È guerra tra Russia e Ucraina. Un conflitto che ormai da oltre un mese ha spodestato la pandemia, e i suoi enigmatici annessi e connessi, dal trono mediatico. Lo scontro armato che tanto fa discutere e indigna si inscrive in una lunga vicenda di crisi e tensioni nell’area di confine tra i due Paesi, che coinvolge territori contesi: un confine lungo il quale si è ispessita una nuova “cortina di ferro”, una linea di demarcazione ipersensibile tra Europa occidentale e americanofila, da una parte, ed Europa russofila o post pansovietica, dall’altra; e non solo. Siamo di fronte a un contenzioso che risale al “dopo 1989-1992”, ai tempi del disfacimento della Federazione Sovietica: tra rivendicazioni territoriali e sovranità nazionali, tra micro-etnonazionalismi, secessionismi e irredentismi, tra interessi geopolitici e geoeconomici mal accomodati non solo tra gli Stati-nazioni confinanti (Russia e Ucraina), ma che sono anche fonte di contrasto tra le pretese di stampo imperiale di Stati Uniti e di Russia (e la Cina, sulla riva del fiume). Porre la questione in termini di “buoni” contro “cattivi” ha una sua efficacia nella cultura politica e nella narrazione, un’efficacia che si fa forte della distinzione tra l’aggressore e l’aggredito. Tuttavia, questa lettura in termini morali finisce per semplificare e schematizzare troppo un conflitto innescato da una molteplicità di fattori, e da una visione contrapposta degli “interessi vitali” delle varie parti in gioco. In questo conflitto nessuno ha le “mani pulite” o la patente di innocenza, le responsabilità variano a seconda del variare del punto di riferimento storico e politico, del casus belli o dello snodo critico da cui si considera la vicenda. Come sempre, il manicheismo può mettere a posto le coscienze, e tuttavia ha un suo tipico costo, che non è saggio banalizzare: quello che impedisce di “riconoscere” che anche l’Altro (il Cattivo) – esattamente come noi (il Buono) – ritiene sempre di avere “God on its side”, come cantava Dylan ai tempi della guerra nel Vietnam.
Al di là delle specifiche dinamiche belliche, diplomatiche ed economiche di queste settimane, sulle quali sappiamo davvero ben poco, nonostante le professioni di verità e di informazione sbandierate un tanto al chilo anche dalle nostre parti, siamo di fronte ad un conflitto internazionale complicato e insidioso, dove sono in gioco equilibri di potere e interessi economici di portata internazionale. Se allontaniamo lo sguardo dalla cronaca giornaliera, quello a cui stiamo assistendo (e di fatto partecipando) è uno scontro che si inscrive in quel processo di rifacimento della politica internazionale (ma anche domestica) che caratterizza i nostri tempi, e al quale negli ultimi anni ho fatto spesso riferimento[1]. Lo scontro tra Russia e Ucraina è un riflesso della crisi dell’ordine internazionale liberale: un ennesimo capitolo delle tensioni trasformative del sistema internazionale. E tali tensioni non datano da oggi.
È Guerra tra Ucraina e Russia. Un conflitto che rappresenta un episodio della lunga crisi dell’ordine internazionale liberale, un episodio della fine del sogno (o dell’incubo) della “fine della storia”. La politica dei nostri giorni è in ebollizione. Perciò, non è un azzardo osservare che stiamo attraversando un processo (o una serie di processi) di rifacimento della politica. Quale possa essere l’approdo o punto di equilibrio di tali dinamiche storiche, come sempre, è cosa difficile a dirsi per i contemporanei: comprendere un’epoca e i suoi caratteri è cosa tipica da posteri. Ma è solo quando appare al suo tramonto che un’epoca mostra i suoi connotati salienti, come detta la lezione di Johan Huizinga, il grande storico olandese dell’Autunno del Medioevo. Così è per l’epoca dell’ordine internazionale liberale. Per il resto, a noi contemporanei, immersi nella cultura politica e nei paradigmi, nei linguaggi, negli schemi politici che dominano ai nostri tempi, rimane il compito di cogliere tendenze, di mettere in risalto snodi e movimenti, interrogativi aperti; ma anche il compito di impegnare lo sguardo verso direzioni non scontate o non acclamate, e suggerire coloriture del presente e (se si vuole) ipotesi sul corso della storia.
In questi anni, nel campo della politica internazionale abbiamo assistito a tendenze di arretramento, per quanto mai univoche o lineari, della scommessa del globalismo di ispirazione cosmopolitica neoliberale e a un ritorno del sovranismo statale e identitario-nazionale: tendenze che paiono rilanciare, all’insegna del multilateralismo, la più tradizionale logica dell’interesse (e dell’identità) nazionale, ovvero la logica dell’equilibrio delle potenze e delle interdipendenze tra gli attori statali presenti sullo scenario mondiale o sui diversi scacchieri macroregionali. Il cuore di questo rifacimento della politica internazionale rimanda a una profonda crisi del “sistema internazionale liberale” disegnato all’indomani della Seconda guerra mondiale, ma rimanda anche ai travagli degli Stati Uniti, baricentro storico di questo ordine.
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L’ordine internazionale liberale. Una favola?
La grande questione riproposta dalla cronaca dei fuochi di guerra in Ucraina è quella dell’“ordine internazionale liberale”: ossia, della tenuta o della fine dell’ordine internazionale liberale, di quel modello di sistema internazionale che è (era?) arrivato a mettere in discussione la persistenza storica del vecchio “modello Westfalia” e la sua pregnanza valoriale e interpretativa per il mondo uscito, prima, dalla Seconda guerra mondiale e, poi, dalla fine della Guerra fredda.
Il così detto “ordine internazionale liberale” nasce all’indomani della Seconda guerra mondiale, in risposta alle crisi, ai violenti travagli intranazionali e ai conflitti internazionali dell’Europa della prima metà del Novecento; nasce per volontà degli Americani e con il supporto degli Europei, con Roosevelt e Churchill in prima fila. E nasce sulla base di una duplice condivisione: di ideali (pace, libertà, prosperità e democrazia) e di interessi (economici, geopolitici e di sicurezza), ideali e interessi declinati in chiave occidentale. Quello liberale (forse sarebbe meglio dire “neoliberale”) è, quindi, un ordine strettamente legato a quell’“atlantismo” che via via, non a caso, ha generato e definito le sue istituzioni portanti: Nazioni Unite, Bretton Woods, Piano Marshall, Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale, NATO, GATT (poi sostituito dall’Organizzazione Mondiale del Commercio). Imperniato sulla riconosciuta leadership occidentale degli Stati Uniti, che in quest’ordine vedono alimentato il loro “potere strutturale”[2], da subito in tale modello di ordine internazionale anche l’Europa gode di una posizione centrale, in chiave anticomunista e antisovietica, al punto che il rafforzamento, la stabilità e l’integrazione dell’Europa diventano una vera e propria priorità per la politica internazionale americana: sia durante la Guerra fredda, sia nel dopo Guerra fredda.
Per la cultura politica dominante in Occidente e per le forze politiche “pro-sistema” che vi si rifanno, l’arrivo di Trump alla Casa Bianca (2017) ha rappresentato un cambiamento radicale (“anti-sistema”) per gli equilibri delle élite occidentali e per la politica estera e internazionale degli Stati Uniti; per ciò stesso, si è identificato in lui anche il principale protagonista della revisione dei principi e delle dinamiche del sistema internazionale. Anzi: Trump è stato diffusamente indicato come il principale responsabile della destabilizzazione di quell’ordine internazionale liberale che (si dice non senza una qualche ragione) per decenni aveva garantito (a una parte del mondo) pace, sicurezza, prosperità e talora democrazia, dopo gli sconvolgimenti di due guerre mondiali nella prima metà del Novecento. La grande stampa internazionale che esprime la cultura politica dominante in Occidente e, allo stesso tempo, contribuisce a definirla nei suoi contenuti e nel suo linguaggio, non ha avuto esitazioni nel definire Trump e la sua politica come un (o “il”) pericolo per l’ordine mondiale e liberale: «la politica di Trump, dettata da ignoranza e risentimento, rischia di portarci al disastro»[3].
D’altra parte, c’è anche stato qualche osservatore controcorrente[4] che è arrivato a rovesciare il quadro interpretativo dominante, sostenendo che è un’idea altamente discutibile quella secondo cui sia davvero mai esistito (e che tantomeno esista ai nostri tempi) un ordine internazionale e liberale, dato che quello nato nel 1945 non è stato (almeno fino alla fine della Guerra fredda) un ordine propriamente “internazionale” ma “bipolare” (USA-URSS), né è stato “liberale”, dato che a livello internazionale l’era davvero liberale nel commercio dei beni, nei flussi di capitale e nella libera circolazione di massa delle persone ha avuto inizio non prima degli anni ’90. Un corollario di questo rovesciamento del quadro interpretativo è che nella nuova era post Guerra fredda la globalizzazione, alla fine, si è rivelata molto vantaggiosa per un Paese come la Cina (non certo campione di liberal-democrazia), mentre agli Stati Uniti toccava di farsi carico di gran parte dei costi del così detto ordine internazionale liberale.
Da buon politologo della nostra era, e americano, per John Ikenberry[5] l’ordine internazionale liberale di ispirazione occidentale e guidato dagli Stati Uniti è invece esistito: un ordine internazionale caratterizzato da apertura globale dei mercati economici, istituzioni multilaterali, sicurezza cooperativa e solidarietà democratica; un ordine imperniato sui classici valori del “mondo libero” che, dopo il 1989, si è ampliato all’Europa dell’Est, all’Asia, all’America Latina, a tratti al Medio Oriente, attraverso processi di democratizzazione interna di molti Paesi e l’integrazione di un crescente numero di Paesi nell’economia mondiale del libero mercato. Il punto, anche secondo Ikenberry, è che questo ordine mondiale liberale è però, in ultimo, caduto in crisi e proprio per responsabilità di Trump. Ma qui vogliamo evitare di concentrarci troppo sull’ingombrante figura di Trump, anche se sarà opportuno ritornarci più avanti[6].
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L’ordine internazionale e la Guerra fredda. L’equilibrio bi-imperiale tra pax americana e pax sovietica, e la sua fine
Durante la Guerra fredda, l’ordine internazionale liberale, da un lato, con la sua “pax americana” ha assicurato e gestito lo sviluppo economico e la sicurezza del mondo occidentale; dall’altro, però, è convissuto con un bipolarismo geopolitico ed ideologico sovietico-americano, e con le tensioni intranazionali ed internazionali che tale bipolarismo portava con sé. In altre parole, nel loro insieme, quasi a strutturare un “modello bi-imperiale”, la “pax americana” in una parte del mondo e, a suo modo, la “pax sovietica” in un’altra parte del mondo, hanno garantito una certa stabilità internazionale, pur in presenza di crisi e conflitti, che tuttavia venivano tenuti sotto controllo e localizzati proprio all’insegna dell’“equilibrio del terrore” e della “pax sotto minaccia nucleare”. In questo quadro, la massima ambizione (di matrice kantiana) dell’ordine internazionale liberale, ovvero realizzare una sorta di omologazione dell’arena e delle dinamiche politiche internazionali a quelle della politica domestica, trovava manforte nella logica e nella paura dell’atomica. Da qui, lo scenario di un sistema internazionale dove l’anarchia internazionale legata alla sovranità degli Stati cede il passo a un ordine gerarchico di tipo domestico basato su una sovranità sovra-statale in salsa (bi)imperiale, dove la “politica di potenza” arretra rispetto alla “politica della legge”, una legge (beninteso) dettata dalla hobbesiana paura e insicurezza reciproca.
Durante la Guerra fredda la visione propriamente liberale (o neoliberale) dell’ordine internazionale si afferma, invece, limitatamente al perimetro del “mondo libero” occidentale, mentre a livello del sistema internazionale complessivo il cosmopolitismo liberale quanto meno convive con i compromessi di real politik tra “mondo libero” (o liberale) e “mondo totalitario” (o socialista) e la loro insicurezza reciproca. È solo con il crollo del Muro di Berlino e con il tracollo dell’Unione Sovietica che l’ambiziosa visione liberale occidentale arriva a estendersi al sistema internazionale nel suo complesso; e questo quando, dopo il tramonto del socialismo (reale e ideale), l’Est europeo e la Russia si muovono o sono indotti a muoversi verso i modelli occidentali di economia (proprietà privata e mercato) e di politica (pluralismo istituzionalizzato e liberaldemocrazia)[7]. A questa fase di “dopo Guerra fredda”, politologi e studiosi di geopolitica hanno consacrato il modello unipolare di sistema internazionale, caratterizzato dal prevalere dei principi etico-politici e dall’architettura istituzionale liberali-occidentali, e da un “quasi sconfinato” potere strutturale degli Stati Uniti[8]: con la riunificazione della Germania integrata in un accelerato sviluppo dell’Unione Europea[9], con il collasso dell’Unione Sovietica nel 1991, con la disgregazione della Jugoslavia non allineata e portabandiera della “terza via” internazionale, con la Cina che cerca accoglienza all’interno di un ordine a guida statunitense, l’America e l’Occidente si credono invincibili e dòmini del mondo. Siamo al teorema della “fine della storia” accreditato da Fukuyama. È in questo “nuovo” ordine internazionale liberale del dopo Guerra fredda che, ad esempio, con la sua politica di “riduzione” delle minacce internazionali e della guerra, l’Amministrazione Clinton si fa alfiere e promotrice di un’accelerazione dei processi di globalizzazione (anzitutto economici e tecno-comunicativi) e del cosmopolitismo (dei diritti umani), mentre l’Amministrazione Bush jr. lancia e pratica la dottrina dell’“esportazione della democrazia”: strategie le cui “conseguenze inattese” o “effetti perversi” daranno fiato al terrorismo internazionale di marca islamista, alle crisi migratorie e a scenari di “scontro di civiltà”.
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L’ordine internazionale tra interessi nazionali e valori universali
Per molti osservatori e analisti l’elezione di Trump alla presidenza degli Stati Uniti (2017), come accennato sopra, ha rappresentato un vero e proprio terremoto culturale e politico, sia per l’America che per il mondo. All’Amministrazione Trump è stata imputa la responsabilità di aver aggredito e, forse, seppellito anche l’ordine internazionale liberale. Qui merita di spendere due parole per un’analisi sobria e non pregiudizievole del ruolo della politica internazionale trumpiana nella crisi dell’ordine mondiale liberale. Anche se per molti aspetti permeata da una visione inedita e da uno stile rudimentale o scomposto, la politica internazionale della presidenza Trump, a ben considerare, è stata solo uno degli effetti della crisi dell’ordine politico ed economico liberale, e non tanto la causa; per meglio dire: la presidenza Trump ha rappresentato un sintomo, certo dirompente, del rifacimento in corso della politica internazionale.
L’architettura ideologica ed istituzionale dell’ordine liberale del dopoguerra era infatti cominciata a sgretolarsi ben prima della comparsa di Trump sulla scena mondiale, su entrambi i suoi pilastri, quello “fattuale” o del potere e quello “normativo” o dei valori:
a) sul piano “fattuale” e del potere, l’ordine liberale era da tempo in crisi a causa di una progressiva redistribuzione internazionale delle risorse economiche, di potere e di prestigio che si era avviata già all’indomani della fine della Guerra fredda e che vedeva progressivamente sempre più favorire i nuovi potenziali sfidanti degli Stati Uniti, nonché la fuoriuscita dal cono d’ombra degli interessi nazionali. La crisi dell’ordine liberale, inoltre, era dovuta alla sempre più difficile condivisione tra Stati Uniti e suoi alleati dei costi della gestione dell’ordine e delle crisi internazionali, non meno che a una declinante volontà da parte americana a sostenere il peso della propria egemonia;
b) sul piano “normativo” e dei valori, da tempo i valori “universalistici” dell’ordine internazionale liberale, tra alti e bassi, erano entrati in collisione con i valori proclamati nelle differenti aree regionali del mondo, caratterizzate da peculiarità politiche, economiche e culturali che stavano rendendo sempre più difficile per l’America e il suo ordine liberale l’imposizione o la condivisione dell’universo valoriale della politica internazionale coltivato dall’Occidente a partire dal Secondo dopoguerra.
Nel corso degli anni successivi al trionfo dell’ordine internazionale unipolare “post 1989”, viene a emergere e ad acuirsi una disconnessione tra l’“universalismo” dei valori liberali di tessitura occidentale (eccezion fatta per il “valore” dei mercati economici-finanziari aperti) e il “particolarismo” dei valori identitari (ovvero le diverse declinazioni dell’universalismo) in circolazione nelle differenti aree geoculturali e geoeconomiche del mondo[10]. Tutto ciò, alla fine, ha reso sempre meno possibile escludere da una gestione “efficace” dell’ordine internazionale “grandi potenze” (quali Russia e Cina) o “potenze regionali” (ad esempio, Turchia, Arabia Saudita, Indonesia, e persino Iran o Pakistan) non esattamente congruenti con l’universo identitario liberaldemocratico. Emblema del declino del “nuovo” ordine internazionale liberale affermatosi dopo il 1989 e dell’America (suo storico regista ed interprete) è stata la guerra contro l’Iraq condotta nel 2003 dall’Amministrazione Bush jr. in tandem con la Gran Bretagna di Blair, e con essa (prima) il fallimento dell’ingegneria politica e geopolitica perseguita a livello internazionale (“esportare le istituzioni liberaldemocratiche occidentali”), e (poi) l’inefficacia da parte dell’Amministrazione Obama a porre rimedio a tale fallimento.
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L’ordine internazionale liberale che arretra
A questo punto chiediamoci: dopo la Seconda guerra mondiale, l’ordine internazionale “liberale” ha davvero governato il sistema internazionale? All’epoca della Guerra fredda, in realtà, esso ha convissuto e co-governato in tandem con l’“ordine bipolare” USA-URSS. E poi: il “nuovo” ordine liberale del dopo Guerra fredda ha mai avuto tempo e modo per consolidarsi nel governare il sistema internazionale? Infine: è davvero fondato sostenere che il modello liberale di ordine internazionale abbia perduto la propria presa sotto i colpi della presidenza Trump? Si consideri che, ben prima dell’irruzione sulla scena politica internazionale del tycoon americano, la Russia di Putin era infatti già impegnata in una diffusa sfida al modello di sistema internazionale alimentato dagli Stati Uniti e dai suoi alleati occidentali, introducendo frizioni tra l’Europa e gli Stati Uniti, e all’interno dell’Unione Europea (e persino della Nato), mentre i Paesi europei aumentavano sensibilmente i loro commerci (energia, ma non solo) e infittivano la loro rete di interessi finanziari con Mosca (e con Pechino). Negli anni, la Russia di Putin e dei suoi oligarchi rafforza la sua posizione strategica nella confinante area est-europea, che considera come il proprio “cortile di casa”, analogamente a come gli Stati Uniti considerano l’America del Sud. Allo stesso tempo, la Russia penetra nel Medioriente, sfruttando i fallimenti americani ed europei nella regione, e cerca un raccordo strategico con l’Iran o con la Turchia, come emerge, per fare un solo esempio, nello scacchiere critico siriano. Progressivamente, la Cina (già prima della presidenza Trump) di fatto abbandona la strategia dello sfruttamento dei benefici dell’ordine liberale americano-centrico, lavorando a un cambiamento degli equilibri del sistema internazionale, con l’obiettivo non tanto recondito di diventare essa stessa il nuovo centro dell’economia globale. E ancora: già prima della comparsa di Trump, buona parte degli Stati piccoli o periferici, nel contesto del rifacimento della politica internazionale sono diventati più che mai inclini a riorientare le loro posizioni alla luce del perseguimento dei loro interessi vitali, ridefinendo spesso quelle che ormai considerano costose e rischiose politiche di allineamento alle tradizionali potenze occidentali, ciò quando essi valutano che la loro lealtà verso l’ordine tradizionale procura vantaggi inferiori rispetto a quelli derivanti da un avvicinamento alle potenze sfidanti.
In un certo senso, ed entro certi limiti, l’ordine internazionale liberale ha operato come un “regime internazionale”, e cioè come «un insieme di principi, norme, regole e procedure decisionali, impliciti o espliciti, su cui tendono a convergere le aspettative degli attori in una data area delle relazioni internazionali», là dove «I principi sono credenze relative a fatti, rapporti causali e valori morali. Le norme sono standards di comportamento definiti in termini di diritti e doveri. Le regole sono specifiche prescrizioni o specifici divieti di tipo pratico. Le procedure decisionali sono prassi consolidate per prendere ed eseguire decisioni collettive»[11]. Nel momento in cui Trump cercava di realizzare la sua politica internazionale, la cogenza di “regime internazionale” del “nuovo” ordine internazionale liberale era già al tramonto. L’Amministrazione Trump, infatti, si è trovata a dover definire una linea strategica ormai obbligata a confrontarsi con un emergente e differente modello di ordine internazionale: un modello, questo, che vede una superpotenza globale (Stati Uniti) affiancata da due grandi potenze macroregionali (Russia e Cina)[12], ovvero un modello di ordine dove la superpotenza globale americana è sfidata da un nuovo asse sino-russo e dalle sue pretese egemoniche, oltre che da una varietà di potenze regionali medie o in ascesa negli equilibri internazionali. Ma Trump si è trovato anche a fare i conti con una seria crisi della stessa cultura politica dell’ordine liberale, che egli intercetta, interpreta e alimenta: quella cultura politica che gli Stati Uniti di Biden oggi vorrebbero riproporre attraverso una sorta di crociata del mondo liberaldemocratico a difesa dell’Ucraina aggredita e contro la Russia aggressore.
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Gli Stati Uniti e gli sfidanti: addio alla “fine della storia”?
Insediato alla Casa Bianca, Trump deve quindi cimentarsi con una crisi di quell’ordine internazionale liberale costruito sull’ottimismo occidentale all’indomani del 1989, e che, all’insegna della “fine della storia”, consegnava il mondo all’ordine (neo)liberale democratico e dei mercati aperti ma regolati dalle istituzioni transnazionali approntate a partire dal Secondo dopoguerra dall’Occidente americano e dalle élite globaliste.
Le trasformazioni, le dinamiche e le tensioni innescate nel sistema internazionale dalla presenza di una varietà di “sfidanti maggiori” sia dell’ordine internazionale sia del primato americano, e attivi nei diversi scacchieri strategici, costituiscono lo sfondo sul quale si colloca l’attuale scontro regionale in e attorno all’Ucraina: lo scacchiere mediorientale, lo scacchiere indo-pacifico, lo scacchiere europeo, lo scacchiere dei “confini mobili” definito dalle priorità geopolitiche, geoeconomiche e geomilitari della Nato. Negli ultimi venti anni, in questi quadranti le “potenze revisioniste” (Cina e Russia), gli “Stati-canaglia” (Iran e Corea del Nord), e le più importanti reti terroristiche (ISIS e al-Qaeda) hanno cercato di limitare la proiezione del potere americano, di contrastarne gli interessi e, perciò stesso, di scuotere gli equilibri dello status quo ante e la stessa cultura politica e strategica definiti dal regime internazionale liberale.
Del resto, Cina e Russia non hanno mai creduto davvero alla benevolenza dell’egemonia americana e alle virtù universali dell’ordine internazionale liberale, o non le hanno mai accettate come Tavole di Mosè valide per tutto il mondo, senza pregiudizi e riserve mentali. Altre “parti del mondo” tendono a vedere negli Stati Uniti e nel suo ordine globalizzato una (storica) “arroganza morale” che ai tempi di Trump si era spogliata dell’ipocrisia idealista che, invece, con Biden alla Casa Bianca torna a pretendere di nascondere tanto gli interessi geopolitici ed economici partigiani degli Stati Uniti e dell’Europa, quanto il “volto demoniaco del potere” che in essi si annida e che l’idealismo dei valori universali vorrebbe invece sconfessare. Ma anche celare il lato inconfessabile del potere è una pratica classica della legittimazione del potere. Gradite o meno che siano tale pratica e tale legittimazione.
Già nel corso della campagna elettorale per la presidenza e poi dalla Casa Bianca, Trump aveva bocciato la politica internazionale americana degli anni del doppio mandato di Barak Obama, considerandola ipocrita e responsabile di aver fatto proliferare le sfide nei confronti degli interessi e dei valori americani da parte di attori statali e non statali in ogni quadrante geopolitico del globo. Per porre rimedio al sostanziale declino in cui gli USA sono progressivamente scivolati, l’Amministrazione repubblicana ritiene allora allora necessario introdurre elementi di discontinuità nella grand strategy americana. Tra questi, la ridefinizione delle priorità strategiche di Washington, dei rapporti degli Stati Uniti con alcuni tra i più importanti attori internazionali e nei quadranti geopolitici regionali dove sono in gioco gli interessi nazionali americani.
Il principale documento che ha delineato la strategia internazionale della presidenza Trump[13] presentava una duplice anima. La prima esprimeva una visione più “continuista” e convenzionale della politica internazionale e del ruolo degli Stati Uniti. Ad esempio, affermava che gli Stati Uniti dovevano affrontare minacce provenienti da diversi attori in azione nei vari contesti regionali e che questa situazione li costringeva a una diversificazione crescente e sempre più costosa degli impegni, e ciò di fronte alle pretese di potere globale di Cina e Russia e al loro raccordarsi con potenze regionali come Iran e Corea del Nord. In questa situazione ormai restava poca traccia del “nuovo” ordine internazionale liberale che all’indomani della caduta del Muro di Berlino pareva lanciato alla conquista del mondo. La seconda anima del documento strategico trumpiano muoveva invece in una direzione più “discontinuista” e meno convenzionale: prendeva apertamente le distanze dalla retorica e dalla cultura politica liberali del dopo Guerra fredda, e dalla stessa Amministrazione Obama, tutte centrate sull’idea dell’“interdipendenza complessa” (attorno alla quale si ritiene che ruotino il mercato globale e le democrazie nel mondo), nonché sull’idea di un crescente potere nel sistema internazionale acquisito dagli attori non-statali, internazionali o transnazionali (organizzazioni economiche e finanziarie, pubbliche e private; comunità epistemiche; circuiti mass-mediatici; gruppi terroristici o di stampo mafioso). È sullo sfondo di questa diagnosi di crisi dell’ordine internazionale liberale che l’Amministrazione Trump ha cercato di operare di fronte ai nuovi equilibri di potere nel sistema internazionale, e con ciò di ridisegnare gli interessi dell’America e il suo ruolo nel mondo.
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Sulla guerra in Ucraina, e sulla Russia di Putin
In questo quadro complessivo, sul versante europeo l’Ucraina occupa un posto speciale: nei travagli del sistema internazionale; nei propositi dei custodi e dei nostalgici dell’ordine liberale occidentale in crisi e dei tradizionali “signori della globalizzazione”; ma anche nella visione storico-strategica della Russia e del suo intendimento di ripristinare o evitare di perdere del tutto il suo status di grande potenza dell’ordine internazionale.
Da quando è alla guida del suo Paese, Putin è ispirato dall’idea secondo cui la Russia sia una grande potenza, con respiro e retaggio imperiale, e forse è anche a questo che deve il suo persistente successo popolare in patria. Perciò il crollo dell’URSS nel 1991 è considerato come una catastrofe geopolitica internazionale e non solo “nazionale”. Egli vede l’ordine mondiale post Guerra fredda non già come un ordine sostanzialmente unipolare che riflette la “fine della storia”, bensì come un ordine multipolare in continuo divenire, immerso nel pieno svolgimento della storia e che richiede una presenza attiva da parte della Federazione Russa. La sua politica internazionale è consapevole del fatto che la Russia, per sopravvivere con un suo ruolo di potenza e non essere emarginata nell’ordine globalizzato, ha bisogno di essere riconosciuta come partner di pari dignità e legittimazione internazionali. Una volta superati lo choc del crollo dell’URSS e la minaccia di una sua totale disintegrazione (“il fantasma dell’ex Jugoslavia”), la Russia di Putin, da un lato, protegge e reclama i suoi interessi e valori nazionali, dall’altro, punta a definire e mantenere una posizione di primo piano nell’economia globalizzata, esattamente come ogni potenza grande, media o piccola che opera a livello internazionale. Da qui la sua ferma condanna e la reazione alla “rivoluzione ucraina” del 2014 (la cosiddetta Euromaidan): in quell’Ucraina già in forte fibrillazione almeno dai tempi della “rivoluzione arancione” (2004). E da qui l’intervento e l’annessione russi della Crimea.
Quest’ultimo atto segna una linea di cesura nei rapporti degli Stati Uniti, dell’UE e dell’Europa con la Russia. Mentre per USA e UE si tratta di un atto contro la sovranità degli Stati e dell’Ucraina nella fattispecie, per la Russia si tratta invece di un atto di difesa di un interesse legittimo, un atto diventato inevitabile e ritenuto non più procrastinabile. Sopportate e da sempre mal digerite, l’espansione a est dell’UE e, soprattutto, quella della Nato, per motivi e nel quadro sopra sottolineati, Putin non può lasciare correre senza colpo ferire anche la destabilizzazione che tali espansioni provocano in un’“Ucraina amica”, confinante e in parte popolata da russofoni e russofili. Il recente attacco militare di Mosca a Kiev trova la sua ratio in questo capitolo del processo di rifacimento della politica internazionale che si è aperto nell’ultimo ventennio. Con la Cina, al momento sorniona sullo sfondo, che fa sentire tutto il suo peso.
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Morale della favola
La verità era uno specchio caduto dalle mani di Dio e andato in frantumi. Ognuno ne raccolse un frammento e specchiandovisi credette di avere tra le mani lo specchio (Gialad ad-Din Rumi)[14]
Morale della favola: esistono forme di aggressione che fanno uso dell’hard power (forza militare), ma anche forme che fanno uso del soft power (forza economica e ideologica). La vicenda di queste settimane va riletta in questa chiave, almeno se vogliamo capire perché diavolo nel mondo capitano certe cose e come muoversi per limitarle o scongiurarle. Certo è più facile risolvere il tutto identificando in Putin un pazzo, un animale, un macellaio, il male assoluto. Beate anime belle. Beato Biden, capo di uno Stato che per decenni ha disfatto, fatto e rifatto Stati e regimi, culture ed economie in giro per il mondo, con il suo Dio dalla sua parte, beninteso. Ma anche Putin ha il suo Dio dalla sua parte.
Senza dubbio, i morti lacerati e le tragiche scene di violenza dei teatri di guerra fanno impressione e mobilitano il senso morale e i sentimenti umani (peraltro, detto per inciso, come i morti di stenti, di malnutrizione o di guerre “civili” sparsi in molti angoli del mondo e che non arrivano sulle prime pagine dei media). Ma reagire solo a questo non basta, e di certo non aiuta a porre rimedio. Dopotutto, come insegna la “diplomazia della violenza”[15], quando ci si trova in un conflitto è necessario continuare a comunicare, anche tra nemici, e non sempre le parole sono i soli strumenti con cui i soggetti comunicano: l’obiettivo comune, persino in questi casi, è quello di capirsi e di trovare punti di incontro anche quando le uova sono rotte. Lo capiranno le classi dirigenti oggi coinvolte? E, soprattutto, lo capiranno le opinioni pubbliche e i mass media, che spesso parlano senza sapere cosa esattamente sta accadendo e senza capire né la natura della “frittata”, né il difficile lavoro necessario per evitare che macerie si aggiungano a macerie, distruzioni a distruzioni? Non sto perorando l’appeasement per l’appeasement. Sto semplicemente dicendo che in tali interrogativi sta “il tremendamente difficile” di una guerra, quale quella in Ucraina, che: 1) è essenzialmente “coercitiva” ed esprime (anche) una “lotta per il riconoscimento”; 2) non è una pura guerra di conquista; 3) è una guerra che ha come convitato di pietra la crisi dell’ordine internazionale liberale, quel Giano bifronte dei nostri tempi. Vedere nella Russia uno “Stato canaglia” è, per così dire, frutto di un difetto della vista storica e di uno sguardo azzardato sul presente. Non voler capire tutto questo e quanto il riconoscimento sia pregnante nelle dinamiche della politica come della vita, non porta acqua a nessun ordine internazionale, e tanto meno a quello liberale. Il linguaggio e le scelte emotive occidentali, americani ed europei tradiscono un nervosismo politico che preoccupa. La moralità della guerra è faccenda sempre molto complicata[16]. Per tutti.
NOTE
[1] Per trattare tali processi di rifacimento della politica, in altri articoli presenti in questo sito ho fatto ricorso al termine “campo”, con un significato convergente con il concetto elaborato da Pierre Bourdieu. Vedi anche: G. Nevola, Luci e ombre di una democrazia antifascista, Carocci, Roma, 2022; Id., Il “fatto democratico”, in A. Millefiorini (a cura di), Democrazie in movimento, Mimesis, Milano, 2022 (in corso di pubblicazione).
[2] Cfr. S. Strange, Chi governa l’economia mondiale?, il Mulino, Bologna, 1998; G. Nevola, Conflitto e coercizione, Bologna, il Mulino, 1994.
[3] Financial Times, 3 luglio 2018.
[4] Si veda N. Ferguson, The Myth of the Liberal international Order, in “Global Times”, 11 gennaio 2018
[5] J. Ikenberry, The End of Liberal International Order?, in “International Affairs”, 1,2018, p.7.
[6] Ad esempio, in un saggio pur ottimista sull’internazionalismo liberale, l’ambasciatore Guido Lenzi, qualche anno fa, pure annotava: «un mondo è svanito ma quello che va affermandosi non è chiaramente riconoscibile. Una vera e propria alterazione genetica è in corso». Sono parole che risalgono a quando della figura di Trump presidente degli Stati Uniti e protagonista della politica internazionale non c’era nemmeno l’ombra. G. Lenzi, Internazionalismo liberale, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2014, p. 10.
[7] Cfr. G. Nevola, L’Occidente dopo la Rivoluzione russa e il disincanto democratico, in G. Natalizia (a cura di), La Russia e l’Occidente, Vita e Pensiero, Milano, 2018.
[8] Il successo della guerra contro l’Iraq di Saddam Hussein invasore del Kuwait (1990), guerra voluta dal Presidente americano Bush sr. e acconsentita da URSS e Cina, all’epoca sembrò la pietra angolare del “nuovo” ordine internazionale del dopo Guerra fredda.
[9] Cfr. G. Nevola, Democrazia, Costituzione, Identità. Prospettive e limiti dell’integrazione europea, De Agostini, Novara, 2007.
[10] Sulla dialettica tra universalismo e particolarismo e la ricerca di un “universalismo particolaristico” si veda M. Walzer, Due specie di universalismo, in “MicroMega”, 1, 1991.
[11] S. D. Krasner, International Regimes, Cornell University Press, Ithaca (N.Y.), 1983, p. 2.
[12] È il cosiddetto modello del “1+2”: cfr. B. Buzan, Il gioco delle potenze. La politica mondiale nel XXI secolo, Università Bocconi, Milano, 2006.
[13] Cfr. White House, US National Security Strategy, Washington (DC), 2017.
[14] Poeta e teologo persiano del XIII secolo.
[15] Vedi G. Nevola, Conflitto e coercizione, cit.
[16] Cfr. G. Nevola, Quale morale per la guerra, in “il Mulino, 3, 1988; Id., Articolo 31 (della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani), in E. Bertò, M. Marcantoni (a cura di), 30 voci per 30 diritti, Fondazione del Museo Storico del Trentino, Trento, 2020.
Pubblicato su questo sito il 22 aprile 2022. Pubblicato, in versione leggermente diversa, in “Sinistrainrete.info”, 11 maggio 2022.