(Pubblicato su questo sito il 31 ottobre 2020)
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Non sottovalutiamo i disordini “guerriglieschi” che da Napoli e Roma si sono irradiati in tutta Italia. Richiedono riflessioni e reazioni calibrate. Non sfiguriamoli con etichette di comodo e generalizzazioni scorrette, guidate da uno strabismo che porta in prima pagina negazionisti, estremisti di destra o sinistra, “antagonisti”, centri sociali, manovalanza della malavita più o meno organizzata, regia camorristica. Non confondiamo la parte con il tutto. Oltre la superficie visibile e subito codificabile della violenza che distrugge le vetrine del centro ma conquista la vetrina dell’attenzione collettiva, c’è altro. I gesti di vandalismo urbano, la rabbia infiammata, i locali frantumati e i negozi del centro saccheggiati sono la punta dell’iceberg: sotto c’è una società afflitta da un malessere diffuso, che è pericoloso e ingiusto governare solo a colpi di divieti, leggi emergenziali e polizia di Stato, e con una maggioranza parlamentare che non corrisponde più a quella nel “paese reale”.
Il governo Conte 2, una settimana dopo l’altra, inanellando decreti urgenti e Dpcm in serie, ha prolungato a dismisura lo “Stato di emergenza”: ha reso l’emergenza una “normalità” del governare, trasfigurato la normalità del vivere delle persone, il loro lavoro, i loro divertimenti, la cura degli affetti e delle relazioni; senza capire, inoltre, che il virus e la crisi non sono uguali per tutti. Ultimo: le misure di coprifuoco, che limitano persino le più elementari libertà private e di libera circolazione delle persone. Ma i passi avanti nella lotta contro il virus sono ben pochi: in assenza di una lucida linea strategica, il governo, addobbato di innumerevoli comitati tecnico-scientifici, in preda ad un tiro alla fune con le Regioni sulle misure da adottare, si è perso in schizofrenici stop and go e in un vivere alla giornata, inchiodandosi ai precari numeri dell’altalena del contagio e intrappolandosi in quelli dell’economia. Duole dirlo, il governo si è destreggiato in un carosello di annunci, il premier è asceso a novella star di facebook, senza però dare forma a una visione su come riorganizzare il Paese in un mondo che il virus sta cambiando. Per fare un solo esempio, ma importante, il sistema scolastico sta reggendo, a fatica, in virtù della candida accettazione delle cose da parte dei ragazzi; in virtù dell’abnegazione, pazienza e capacità di adattamento e auto-organizzazione dei suoi professionisti, ai quali non va neppure un grazie, poiché l’opinione pubblica non è al corrente di come e in quali condizioni si continui a far lezione; di contro, lo Stato, ancora una volta, sta mostrando di non conosce la scuola reale ma solo quella sulle carte. Lo stesso vale per il sistema sanitario.
Quanto può durare? Quanto possono tenere i sistemi vitali di una società? Quanto può reggere l’economia, anzitutto le piccole imprese, il lavoro autonomo, bottegai e commercianti, il mondo del turismo? Quanto i lavoratori marginali, precari e senza tutele, tutti quelli che si arrabattano a “sbarcare il lunario” facendo i conti ogni giorno e non solo a fine mese? Quanto i giovani, a cui gli errori del presente distorcono il futuro?
Il quadro della crisi si sta complicando. Dopo 7 mesi, dopo l’ottimismo estivo, il virus non si è ritirato. Piuttosto, un secondo virus sta avanzando: la protesta e ribellione sociale contro coprifuoco e chiusure, contro la gestione politica, da parte di governo e Regioni, della crisi pandemica, e di quella economica e sociale che marciano al suo fianco. Su queste colonne, lo scorso maggio adombrai il profilo di una nuova frattura sociale, culturale e politica, un conflitto tra Partito della Salute (PdS) e Partito dell’Economia (PdE); aggiungiamoci pure il Partito del Divertimento e della Socialità (PdDS) e il Partito delle Libertà (PdL), e ci siamo. Arriviamo alla crisi di oggi, una crisi che non si poteva chiedere a virologi ed epidemiologi di vedere, ma che non doveva cogliere impreparata la politica. La crisi è seria: sociale, culturale e politica, oggi è sprigionata dalla crisi virale biologica; ma da tempo gira latente nelle nostre democrazie. Attenzione, perché è “crisi di fiducia”. E le democrazie vivono di fiducia: quella sociale, del vivere quotidiano; e quella politica, che i cittadini danno a istituzioni, partiti, governi. E quanto a fiducia politica, non siamo messi bene. La fiducia dei cittadini verso la politica si basa sul principio che i governanti rappresentino i cittadini, e che i governi con le loro decisioni agiscano a vantaggio della cittadinanza, a tutela di interessi, benessere e preferenze collettive. Una democrazia diventa ombra di se stessa se tale fiducia viene meno. Questo è il vero rischio di oggi. Un rischio non riducibile agli episodi di piazza di Napoli e Roma subito propagatisi, dato che già nei mesi scorsi non erano mancate avvisaglie: magari caciarone e corporative, senz’altro meno clamorose e senza violenza (per tutti, la protesta dei Gilet Arancioni), e sbrigativamente liquidate come guittesche forse proprio per questo.
Ciò che sta percorrendo il Paese non è espressione della solita “anomalia (in)civile italiana”: in questi mesi, proteste contro la gestione della crisi pandemica e dei suoi risvolti sono esplose in tutto il mondo, dalle civili Berlino, Londra, Parigi a Zurigo, Madrid, Marsiglia o San Diego. Il fenomeno ha molte facce, vari i perché e i profili socio-politici di chi va in piazza a vociare o far casino; la protesta non dà voce solo a sfaccendati, estremisti o malavitosi. Il numero dei manifestanti è limitato, vero. Ma guardiamo la luna, non il dito: le manifestazioni contro la “politica del virus” non cadono in società democratiche in buona salute, perché non è affatto buona quella delle nostre “democrazie elettorali” quando un terzo (se va bene) o la metà dei cittadini non si reca alle urne. Questo 30-50% di astensionismo iterato nel tempo è un chiaro indice di scollamento tra cittadini e politica; suona come un deficit di fiducia nella politica, e più ancora nei confronti dei partiti con background governativo se aggiungiamo che negli ultimi 10-15 anni è cresciuta la quota di quei cittadini che alle urne sceglie partiti della politica “anti-sistema”.
L’”astensionismo strutturale” di questi anni è stato sottovalutato. Ma è un chiaro sintomo del fatto che troppi cittadini non hanno fiducia nella politica istituzionale. Qui troviamo il “basso continuo” del malessere democratico degli ultimi decenni. Torino o Palermo in piazza sono solo la febbre più alta. Ridurre questi “umori dentro la democrazia” a rigurgiti di estremismo di destra o sinistra, a negazionismo o illegalità, a problema di ordine pubblico o di pulizia ideologica, significa continuare a guardare il dito e a discutere del dito. Senza guardare la luna: la salute della democrazia contemporanea. Dal Viminale, il ministro Lamorgese fa sapere che ci sarà massima fermezza nei confronti dei violenti. E sia. Ma una democrazia in salute non si lascia impressionare da un cassonetto incendiato o da una vetrina presa a sassate. I cittadini non sono santi, sono cittadini. Stiamo giustificando le violenze di questi giorni? Non banalizziamo, per favore. Dalla politica ci aspettiamo una vista più lunga, più larga e più acuta su una società che è ammalata. Forse è chiedere troppo. Ma arruolare Ferragni & Fedez, come ha fatto il premier, mi dà da pensare. Gli influencer servono ad altro. Conte lo sa. Ciò mi dà da pensare ancora di più.
La stessa questione puo essere osservata anche da un’altra prospettiva. A mio modo di vedere, crisi della democrazia e crisi della sinistra politica non si possono separare. E la ragione di cio e molto semplice: la sinistra non e solo