Consiglio Draghi si è dimesso, nonostante avesse avuto il voto di fiducia istituzionale del Senato. Ma non avendo ottenuto il voto di fiducia politico da parte del M5S, ha ritenuto che la maggioranza parlamentare, che lo aveva fatto sorgere, di fatto non esisteva più, e per ciò stesso veniva meno il governo nato circa un anno e mezzo fa. Dopo che il Quirinale ha respinto le sue dimissioni, oggi (20 luglio) il premier Draghi si reca in Parlamento. In quale direzione si uscirà dalla crisi di governo ufficializzata, se non innescata, dalle dimissioni del Presidente del Consiglio? Una riflessione si impone comunque già ora, su alcune tendenze di fondo che vanno rafforzandosi nella politica e nel sentiment del Paese. Anche qualora, alla fine, si dovesse andare alle elezioni anticipate. Ma andiamo con ordine a svolgere il nostro tema, che si articolerà su una pluralità di fuochi di analisi, come, ad esempio, quello dell’opinione pubblica organizzata nei canali della stampa nazionale, quello delle trasformazioni della “cosa-democrazia” a fronte del persistere del “nome- democrazia”, quello del significato del voto nelle liberaldemocrazie contemporanee.
- Fisiologia di una democrazia parlamentare sul viale del tramonto?
Che un governo nasca, viva o muoia sulla base dei voti e della fiducia o sfiducia parlamentari, nonché sulla base delle scelte politiche che compiono i partiti, rappresenta la fisiologia di una democrazia parlamentare, quale è quella italiana disegnata nella Costituzione del 1948 – indipendentemente dal fatto che gli esiti a cui portano tali dinamiche politiche possano, a seconda dei casi, piacere o no. Ma tutto questo molti cittadini comuni e, soprattutto, molti esponenti a vario titolo della classe dirigente o opinion maker lo dimenticano, non lo sanno o fanno pubblicamente finta di non saperlo, oppure non lo accettano. Da qui l’incoronazione plebiscitaria mediatica del “salvatore della Patria” o dell’“uomo della Provvidenza” di turno. Sotto questo profilo, con Draghi abbiamo cominciato subito male, come già, a suo modo, con Mario Monti nel 2011. Cosa ne verrà?
Andare a votare pare cosa peccaminosa, un male pericoloso, un fastidioso orpello del nostro regime politico, che purtroppo va sopportato, ma su di cui è comunque necessario, così dicono le tante parole che rimbalzano nell’aria da un po’ di tempo, tenere alta la vigilanza dei medici esperti della cosa pubblica. Insomma, abbiamo a che fare con un virus-elezioni che ci complica la vita e con il quale siamo costretti a convivere? Sembrerebbe di sì. Non si distragga il lettore, non sto parlando del Covid.
Vedremo come si uscirà dalla crisi di governo. Ma intanto possiamo osservare la direzione in cui si va muovendo la crisi di governo, e la stessa democrazia italiana.
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Il plebiscito (mediatico) a Draghi. Democrazia o salvezza?
Qual è l’orientamento politico prevalente, almeno quello che viene rappresentato e di fatto costruito dalla grande opinione pubblica organizzata e messo a punto dai principali quotidiani. In attesa della seduta parlamentare chiamata, mentre scrivo, a fare chiarezza sulla posizione del premier e su quelle che sono andati ad assumere i partiti, i giornali hanno in parte sfumato i toni accesi e drammatici, da ultima spiaggia per l’Italia, degli scorsi giorni e che erano esplosi immediatamente di fronte alle dimissioni di Draghi e alla connessa crisi di governo, ovvero di fronte alla possibilità della chiamata alle urne dei cittadini cin anticipo sul fisiologico scioglimento delle Camere fissato nel 2023: l’evenienza è ritenuta dai più una minaccia da scongiurare per il “bene del Paese”. Intratteniamoci con una piccola rassegna stampa datata 19 luglio: magari servirà un giorno a ricordare come stavano le cose “il giorno prima”.
Il Corriere della Sera apre con un titolo interlocutorio, attendista, neutrale (alla lettera), ma speranzoso e fiducioso nella sostanza, di fatto auspicante il rientro della crisi: “Governo, si tratta a oltranza”, nell’occhiello e nel catenaccio sono messi in rilievo ulteriori conflitti interni al M5S e che il suo leader Conte non riesce a gestire, ma pure le ambiguità e incertezze della Lega, la tenacia del Pd nel difendere “Draghi al suo posto” e il montare degli appelli pubblici e delle pressioni rivolte al premier dimissionario affinché mantenga la guida del governo. Nelle pagine interne, Sabino Cassese, con tutta la sua autorevolezza, da sempre al servizio delle istituzioni e delle buone ragioni per la stabilità politica, si schiera con il “No alle elezioni”, e si cimenta con i motivi che a suo avviso rendono irrinunciabile la continuità del governo Draghi allo scopo di completare il lavoro avviato, mettendo in risalto le luci della continuità di Draghi al governo, ma tacendo sulle non poche ombre che invece si sono ispessite con Draghi al governo e che affliggono la vita reale del Paese; l’editorialista di punta della politica interna, Massimo Franco, mette in guardia sul fatto che Russia e Cina «fanno il tifo per la crisi dell’esecutivo», e ovviamente questo deporrebbe di per sé a favore della continuità draghiana e per la bocciatura del ricorso alle urne; il politologo ed ex-parlamentare Stefano Passigli fa presente quanto le democrazie siano «regimi fragili, fondati sul consenso dei cittadini», ma finisce per tralasciare il fatto che nelle liberaldemocrazie moderne tale consenso si esprime soprattutto attraverso il canale istituzionale delle elezioni e non con la mobilitazione delle piazze, virtuali o meno – pratiche, queste, che solitamente sono (erano?) ritenute di appannaggio delle opposizioni o con le quali siamo soliti identificare regimi non conformi alla tradizione liberaldemocratica; un articolo di cronaca politica, nel titolo mette in evidenza: «Manifestazioni da Milano a Roma: fiducia al premier, resti a Palazzo Chigi». La Repubblica apre con un perentorio «L’Italia non vuole la crisi» e con un editoriale intitolato «La spinta dal basso»: quale sia questa “Italia dal basso”, chi e quanti vi si identificano, non è dato sapere, né (tanto meno) viene qualificato in cosa consiste il «basso» del Paese, ovvero se per caso non coincida con le classiche minoranze attive e organizzate e ottimamente mediatizzate, capaci di voice e che perciò facilmente trovano eco nei grandi mass media; nelle pagine interne, il notista politico-principe della testata, Stefano Folli, nel titolo del suo pezzo evoca il formarsi del «partito di Draghi», senza però nulla dire sulla natura di tale partito e sul fatto che esso non esista nella fisiologia del sistema politico istituzionale e “visibile” della nostra liberaldemocrazia – il che (per inciso) non significa che, in altro senso, “partito di Draghi” esista eccome, carico di risorse di potere ma fuori dalle istituzioni (come abbiamo scritto in altre occasioni)[2]. La Stampa apre con «Solo un italiano su tre vuole il voto», mentre occhiello e catenaccio sottolineano al lettore come il premier in queste ore si trovi ad Algeri per siglare un patto di fornitura di gas e sia tentato dal governo bis, come il M5S rischi un’altra scissione, e Lega e Forza Italia chiudano le porte del governo ai pentastellati. Sulla prima pagina de Il Messaggero, Il Giornale, Il Sole-24 ore e l’Avvenire si offrono variazioni sul tema di fondo già evidenziato con gli altri giornali. La Verità e Il Fatto Quotidiano (il primo sempre critico nei confronti del governo Draghi, il secondo spesso critico), pur secondo linee politiche distanti ma talora convergenti, dopo giorni di aperto distanziamento dal coro pro-Draghi e anti-elezioni, aprono con una pagina formalmente attendista, anche se nelle pagine interne de Il Fatto dominano le voci pro-Draghi e anti-elezioni, mentre in quelle de La Verità registriamo una tendenza opposta. Persino Il Manifesto, sebbene presenti una prima pagina non schierata a favore di Draghi, ma nemmeno a favore delle elezioni, in un editoriale di un suo autorevole opinionista, il costituzionalista Gaetano Azzariti, si profonde in assennate parole su cosa Draghi dovrebbe fare con il suo governo in conformità al dettato costituzionale, e tuttavia l’autore non si pronuncia sull’opportunità o meno della continuità del governo Draghi, né sul tema scottante delle elezioni (anticipate) o su quello del fuoco di sbarramento contro il voto. I quotidiani nazionali, infine, più ancora che negli scorsi giorni, dedicano spiccioli di attenzione a Fratelli d’Italia e a Giorgia Meloni sua guida, ossia all’unica forza politica rimasta fuori dal governo Draghi di (quasi) “unità nazionale”, la sola a sostenere con costanza nel tempo il ricorso alle urne, e ormai partito consolidatosi nei sondaggi, dove è dato in grande crescita di consensi e come primo partito nazionale.
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La crisi del governo Draghi: un paio di considerazioni
In primo luogo, il “No alle elezioni” (anticipate) è netto e polifonico, come lo è , forse ancora di più, la volontà di mantenere Draghi alla guida del governo, fosse pure un Draghi 2, magari un governo che (nel caso in cui il M5S restasse fuori dalla nuova maggioranza-governo Draghi) perderebbe per strada la sua ragione d’essere di governo (quasi) unità nazionale, motivata dall’emergenza-Covid che era stata quella che avrebbe legittimato l’opzione “governo Draghi” e indotto lo stesso Draghi ad “entrare in politica”. Scongiurare la fine di Draghi e le elezioni, whatever it takes (per usare l’ormai abusata formula cara al Super-Mario). Siamo all’ultima incarnazione dell’eterna e sempreverde TINA[3].
In secondo luogo, lo scioglimento delle Camere prima della loro scadenza naturale e, quindi, il voto anticipato, come è noto sono previsti dalla Costituzione della Repubblica. Tipicamente, da sempre, tale evenienza allarma una buona parte dell’opinione pubblica e degli interessi costituiti. Ma tali allarmi, merita di essere sottolineato, nelle ultime stagioni politiche sono diventati particolarmente febbrili, scomposti e ultimativi nel respingere le elezioni (basti pensare all’infuocata estate del 2019, passata alla cronaca come quella del “Papeete di Salvini”): ciò soprattutto nel caso in cui i governi sono guidati da forze “pro-sistema” e consolidate o accreditate nell’establishment, ovvero negli apparati che innervano lo Stato e le strutture oligarchiche della società, non meno che nella rete dei centri di potere Ue e internazionali[4] (diverso è il caso della crisi di governo del 2019).
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Forse è arrivato il momento di restituire fiducia al corpo elettorale? A proposito di un singolare editoriale
Fermiamo un paio di ulteriori punti da cui ripartire: 1) il clima politico-culturale oggi dominante intorno alla figura di Draghi e della sua premiership di governo; 2) l’ostilità molto vocale verso le elezioni anticipate che ha marcato l’ultima stagione politica italiana, a partire dalla fine del governo Conte 1 (nell’estate 2019), nato all’indomani del voto del 18 marzo 2019 da una singolare coalizione governativa tra M5S e Lega[5], che all’epoca si caratterizzava come una difficile convergenza-convivenza tra forze esprimenti profili di cultura politica tra loro divergenti, se non antitetici, ma accomunati da un loro posizionamento come forze di una politica “anti-sistema” contrapposte a quelle tradizionali (di destra-centro-sinistra) sostenitrici di una politica “pro-sistema” (prime tra tutte Forza Italia e Pd). In questo contesto, risultano significativi alcuni passaggi di un editoriale pubblicato il 18 luglio 2022. Qui si evidenzia l’esistenza nel nostro Paese di una «diffusa e ben individuabile diffidenza per le elezioni in sé». Tale diffidenza si nutre di un argomento classico e assai utilizzato che, volta a volta variamente declinato, consiglia e anzi ammonisce di non ricorrere alle elezioni anticipate per assicurare il “bene del Paese”: l’argomento è quello dell’emergenza. Ma, come con onestà empirica e intellettuale, rileva l’editorialista, «c’è sempre un’emergenza che sconsiglia di convocare i comizi elettorali». Ricordiamo alcuni esempi molto agitati negli ultimi anni: lo spread, l’approvazione della legge di bilancio da rendicontare all’Ue, l’epidemia Covid e la lotta contro il contagio, il PNRR, la guerra tra Ucraina e Russia, con connesse crisi geopolitica internazionale, crisi economica, crisi di approvvigionamento di materie prime, e poi, immancabilmente, le “reazioni dei mercati”, ecc. Così, nota l’autore, niente elezioni, anche a «costo di stiracchiare legislature in cui vengono sperimentate… le formule di governo più diverse». La conclusione cui l’autore perviene è semplice, forse sorprendente, senza giri di parole: «Forse è venuto il momento di ricominciare ad avere fiducia nella saggezza del corpo elettorale»; «Forse ciò renderà necessario tornare alle urne due, tre volte a distanza ravvicinata. Ma è meglio correre questo rischio che avventurarci in un altro decennio di governi mai battezzati, neanche indirettamente, dagli elettori».
Non importa se vi siano o quali siano i retropensieri che portano l’editorialista a pronunciare tali giudizi, peraltro in un momento poco propizio per trovare credito in un momento poco ospitale, quale quello attuale. Resta il fatto che il suo argomento è di per sé un argomento dalla vista lunga, che fa giustizia dei mille argomenti ad hoc, ispirati da un pragmatismo dalla sguardo corto e da tatticismi strumentali del tutto partigiani, da un conservatorismo delle “posizioni di potere” acquisite in uno o l’altro ambito della società, dove ci si dimena con dovizia di parola (più che di dottrina) tra emergenze nazionali e internazionali, e dove ci si trincera in difesa del “bene del Paese” come se questo fosse definibile in modo univoco e corrispondesse ai bisogni o alle aspettative di tutti e non già a quelli di una parte della varietà di categorie sociali e gruppi politici che popolano una società eterogenea e di diseguali.
Qui giova, inoltre, rilevare che i sostenitori della continuità e stabilità di governo (e nella fattispecie di un governo, quello Draghi, assai singolare sotto ogni punto di vista) poco o punto mettono sotto i riflettori la pessima salute della democrazia e del suo funzionamento, se non per addebitarne qualsivoglia responsabilità ai guastatori “populisti”. La democrazia, anche quando chiama in causa le elezioni, non dovrebbe essere contrapposta al “bene del Paese”: essa costituisce sempre una parte qualificante proprio del bene del Paese, anche quando si tratta di andare ad un voto anticipato che esprime comunque (a volerla vedere) una ratio democratica (politica e costituzionale), che è stata immiserita nel modo più eclatante nel corso degli ultimi tre anni, sotto lo scudo di un’emergenza dietro l’altra che ha impedito le elezioni, là dove in numerosi Paesi occidentali le elezioni immancabilmente si tenevano senza batter ciglio e senza provocare la “rovina del Paese”. Quanta ipocrisia nascondono gli appelli (senza rossore di viso) sbandierati per definire la guerra tra Ucraina e Russia e il sostegno dell’Occidente alla prima come difesa delle democrazie occidentali, la nostra inclusa, contro le oligarchie, democrature o dittature di regimi come quello russo o cinese?
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Strappiamo il velo, scopriamo le carte sull’enigmatico editoriale
Strappiamo il velo, dunque. Non ho tratto le considerazioni del sopra citato editoriale, chessò, da una testata che molti considerano “oscurantista”, quale La Verità; e nemmeno dal furbesco garibaldino arrembante che a detta di molti sarebbe Il Fatto Quotidiano; e men che meno da uno più o meno “sfigato” foglio “anima bella”, “incendiario” o caciarone, magari veleggiante negli aperti ma torbidi e disdicevoli mari della rete. Le ho tratte dal Corriere della Sera, dal quotidiano di prestigio della grande e illuminata borghesia italiana. Una testata e un gruppo economico-mediatico che, più elegantemente di altre, rappresenta e contribuisce a definire gli umori, le istanze e le forze pro-sistema (forze economiche, politiche, sociali). L’articolo è a firma di Paolo Mieli. Erede (a suo modo) dello scomparso Eugenio Scalfari, con tutte le differenze del caso, Mieli è considerato punta di diamante dell’intellighenzia e della cultura politica pro-sistema dominante, per lo più impegnata a coltivare la sua “vocazione maggioritaria” (là dove “dominante” e “maggioritaria”, si badi, non sono sinonimi); egli stesso rappresenta, nella sfera di sua pertinenza, una figura di rilievo del così detto establishment nazionale e dei suoi raccordi internazionali: è un intellettuale di peso, anche perché non è solo uomo di cultura o apprezzato divulgatore di storia, ma pure stimato esponente della classe dirigente in senso generale, ossia un insider della rete oligarchica che governa le faccende pubbliche e private, visibili e invisibili, delle società liberaldemocratiche del nostro tempo, e che si muove agilmente tra le sfere strettamente intrecciate tra loro della finanza, della politica (in senso lato), della cultura e del mondo della comunicazione (quella colta dei “salotti buoni” e, a suo modo, pure quella del “ceto medio riflessivo” di massa).
Ebbene, in Italia (ma anche a livello europeo o internazionale), nel contesto delle dimissioni di Draghi e della crisi del suo governo, le parole di Mieli sono una “mosca bianca”: stridono apertamente con il coro (“bulgaro”, lo si sarebbe detto una volta), dove i cantori interpretano ed eseguono, ciascuno seguendo il proprio spartito, la medesima sinfonia; un’orchestra che vede esibirsi sul palco (e nei camerini) esponenti politici, dirigenti di impresa e sindacalisti, giornalisti, scrittori, professori e rettori universitari, ecc. ecc. Il leitmotiv intonato ha una melodia chiara e robusta: no al ricorso al voto, difesa con i denti e a spada tratta della permanenza di Draghi alla guida del governo, perché… “perché dopo di lui c’è il diluvio”.
In questa sede non mi interessa entrare nella cronaca della “politica politichetta” (che pure conta); né discettare sulle motivazioni a sostegno di questa melodia corale e avvolgente che, straripante, domina nel discorso pubblico, politico e mediatico. Sia detto per inciso e sine ira ac studio, schierati su posizioni critiche e dissonanti troviamo: nello scacchiere parlamentare, solo Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, e molto più ambiguamente la Lega di Salvini o quel che resta del M5S di Conte (che pure ha acceso la miccia alla dinamite della crisi di governo); sul versante dei quotidiani nazionali, come si è detto, La Verità e solo in parte Il Fatto Quotidiano (in ragione delle divisioni interne quanto alla crisi di governo e alle elezioni anticipate).
In questa sede mi preme invece cercare di mettere in evidenza il “senso del voto” nei regimi liberaldemocratici e nella rappresentazione che essi danno di sé e che si pone a fondamento della loro bontà e legittimità politica. Voglio spendere qualche considerazione in proposito perché l’impressione del sottoscritto, in qualità di osservatore per mestiere, è che la nostra società contemporanea e la cultura politica dei regimi liberaldemocratici stiano voltando o abbiano già voltato pagina. E ciò anche in riferimento proprio al significato di “andare alle urne”; dopotutto, come concordano i miei colleghi politologi e scienziati sociali, le elezioni (almeno esse) continuano a caratterizzare anche quelle che già da tempo sono definite postdemocrazie, dove «le elezioni continuano a svolgersi e a condizionare i governi»[6], sebbene non poco svuotate di peso politico. Ma ormai qualcosa sta cambiando anche sotto questo profilo, in misura più o meno impercettibile.
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La democrazia liberale moderna e il significato politico (e simbolico) delle elezioni
Soffermiamoci ora sul significato del voto in una democrazia rappresentativa. Il “fatto elettorale” costituisce il “credo” e allo stesso tempo il “metodo” cruciale della democrazia moderna (prima) e di quella contemporanea (poi). Il voto è, per così dire, un suo strumento politico multitasking, polifunzionale, ma essenziale:
1) è uno strumento politico-istituzionale attraverso cui si dà vita e organizzazione, più o meno efficiente e/o efficace, all’espressione della volontà popolare e al reclutamento del personale politico (quello elettivo in primis);
2) è uno strumento tramite cui prendono forma le istituzioni della democrazia rappresentativa di massa, si seleziona la rappresentanza popolare e la si fa confluire nelle sedi politico-istituzionali decisionali deputate (in primo luogo i parlamenti);
3) è uno strumento di partecipazione politica, in virtù del quale le opinioni e gli interessi variegati dei cittadini e della società si aggregano nel momento della scelta del voto per un partito;
4) è uno strumento attraverso il quale la moltitudine e l’eterogeneità delle preferenze individuali presenti in una società si aggregano, e si contano secondo i principi del mantenimento del pluralismo politico, e si pesano secondo i principi di maggioranza e di tutela delle minoranze, e ciò nel quadro di una dialettica tra maggioranza e opposizione;
5) è uno strumento che conferisce alla maggioranza il diritto e la responsabilità di governare, e alle minoranze il diritto-dovere di fare opposizione e di controllare l’operato del governo e della maggioranza[7];
6) infine, è il caso di rimarcarlo, il “fatto elettorale” è strumento che innesca e alimenta le occasioni di dibattito e confronto pubblico sui temi sentiti come rilevanti dalla cittadinanza, come tipicamente accade nelle campagne elettorali.
Ma il voto non si riferisce solo a tutto questo. Nella dottrina, nella retorica e nella narrazione democratiche moderne liberali, il voto configura il “sacro diritto” del popolo o dei cittadini, quel diritto in base al quale li si riconosce come detentori del potere legittimo. Sicché, nella democrazia dei moderni (e dei contemporanei), quello elettorale è anche strumento di legittimazione o di “trasferimento della legittimità” del potere dai “governati” ai “governanti”, uno strumento che definisce, altresì, l’autorità quale potere “riconosciuto” e “acconsentito”. Nel regime democratico titolare del potere legittimo è ritenuto e fissato essere il “popolo sovrano”: il demos nel nome del quale prende vita e opera il sistema di governo, appunto, demo-cratico. Tale potere legittimo viene affidato, quanto al suo esercizio, ai rappresentanti istituzionali.
Per tutte queste ragioni, il fatto elettorale costituisce ben più di un semplice meccanismo istituzionale, ben più di un punto di coagulo di un insieme di procedure e di regole per scegliere e per prendere decisioni collettive. La centralità politica del fatto elettorale, cioè, non riposa solo nell’essere un dispositivo che attiva il “metodo” (democratico), ma anche nel fatto che il votare esprime un “credo” (democratico). Il voto racchiude il cuore del “credo democratico”, ossia il valore e la base etico-politica su cui si fonda la “credenza” sulla desiderabilità e legittimità dell’intero sistema politico democratico, su cui si fonda la “credenza” sulla desiderabilità e legittimità di un modo (democratico, appunto) di organizzare la vita pubblica e il potere, i diritti e i doveri, la limitazione del potere esercitato dalle istituzioni e dalle élites politiche. Alla fine, le elezioni sono “un fatto che contiene un principio”: quello della legittimazione (democratica) del potere. Sotto questo profilo, il voto è anche un fatto simbolico-rituale, “un fatto di cultura politica”. Vediamo, in breve, come e perché.
Le elezioni, nel quadro teorico sopra sintetizzato, costituiscono il principale “rito di legittimazione democratica”: un rito propriamente politico, attraverso il quale si manifesta quel “sostegno diffuso” che una società attraverso il metodo delle elezioni offre all’intero sistema democratico; questo un sostegno si abbina a quel “sostegno specifico” che i cittadini-elettori, con le loro schede elettorali, esprimono verso un particolare partito, verso un certo candidato o leader politico, verso il colore politico di un governo. In quanto (anche) pratica simbolico-rituale, andare a votare significa, in linea di principio, esprimere volens nolens, in modo plastico, “visibile” e all’“unisono”, sia un coinvolgimento e una appartenenza “di fatto” alla propria comunità politica, sia un riconoscimento e un’accettazione “di fatto” della bontà democratica dei principi, delle regole e delle istituzioni che sono posti a fondamento della natura e del funzionamento del sistema politico (che si vuole, appunto, democratico), come pure a fondamento dei processi che governano i cambiamenti del sistema politico. Dico: “di fatto”, nel senso che è in tal modo che il voto viene inteso nell’“universo democratico”, nell’“auto-rappresentazione” o narrazione che di sé danno una società, il sistema democratico e la sua cultura politica dominante, dove essenziale resta proprio il riferimento al voto. Tutto ciò, nella pratica simbolico-rituale del momento elettorale vale indipendentemente da quale sia la motivazione “effettiva” che porta il singolo cittadino a recarsi al seggio elettorale e deporre nell’urna la propria scheda. Nel momento in cui il comune cittadino si mobilita al voto, ritira la scheda elettorale e la mette nell’urna, “di fatto” egli ha già espresso quel “sostegno diffuso” sopra menzionato, ovvero, per usare il linguaggio politologico classico, l’elettore ha dato manifestazione formale, codificata e istituzionalizzata del trasferimento di legittimazione a quel sistema politico-istituzionale (democrazia) che lo ha chiamato alle urne.
Naturalmente, ci sono anche altri aspetti decisivi per la qualità politica ed etica che contraddistingue il “voto democratico” dal mero atto di recarsi alle urne e deporre la propria scheda. Ma qui non è possibile andare oltre. Magari ci sarà altra occasione, caro lettore esigente.
Quello formulato sopra, in termini generali, è il significato del votare sul piano ideale, suggerito in prima istanza dalla teoria normativa della democrazia. Ma evitiamo equivoci, peraltro diffusi nel senso comune e anche nella letteratura specialistica: questo significato del votare non trova riscontro solo sul piano della teoria ideale-normativa della democrazia, bensì anche su quello empirico degli effetti pratici e “concreti” del voto. E questo perché e nella misura in cui il voto, a suo modo, vive e agisce nelle “democrazie reali”. Si noti: il significato e la rilevanza che sono tipicamente attribuiti alla partecipazione elettorale rende quest’ultima, di per sé, un indicatore del “sostegno diffuso” al sistema politico: cioè alla democrazia nel suo complesso, o quanto meno all’idea di democrazia presente tanto nelle teorie e nelle dottrine e ideologie politiche, quanto nell’immaginario e nel senso comune politici diffusi nella società. È questo, stiamo dicendo, il modo in cui funziona quella che possiamo chiamare la legittimazione democratica sistemica, cioè la legittimazione popolare del “sistema democratico” nel suo insieme – indipendentemente da chi sia il vincitore delle elezioni, dalla composizione della maggioranza parlamentare o da chi sieda al governo. Quando così non è, e spesso non lo è, siamo, quanto meno, di fronte a una democrazia malata, o guasta. Anche se si continua a considerarla e a chiamarla democrazia, e punto.
A proposito del concetto di “legittimazione di fatto”, di cui stiamo ora dicendo, è opportuno esplicitare e sottolineare un ulteriore aspetto, che solitamente rimane implicito quando ci si riferisce alla legittimità di un regime democratico. Sul piano sistemico e nel funzionamento ordinario di un regime democratico, la legittimità prodotta dal processo di legittimazione sopra richiamato è di norma una “legittimità presuntiva”: è, cioè, una legittimità “presupposta”, che il sistema politico-istituzionale dà, per così dire, come per scontata e acquisita, e che presume in essere e valida “fino a prova contraria”, ossia fino a quando non è smentita, fino a “nuovo avviso”: insomma, fino a quando in un dato regime non si afferma in modo conclamato e (quasi) fuori da ogni dubbio una delegittimazione del regime o un’aperta (e radicale) sfida alla sua legittimità democratica[8].
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Avviso ai naviganti. Altro che cinico, Schumpeter era un ingenuo democratico, e noi stiamo diventando post-schumpeteriani
Le considerazioni a proposito del significato del voto in democrazia, non s’inganni il lettore, non si riferiscono alla democrazia delineata dai filosofi illuministi, liberali, marxisti o giacobini, più o meno candidamente idealisti o “fuori dalla realtà delle cose”, a un Rousseau o un John Stuart Mills, a un un Sieyès o un Marx, ma alle liberaldemocrazie liberali rappresentative, di massa e costituzionali moderne, quelle affermatesi in Occidente a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale. Il significato del voto sopra formulato non è altro che il frutto di una rielaborazione dell’immagine della democrazia realista ed elitista con cui un Joseph Schumpeter o un Hans Kelsen hanno voluto rimettere con i piedi per terra la logica e il funzionamento effettivo di quei regimi democratici che, a loro avviso, la dottrina classica del passato aveva delineato con i piedi in aria e poggiati sulla testa. Come sottolineava Schumpeter, nella realtà delle cose la democrazia moderna e liberale è sempre stata e non può non essere che un “metodo”, il quale consiste in un sistema di regole e di pratiche alla base delle quali stanno le elezioni popolari. Come Schumpeter ha argomentato nella sua influentissima opera pubblicata a metà anni ’40 dello scorso secolo, «il metodo democratico è lo strumento istituzionale per giungere a decisioni politiche, in base al quale singoli individui ottengono il potere di decidere attraverso una competizione che ha per oggetto il voto popolare»; e aggiungeva: «il metodo elettorale è praticamente il solo disponibile per una comunità di qualunque dimensione», e ancora: «elevando a funzione prima del corpo elettorale la creazione di un governo vi ho compreso anche la funzione di abbatterlo»[9].
Tacciata a suo tempo da molti critici di offrire un’immagine cinica, sconfortante e antipopolare della democrazia, la dottrina moderna, liberale ed elitista della democrazia formulata da Schumpeter, nondimeno riconosce, bene o male, le elezioni, ovvero il voto popolare, come quintessenza della democrazia moderna “reale”: esse garantiscono il pluralismo democratico, la lotta politica pacifica e regolata tra élite per arrivare a posizioni di potere e conquistare cariche e gestire risorse pubbliche, nonché benefici personali o di gruppo; esse sono associate al ricambio alla guida del governo della società tra gruppi di élite in competizione tra loro[10].
Persino il concetto di poliarchia, reso noto da Robert Dahl e ripreso in tutti i suoi lavori, fino agli ultimi, quelli dell’inizio del XXI secolo, un concetto con cui l’affermato politologo del pluralismo designa le democrazie reali contrapposte a quelle ideali (alle quali destinava il termine corrente di democrazia), è concetto riferito alle nostre democrazie elettorali, dove il baricentro istituzionale continua a essere identificato nel “fatto elettorale”, con tutto il suo rilievo fondante la legittimità dei regimi liberaldemocratici o, se vogliamo, postdemocratici. Nemmeno Dahl è studioso eccentrico o marginale, bensì molto mainstream nel campo dell’analisi della democrazia: la sua concezione trova diffusa conferma nelle idee comuni di democrazia, non meno che in quelle correnti nella letteratura sugli odierni regimi liberaldemocratici. Nel presente, per quanto l’enfasi sulla sovranità popolare vada talora assottigliandosi, per quanto la volontà generale e il bene comune vengano messi in discussione, il riferimento al significato del “fatto elettorale” è rimasto trave portante della legittimazione e dei meccanismi effettivi di funzionamento della “democrazia come metodo”, e talora l’unica base, stando alla così detta “definizione minima” di democrazia. Ma la cultura politica del nostro tempo sta prendendo congedo anche dal minimalismo democratico: distrattamente o ipocritamente, non riusciamo a prenderne atto o a dirlo apertamente; con tanti saluti agli Schumpeter, ai Dahl o ai Bobbio e agli altri loro illustri colleghi. Il fatto è che mentre il film è ai titoli di coda, noi restiamo ancora in sala… a mangiare popcorn.
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Italia oggi. Manifesto dei Nuovi Democratici
Ciò che è emerso dal discorso pubblico e nelle posizioni politiche nel corso degli ultimi giorni non nasce dal nulla. Indipendentemente da cosa il premier Draghi abbia detto questo pomeriggio in Senato (ho aperto il sito della diretta della seduta, ma non l’ho seguita, preferendo finire di scrivere questo articolo: poco male, si può rimediare), a ben scrutare non stiamo attraversando (solo) una crisi di governo, e nemmeno una vera e propria “crisi di sistema”. Il fatto è un altro: la democrazia, con le annesse e connesse elezioni, è diventata un fantasma che spaventa o che quanto meno infastidisce, e di cui gli stessi “democratici dei nostri tempi“ vorrebbero in qualche modo farne una simpatica marionetta per il divertimento dei più piccini. Corsi e ricorsi della storia.
Ricordiamo che fino a tempi recenti, le elezioni mobilitavano “crociate” contro gli avversari politici: contro i comunisti o i democristiani sempiterni, contro i post o neo fascisti, contro Berlusconi o D’Alema, contro il populismo grillino o quello salviniano, contro la destra o contro la sinistra. Ma da un po’ di tempo le crociate hanno mutato direzione, pur se si continua a giocare alle crociate contro i “soliti infedeli”, le crociate che oggi contano sono soprattutto quelle che si mobilitano in anticipo e lentamente contro le elezioni stesse. Forse qualche lettore si preoccuperà o s’indignerà, magari non per le trasformazioni politiche in sé, ma per le mie considerazioni. Pazienza.
Non si tratta, da quel che si osserva, tanto di eliminare le elezioni, ma solamente neutralizzarne il significato e i possibili effetti, meglio di quanto si sia riusciti a fare finora. Se si continuerà ad andare al voto, ed è ciò che si farà, ciò che pare stagliarsi all’orizzonte è che pure le elezioni e la democrazia elettorale sono, passo dopo passo, sottoposte a “cura”, fino a rigenerarle immunizzate e sanitarizzate. O trasformale in robot ubbidienti. Ubbidenti a chi? Beh, fuori da ogni complottismo e da ogni accusa di complottismi, cose che (mi si perdoni) per quanto raffinate possano essere, restano robe di borgata, mentre noi siamo “gente di città”, cittadini (e pure istruiti). E allora… l’obbedienza va alla “volontà generale per il bene del Paese”. E scusate se è poco.
A quando il Manifesto dei Nuovi Democratici, specie del tutto originale, progressista e futurante? Vi potremmo leggere, se venisse scritto e reso pubblico oggi: “Vogliamo ancora Draghi al governo. Nel caso venissero tragicamente indette le elezioni, noi, Nuovi Democratici, per protesta contro l’offesa e la minaccia al ‘bene del Paese’, e per onorare il nostro nome, non andremo a votare. Perché le elezioni fanno male al Buon Governo… Il Manifesto è aperto a tutti coloro che vi si riconoscono e intendono sottoscriverlo”.
Bene, amico lettore, è giunto il momento di cominciare a capire come funziona una democrazia post-elettorale, e a come farla funzionare meglio (siamo riformisti e illuministi, no?). Forse non si vede ancora? Sia come sia, i suoi effetti tuttavia camminano da tempo lungo i sentieri della nostra vita collettiva. E a pensare che fino a ieri si condannavano gli astensionisti del voto, cattivi cittadini, Ma todo cambia. Anche la democrazia. No, amico, no: il “nome” lo si terrà (dopotutto funziona), È la “cosa” che imbarazza e ci crea problemi.
NOTE
[1] Questo articolo è stato completato il 20 luglio 2022, mentre il premier Draghi rendeva in Senato le sue comunicazioni sulla crisi di governo.
[2] Vedi in questo sito: Draghismo e tecnopopulismo (4 luglio 2021); Cosa significa la competenza in politica. Democrazia, governo misto e il partito di Draghi (4 marzo 2021); Perché il governo Draghi? That’s politics, baby (14 febbraio 2021); Governo condiviso o elezioni anticipate. Lettera aperta al Presidente Mattarella sulla crisi di governo Conte 2 (26 gennaio 2021).
[3] TINA, come è noto, sta per There Is No Alternative.
[4] Su questo aspetto della politica contemporanea, italiana e internazionale, ho parlato in numerosi articoli presenti su questo sito.
[5] Alla stagione politica del governo Conte 1, alla sua crisi e agli sviluppi che ne sono seguiti per il sistema politico-partitico italiano, ivi inclusa la messa a fuoco del nuovo bipolarismo che andava emergendo in quegli anni, prima dell’emergenza Covid, ho dedicato diversi articoli presenti in questo sito.
[6] Vedi C. Crouch, Postdemocrazia, Laterza, 2003, p. 6.
[7] Ciò nel rispetto del principio di “tutela delle minoranze politiche”, ovvero della tutela delle condizioni affinché le minoranze politiche restino vitali come “alternative di potere”, in grado cioè di realizzare il ricambio alla guida del governo, che è aspetto che contribuisce alla finalità democratico-costituzionale della “limitazione del potere” e che perciò definisce un aspetto essenziale della democrazia moderna.
[8] Una situazione di questo genere può anche essere quella in cui il “sostegno diffuso” al sistema democratico è molto scarso, ossia quando la partecipazione al voto è molto bassa. Infatti, in simili circostanze può acquistare salienza una questione dirimente e però sfuggente: cosa significa “sostegno diffuso scarso”? Ma una situazione del genere, come si intuisce, è sfuggente. Cosa significa partecipazione elettorale “bassa”? Qual è la soglia percentuale al di sotto della quale la partecipazione al voto è “bassa” o “basso” è il numero assoluto di votanti? Quale è, cioè, la “soglia del sostegno diffuso” al di sotto di cui un sistema democratico può essere considerato privo di legittimazione, delegittimato? Ovviamente, non esiste una misura oggettiva, che per definizione tagli la testa al toro. Di fatto, il sistema politico assume che essa non sia bassa, fino a prova contraria. Come si intuisce, per la democrazia qui si apre un vero e proprio vaso di Pandora. Ma, in questa sede, non andiamo oltre.
[9] Vedi J. Schumpeter, Capitalismo, socialismo e democrazia, Etas, 1994, pp. 257 e 259 (i corsivi sono miei). Per un’analisi critica vedi G. Nevola, Il “fatto democratico”, in A. Millefiorini (a cura di), Democrazie in movimento, Mimesis, 2022, in corso di pubblicazione. Ma anche G. Nevola, Luci e ombre di una democrazia antifascista, Carocci, 2022.
[10] Ossia quel fenomeno che Pareto ebbe a chiamare la “circolazione delle élite” e a considerare come fattore indispensabile per ogni buon governo e per la salute di ogni società.
(Pubblicato su questo sito il 21 luglio 2022; uscito su Sinistrainrete il 23 luglio 2022)
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