No democracy without politics. Altrimenti lo spettro orwelliano, in abito democratico, s’intende.
Ben pochi oggi sarebbero disposti a sacrificare le loro libertà per il bene della società. Nella “società liquida” dell’individualizzazione, osserva Bauman, «non è la libertà individuale che deve legittimarsi per la sua utilità sociale, ma è la società che deve legittimarsi in termini di servizio reso alla libertà del singolo». Il “bene comune”, insomma, non va per la maggiore. Sotto il regno del Covid, questa asimmetria tra libertà individuale e bene comune pare essersi eclissata, a favore del bene comune “salute e vita”, ma in realtà ciò che mobilita il grosso della cittadinanza a favore del vaccino è la paura, il legittimo, sano e naturale istinto “particulare” a difendere se stessi e i propri cari dalla minaccia virale: la paura fa 90, ma il bene comune non vive di solo di paura. Se allarghiamo lo sguardo, l’individualismo libertario o egoistico continua, a scapito del bene comune, a innervare i modelli di comportamento e gli orientamenti valoriali e ideologici del diffuso micro-attivismo nella sfera privata, ma anche dell’allontanamento dalla sfera pubblica e politica. Stando al Rapporto Istat 2020, ad esempio, la partecipazione politica “indiretta” è molto scarsa, e in calo rispetto al 2014: nel 2019 sono appena il 33% le persone che parlano di politica almeno una volta a settimana (-10%), e sono poco più del 50% quanti si informano di politica almeno una volta a settimana (-10%); solo un 15% ascolta dibattiti politici (-6.5%); il 65% non si informa per puro disinteresse. Ma più impressionante è l’esiguità dei coinvolti nelle forme di partecipazione politica “diretta”: il 4.1% assiste a comizi, il 3.9% partecipa a cortei, lo 0.8% svolge attività gratuita per un partito, l’1.7% lo finanzia.
D’altra parte, però, da decenni i sondaggi rilevano un diffuso apprezzamento della democrazia. Qui, indubbiamente, pesa il “conformismo democratico”, perché “democrazia” è parola magica, una sorta di re Mida: «La democrazia, questa parola fatata, questa parola alluminata, questo lampadario di parola», nel verbo di Peppino di Filippo, arguto politologo del Novecento. Eppure, tutta questa luce lascia molte ombre. In Italia (sondaggio Demos, 2000), meno della metà dei cittadini (46%) si dice soddisfatta del funzionamento della democrazia: una percentuale modesta, eppure superiore a quella spesso registrata nell’ultimo decennio (28% nel 2013; 36% nel 2018). Ma ancora più forti sono le ombre quando alla condivisione dell’affermazione “la democrazia è preferibile a qualsiasi altra forma di governo” non arride un trionfo e si ferma al 71%, mentre il 19% condivide che “in alcune circostanze un regime autoritario può essere preferibile” e il 10% non vede molta differenza tra democratico e autoritario. Ma il dato politico che più fa riflettere è ancora un altro: quasi la metà dei sondati (48%) ritiene che “la democrazia può funzionare anche senza partiti” (ben il 62% nella fascia d’età 30-44 anni; solo i più anziani, over 65, sostengono chiaramente il contrario: il 69% afferma che “non ci può essere democrazia senza partiti). I dati sui partiti non stupiscono: a torto (di rado) o a ragione (spesso), i partiti sono epicentro e parafulmine della crisi della politica e del suo rigetto. Infine, non si scordi la crescita dell’astensionismo dal voto.
Nel loro insieme, tali tendenze formano ciò che in un libro di anni fa ho chiamato “civismo adattivo”: una cultura non priva di senso democratico, ma che, soprattutto, si adatta “a come vanno le cose”. La maggior parte degli Italiani, tutto sommato, dopo decenni di Repubblica, ha assimilato i principi civici della cittadinanza democratica; però li esprime con scarso slancio e con incerta convinzione. Oscillando tra pragmatismo e conformismo, opportunismo e retorica, questo civismo adattivo lascia aperta una questione importante: quale la qualità e quanto buona è la salute di una democrazia che poggia su una simile cultura? Nella storia, l’avventura della libertà, dell’eguaglianza e della giustizia sociale è stata accompagnata da mobilitazioni e proteste collettive forti e durevoli nel tempo; ha dato i suoi frutti grazie a conflitti sociali e politici guidati da contro-élite che hanno messo in discussione l’ordine sociale e costituzionale costituito e le sue autorità. È così che si è sviluppata la politica democratica: si pensi ai movimenti popolani di Atene e Roma classiche, a quelli dei comuni medievali, alle rivoluzioni inglesi del XVII secolo o a quella francese e americana; si pensi al movimento operaio durante il trionfo del capitalismo industriale. Il fatto che il conflitto sociale, sindacale e politico sia da tempo espulso dal “campo democratico” e delegittimato nella cultura politica dominante non è segno di maturità democratica, ma di appannamento dell’idea e della pratica democratica. L’incapacità collettiva a mobilitarsi per cause di ampio raggio e antagoniste non è surrogabile dalle mobilitazioni odierne, in fin dei conti adattive e in linea con l’ordine neoliberale, che spesso si rifugiano nella rivendicazione di diritti civili da parte di minoranze identitarie settoriali dal sapore, per così dire, corporativo, incorniciate nei diritti universali e dal politicamente corretto.
Può il civismo adattivo dei nostri tempi essere una risorsa per un sistema di cittadinanza democratica emancipativo, per ampie fasce sociali a vario titolo sotto-privilegiate, periferiche, che rimangono escluse o inchiodate dalle aspettative frustrate in società peraltro nutrite da aspettative crescenti alacremente sponsorizzate da media e pubblicità? Il disinteresse nei confronti della politica potrebbe essere letto, ottimisticamente, come a-politicismo democratico (come suggerisce una tesi del sociologo Schelsky o, a suo modo, anche il politologo Lipset). Nondimeno, una democrazia depoliticizzata può produrre effetti perversi. Lo storico Mosse ha attribuito un importante ruolo agli orientamenti sociali e ideologici nella Germania pre-nazista: li ha definiti “apolitici”, ma non banalizzati. All’epoca la “politica tradizionale” era vista come aliena, e respinta; proprio come oggi, partiti e governo rappresentativo erano visti come cose artificiose, lontane dal sentire e dalle priorità diffusi tra la gente comune. Ma tali orientamenti erano “apolitici” solo perché sconfessavano la politica tradizionale e rinsecchita dell’epoca; ad avanzare, infatti, era una “nuova politica”, con le sue nuove domande e bisogni. Da qui una rivoluzione che spazzò via il vecchio Reich, il mondo e la vecchia politica liberali, che mise fine al grigio parlamentarismo. Che insediò un uomo solo al comando. Ma la partita e l’esito avrebbero potuto essere diversi se i partiti socialisti, comunisti e del centro-cristiano avessero colto e interpretato essi, con le loro risposte, i segni del tempo. L’“a-politicismo” è sempre solo apparente, in realtà ogni volta cela e ridefinisce il politicamente rilevante.
La “neutralizzazione della politica” può sortire effetti nocivi per la democrazia e i suoi valori, questa è la lezione. La politica quando perde la sua identità di fronte ai media o al mondo degli affari, quando si mescola con la magistratura o si svende alle élite del potere, fa del male alla democrazia, perché la svuota dei suoi contenuti e la dirotta su altre strade. Quella di un “mondo senza politica” e senza conflitto è una cattiva illusione. Un’illusione che produce una politica di piccolo cabotaggio, impegnata in corte manovre di immagine, dove i partiti rincorrono un consenso e un potere effimeri che li lascia deboli di fronte alle élites del potere. Tutto ciò riduce all’osso le buone ragioni della democrazia. Votarsi a una democrazia senza politica e senza le buone ragioni del conflitto significa ridurre la politica all’amministrazione TINA. Questo il destino di una democrazia, a seconda dei casi, spoliticizzata, apolitica o impolitica. Le lenti di Orwell rendono pensoso lo sguardo sul nostro “lampadario di democrazia”.
(Pubblicato su questo sito il 19 luglio 2021; uscito, in versioni leggermente diverse e con altri titoli, su “Alto Adige” del 1° agosto 2021; “l’Adige”, 3 agosto 2021)
Come sempre il tema è molto appassionante ed esposto chiaramente. La democrazia rischia costantemente di rimanere vuoto involucro al cui interno non c’è niente (quando va bene).
Ho dei dubbi sui legami fra spoliticizzazione, disaffezione ai partiti e necessità del conflitto.
Per esempio, secondo Simone Weil, la vera essenza di un partito sarebbe totalitaria e antidemocratica. Lo scopo con cui nasce è governare per realizzare il suo programma, i concorrenti nell’agone politico sarebbero nient’altro che un intralcio a questo obiettivo che va accettato a malincuore. C’è da aggiungere che, almeno dalla seconda Repubblica in poi, tali programmi coincidono molto spesso in maniera assai inquietante con gli interessi personali di singoli quadri e dirigenti. Tali interessi vanno a mio parere a contrapporsi alla vera politica che, come è accaduto nei casi storici citati dal professore, viene fatta molto più spesso nelle piazze in maniera diretta e senza intermediari. Altra mia perplessità è sulla necessità del “conflitto” quando realtà molto interessanti sempre più stanno sviluppando il metodo del consenso e altri sistemi di democrazia deliberativa che prevedono sì un confronto e un dialogo, ma mediato dall’empatia e guidato dalla consapevolezza della necessità di trovare delle soluzioni win win che possano migliorare la qualità della vita dell’intera comunità