(Pubblicato su questo sito il 14 febbraio 2021*)
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Come e perché siamo arrivati al governo Draghi? Con il sostegno persino di M5s e Lega, Pd e FI, e tutti gli altri insieme (meno Fratelli d’Italia, ma più tanti “tecnici”). Un governo di emergenza nazionale. C’è il Covid, ci sono i finanziamenti europei del Recovery Fund, e poi si dovrà scegliere chi dovrà salire al sommo colle, al Quirinale. Anche se l’attuale parlamento è alquanto dis-rappresentativo rispetto agli orientamenti del “Paese reale”, no, le elezioni no. Ma non perdiamo il filo: come e perché siamo arrivati al governo Draghi? Netta la domanda, molte e sfrangiate le risposte che si danno. E in effetti il quesito non è banale, e lo si può considerare da una varietà di punti di vista e inseguendo i motivi dei diversi soggetti in campo. In questo articolo la risposta è implicita. Evita scrupolosamente di discettare sul “fenomeno Draghi”, almeno così sembra nelle parole, sulla superficie. Volge invece lo sguardo giusto all'”altro giorno”, a una stagione che ci appare lontana un secolo, o due, ma che è solo l’altra faccia dell’oggi. Parleremo del conflitto di rifacimento della politica a colpi di Europa, economia, democrazia liberale, “populismo”, postdemocrazia. Ovvero di politica pro-sistema versus politica anti-sistema. Di quando la democrazia è la posta in gioco. Ad esempio, torniamo al 2018… A Bruxelles si fanno i conti. Economici, ma politici; l’Europa, rumorosamente, boccia la legge di bilancio del governo M5s/Lega…
Nel tradizionale messaggio di fine anno del 2018, tra i più “politici” della storia italiana recente, il Presidente della Repubblica Mattarella ha voluto attrarre l’attenzione dei cittadini sulla manovra finanziaria del governo italiano dell’epoca, il Conte sorretto dalla maggioranza M5s/Lega: una manovra di bilancio che il Parlamento, di fatto senza averla potuta discutere (cosa che non va mai bene!), aveva approvato il giorno prima, dopo estenuanti confronti con la Commissione Europea: «Ieri sera ho promulgato la legge di bilancio nei termini utili a evitare l’esercizio provvisorio. Avere scongiurato la apertura di una procedura di infrazione da parte dell’Unione Europea per il mancato rispetto di norme liberamente sottoscritte è un elemento che rafforza la fiducia e conferisce stabilità», così Mattarella. Parole composte, secche, ineccepibili da più punti di vista, che però sollecitano ulteriori riflessioni sul significato del braccio di ferro tra governo italiano e Bruxelles.
L’Italia ha evitato la procedura di infrazione. Il governo Conte, la Commissione Juncker, le cancellerie europee, i mercati, le banche e le istituzioni internazionali hanno preferito il compromesso. Benché lontane dalla ribalta, le tensioni però restano, il conflitto può riesplodere in qualunque momento. Perché? Non perché Roma puntava sul 2.4 di deficit e ha ottenuto il 2.04, non perché Bruxelles pretendeva l’1.6 e si è ritrovata con il 2.04. Queste sono le letture ufficiali, quelle che si trovano sui giornali. è ciò risulta sul palcoscenico della “politica visibile” (per usare un concetto riesumato in Italia tanti anni fa dal sociologo Pizzorno). A pesare sull’aspro confronto tra Bruxelles e Roma non sono tanto i “numeri economici”. Questi erano a loro modo rilevanti e problematici nella crisi greca del 2015, quando di fronte al debito pubblico di Atene il governo Tsipras, liberamente formatosi dopo le elezioni, cercò di intraprendere misure che allarmarono i principali creditori internazionali (anzitutto le banche francesi e tedesche), dato che il governo greco ventilava addirittura ipotesi di azzeramento del debito. Nel caso italiano, i numeri che hanno spinto Bruxelles a una dura “chiusura” europea sulla manovra finanziaria sono, semmai, “numeri politici”.
Con l’insediamento del governo Conte nel giugno del 2018, frutto del singolare accordo tra M5S e Lega, l’Italia ha consacrato il successo di una “politica anti-sistema”. La politica anti-sistema qualifica una parte di quel “neo-populismo” che, a ondate, pervade un po’ tutte le forze politiche nelle liberaldemocrazie del nostro tempo (incluse le forze pro-sistema e tradizionalmente di governo). Andando al governo in Italia, nel 2018 la politica anti-sistema arriva al cuore dell’Europa. Siamo di fronte al primo governo dell’Europa occidentale in mano a partiti che, per motivi anche differenti tra loro, si collocano fuori dalla politica pro-sistema, partiti che han primeggiato alle elezioni del 4 marzo sostanzialmente grazie all’offerta di una politica anti-sistema, che raccoglie la protesta multicolore delle periferie del sistema o dagli esclusi dal “centro”: una protesta contro le politiche, i poteri e l’establishment di governo, una protesta che si è avvalsa dello strumento principe cantato nelle odi alla democrazia, il voto popolare.
Torniamo al braccio di ferro tra Bruxelles e Roma tenendo presente la cornice politica appena abbozzata. Se l’UE avesse lasciato correre sulla manovra finanziaria italiana, ciò avrebbe forse provocato problemi economici, o scalfito filosofia e contabilità finanziarie dell’economia neoliberale. Ma forse no. Di certo, però, quel lasciapassare avrebbe segnato un significativo punto a favore di forze che proclamano a viva voce un populismo anti-establishment e fortemente critico nei confronti dei poteri che orbitano attorno a Bruxelles. Il successo del “governo del cambiamento” italiano (così si è autodefinito il governo M5s/Lega) a quel punto avrebbe rafforzato le credenziali e il consenso della politica anti-sistema dentro e fuori dall’Italia; avrebbe indebolito le forze pro-sistema (di centro-destra e centro-sinistra) da tempo accomunate in una condivisione di fondo del modello neoliberale di società. Recepire la manovra finanziaria italiana sarebbe stata per Bruxelles una mossa politicamente sconveniente, anzi rischiosa: meglio alzare i toni e passare, agli occhi di molti cittadini, per “insensibili e cattivoni burocrati e tecnocrati”. Questo è quanto è apparso sul palcoscenico della “politica visibile”. Ma a Bruxelles, a suo modo, si fa politica. E la politica ci dice che siamo in una congiuntura delicata: nel pieno di un processo di rifacimento della politica. Nel maggio 2019 si va al voto per l’euro-parlamento. Le forze pro-sistema useranno tutti gli strumenti di cui dispongono (finanziari e mediatici) per tenere a freno i partiti che interpretano la politica anti-sistema, e che contesta la politica europea nel campo dell’economia, della finanza, delle migrazioni, dell’ambiente, del lavoro, del welfare.
La Commissione UE è oggi istituzione depositaria e garante di quel “consensus neoliberale” e di quella politica pro-sistema che da anni annaspa ed è in debito di ossigeno democratico. Con il voto di maggio si farà il punto sulla politica e le politiche presidiate da Bruxelles e che s’intrecciano con quelle nazionali. Nel bocciare pubblicamente l’originaria manovra finanziaria italiana, Bruxelles e le cancellerie europee non hanno guardato solo i numeri economici ma anche, e soprattutto, quelli politici. Non poteva essere diversamente: anche l’economia è politica.
Da tempo in Europa circolano molti sondaggi: anni alcuni favorevoli per le forze politiche pro-sistema, altri meno. Quelli sfavorevoli, mentre si avvicina il voto per il Parlamento europeo, creano molte fibrillazioni a Bruxelles: stimano che alle elezioni di maggio le tre principali famiglie politiche europee pro-sistema (Popolari, Socialisti, Liberali) faranno fatica a superare i 350 seggi sui 705 complessivi. In uno scenario del genere, formare una maggioranza “tradizionale” pro-sistema potrebbe diventare difficile. Ma c’è di più. Anche nel caso in cui l’impresa riuscisse, magari cooptando i Verdi, le conseguenze politiche non sarebbero rosee nella lotta contro la politica anti-sistema. Ma soprattutto il “muro” contro i così detti populisti toglierebbe ossigeno alla vita della democrazia in Europa. Prenderebbe infatti consistenza un quadro politico dove la maggioranza pro-sistema risulterebbe dall’addizione di molti “singoli perdenti” (o relativamente perdenti). Insomma, per fronteggiare i “populisti in ascesa ma non abbastanza”, le tradizionali forze pro-sistema di centro-destra e centro-sinistra, un tempo tra loro alternative e capaci di esprimere volta a volta la maggioranza e l’opposizione, nonché il ricambio di governo, dovranno stare “tutte insieme”. La “maggioranza Ursula” (al di là del nome) è già più di un’ipotesi nelle teste di Bruxelles, ma nascerà dopo. Ciò che invece va sottolineato è che negli anni si è consolidato un quadro politico peculiare: il quale mostra che per trovare opzioni alternative e ricambio di governo, essenziali in democrazia, si deve guardare fuori da quel perimetro che le forze pro-sistema ritengono democratico, ossia allo spazio del populismo anti-sistema. Questo scenario segna un altro colpo alla politica fatta di destra vs. sinistra, poiché queste risultano sempre più convergere tra loro e le loro differenze si assottigliamo su molti versanti. Ma, soprattutto, in questo scenario la democrazia liberale definita e difesa dalle forze pro-sistema perde la dialettica del pluralismo e della scelta tra politiche, partiti e classi dirigenti tra loro alternative.
Il rifacimento della politica che serpeggia sotto gli occhi, avviatosi almeno da vent’anni, lascia intravedere una nuova fase della politica, con due varianti: 1) la prima, dove centro-destra e centro-sinistra pro-sistema se stanno assieme, in difesa della politica neoliberale, non offrono più le alternative politiche essenziali per il gioco democratico; 2) la seconda, dove se essi si dividono e contrappongono tra loro, a tutela della dialettica democratica, corrono il rischio di compromettere l’egemonia della politica neoliberale. Nel primo caso, le forze del populismo anti-sistema troverebbero ragion d’essere democratica in qualità di uniche alternative alle “grandi coalizioni” di destra-centro-sinistra (ecco i “governi Ursula); nel secondo caso, esse troverebbero maggiore spazio democratico per la loro politica postliberale (o post-neoliberale), con possibilità di alleanze postliberali a destra o a sinistra. Il rifacimento della politica, nel primo caso svuoterebbe di pregnanza politica lo schema destra-sinistra, nel secondo caso condurrebbe ad un rifacimento della distinzione politico-ideologica tra destra e sinistra, a fronte di quella tradizionale progressivamente assottigliatasi nel tempo.
Oggi la lotta politica si svolge lungo linee ideologiche, economiche e di ceto politico che dividono tra politica pro-sistema neoliberale (di destra, di centro e di sinistra) e politica anti-sistema postliberale (di destra, di centro e di sinistra) ispirata da idee, valori e interessi che guardano a una società postliberale. È questa la chiave, politica prima che economica, che ci spiega il braccio di ferro tra Commissione UE e governo giallo-verde, e il temporaneo compromesso del 2018. Si è trattato di una tregua. Ma la guerra politica non era finita. Siamo nel campo dei conflitti per il potere. E allora: quanto a risorse di potere, chi dispone di arsenali ottimi e abbondanti, utili anche a raccogliere voti quando ci saranno le elezioni? Vedremo. Intanto: i numeri e i vincoli dell’economia sono parte di questo gioco. Così come le stigmatizzazioni dell’avversario, gli spettri della catastrofe, i salvatori del Paese e il bene che si argina contro il male assoluto. That’s politics, baby. Whatever it takes, direbbe il nostro.
*Uscito in versione diversa e con altro titolo su “l’Adige” e l'”Alto Adige”, 12 gennaio 2019