(Pubblicato su questo sito il 9 luglio 2020 – uscito con altro titolo e in versione ridotta su L’Adige del 17 luglio 2020 e su Alto Adige del 20 luglio 2020)
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I
Era il 1750 quando col suo “Discours sur les sciences et les arts” Jean-Jacques Rousseau vince il concorso bandito dall’Accademia di Digione sul tema: “Se il progresso delle arti e delle scienze ha corrotto o purificato i costumi”, se cioè avesse o no reso gli uomini migliori e più felici. All’epoca non era quel prestigioso filosofo che nei secoli l’han portato a noi, tra appassionate acclamazioni, ferme contestazioni e meticolose letture critiche. E non era il Rousseau che, insinuatosi nella testa dei suoi maggiorenti e militanti, ha indotto il M5S a chiamare “Rousseau” la piattaforma social che funge da Bibbia, agorà e organo di propaganda politica di un movimento nato come di protesta, sviluppatosi come forza politica “anti-sistema” e che ora si dimena col diavolo nei nuovi panni di forza “pro-sistema”, volens o nolens, lacerato all’interno e paralizzato nell’azione di governo a cui è chiamato da due anni.
All’epoca Rousseau è uomo sconosciuto. Alle spalle ha una vita sfortunata e disordinata, da “marginale”, escluso dalla società che conta: un quarantenne senza arte né parte, che vicende personali han sbalestrato per mezza Europa; tira a campare con occupazioni occasionali, modeste e talora miserevoli; sprovvisto di un curriculum formativo e culturale degno di questo nome o quanto meno tipico delle persone colte del suo tempo. Era però un vorace lettore di libri, dove gli campeggiavano testi classici: un autodidatta, guidato da curiosità e sete di sapere, giusto a favore di se stesso, quasi a voler placare inquietudini personali e sugli uomini immersi nella storia e nella società. Da qualche anno si trovava a Parigi, dove le cose andavano un po’ meglio, tanto che era riuscito a entrare in contatto con alcuni dei disinvolti e battaglieri philosophes che agitavano la scena parigina. E un giorno, verso la fine del 1749, per caso legge su “Mercure de France” (una rivista ancora in vita, assorbita dall’autorevole gruppo editoriale Gallimard) del bando letterario (come si chiamavano all’epoca) richiamato all’inizio. Incoraggiato da Diderot, vi concorre. E vince il premio.
II
Gli organizzatori del concorso avevano formulato il tema forti dell’aspettativa di risposte affermative sulla questione, in accordo col clima culturale del periodo, quando gli intellettuali e lo stesso pubblico colto viaggiavano lanciati, convinti, sul treno del progresso e della civiltà dei Lumi, in piena buona fede e (non posso tacerlo) con una certa dose di ottimismo e ingenuità che la storia, a più riprese, poi schiaffeggerà. Insomma, ci si aspettava che dal concorso filosofico-scientifico uscisse, tra i vari svolgimenti del tema, la risposta più brillante e illuminante nel dimostrare la fondatezza della credenza generale che arti e scienze avessero reso gli uomini della loro epoca, il ‘700, ben migliori e più felici di quelli di ogni altro secolo passato, e con essi la società. A vincere, si è detto, sarà Rousseau. Da qui gli arride quel grande successo negli ambienti culturali (e anche politici) di tutta Europa, che ce l’ha consegnato come uno dei più grandi e influenti pensatori della modernità attraverso i secoli e le dispute sulle sue idee. Contrariamente alle aspettative dei promotori del concorso, Rousseau sostiene una tesi negativa: ciò che si ritiene progresso e civiltà è fonte di corruzione degli uomini e della loro vita collettiva; i popoli migliori e più felici sono quelli più lontani dalla civilizzazione e più vicini alla “natura”. Ma a sostenerlo è un uomo, quale che sia il modo, figlio di quella civilizzazione denigrata. E qui sta il nocciolo (misterioso?) di una sfida culturale e politica che attraverso Rousseau arriva fino a noi, benché nella nostra cultura dominante il ginevrino non sia in grande spolvero.
Il Tema di Rousseau viene pubblicato col titolo “Discorso sulle origini delle ineguaglianze”. E come hanno notato molti scrittori politici nei secoli successivi, chi per elogiarlo chi per condannarlo, così nasce quel libretto dove, per la prima volta con linguaggio moderno, viene formulata in modo compiuto, esplicito ed efficace quella visione “rivoluzionaria” che ispira dottrine, agitazioni e movimenti politici tra il XVIII e il XX secolo, spesso collocati a sinistra ma talora anche a destra dello spettro ideologico convenzionale che bene o male continuiamo a usare. Icastico è il celebre giudizio che ha immortalato il minuto e autodidatta ginevrino: «Gli uomini nascono buoni e la società li rende cattivi». Di questa tesi si può discutere, e si è discusso, all’infinito, vedendovi tanta ingenuità o cinismo. Molte e differenti sono le chiavi con cui gli studiosi di politica e di Rousseau hanno cercato di spiegare dove traesse alimento questa visione dell’uomo, della storia e della società e proprio nell’età dell’ottimismo dei Lumi. Ad esempio, per alcuni l’idea di una “bontà” insita nella natura dell’uomo e della sua corruzione ad opera della società deriverebbe dalla vita complicata di Jean-Jacques: nato e cresciuto in una città, Ginevra, dagli austeri costumi puritani, socializzato alla sua rigida moralità, il giovane sarebbe stato influenzato dagli ambienti talora anche torbidi in cui era vissuto, che avrebbero prodotto i suoi duri giudizi sulla vita sociale. Altri sottolinea come Rousseau fosse imbevuto di una mentalità tipica dell’Illuminismo riformatore e ideologicamente severo, una dottrina così astratta da indurlo a sentenze tanto deboli di fondamenta, al punto da fargli sfuggire la contraddizione di come fosse possibile pensare a una società malvagia e però nata da uomini tanto buoni. Nel primo e, a maggior ragione, nel secondo caso non si fa però onore al pensatore e non si coglie a fondo il senso delle sue idee, e cioè quel raccordo tra politica e senso morale che solo un realismo superficiale può negare. Ma torniamo al concorso che vede premiato Rousseau. Forse qui troviamo una spiegazione migliore della fonte ispiratrice della sua visione.
La Memoria vincitrice ebbe uno straordinario successo. Perché? Smentiva “radicalmente” le aspettative dei circoli intellettuali che avevano voluto il concorso, e non meno quelle del pubblico colto: mica poco. Il fatto è che Rousseau contestava le convinzioni diffuse negli ambienti culturali, e per molti aspetti nella società civile in generale, con argomenti che la sua epoca invero custodiva, da qualche parte, nella testa o nel cuore, nella sua cultura, in quei “sentimenti” a cui nello stesso periodo dava lustro Adam Smith, reso poi campione banalizzato della società liberale dei commerci, dello scambio utilitarista e miope. La sua epoca, quasi segretamente, apprezzava sommamente gli argomenti di Rousseau. Come se essi disvelassero un senso di “innocenza perduta”, che diventa pungolo per immaginare un mondo diverso, e migliore. Le idee “radicali” di Rousseau aprivano uno squarcio pungente sulla condizione umana e la società: sulla vita lavorativa, sull’economia, sulle politiche dei governi che nessun progresso sbandierato riusciva in effetti a rimediare. Forse un “senso di colpa” verso l’altra faccia del progresso e della civiltà, che persino i suoi laudatori, illuminati e dal pensare positivo, erano spinti a guardare? Dietro questo interrogativo si cela un enorme spazio per cimentarsi con la nostra società, con la nostra “democrazia reale”, con la nostra Unione Europea, che tendiamo a vedere come punti d’arrivo, di progresso incontestabile: il meglio che ci può essere per gli uomini.
III
Ma la nostra cultura politica cosa sa o può farsene di un Rousseau, quello che ha aperto la strada al socialismo e al comunismo? Niente. E infatti oggi, chi meglio chi peggio, si galleggia. Anche lungo l’italico stivale. Né più né meno che il governo Conte 2, che poco muove, ché se qualcosa muove, cade. E se cade, sono guai con l’Europa, per il Quirinale targato 2022, per “Rousseau”, quello pentastellato della piattaforma, s’intende. L’altro Rousseau, Jean-Jacques, è sparito. Lasciandoci delle idee di cui non sappiamo che farne. No?
Rousseau pensava che la soluzione fossero società piccole, città-repubbliche a democrazia diretta, dove ogni cittadino avesse efficaci diritti di sovranità, “inalienabili, indivisibili, imprescrittibili”. Ma la storia è andata in altra direzione, e viviamo in società di ampie dimensioni, globalizzate, a democrazia indiretta, rappresentativa. Non che Rousseau non vedesse e non capisse tutto ciò già ai suoi tempi, ma diceva: in queste grandi democrazie, con le loro istituzioni, costituzioni e leggi tanto care a Montesquieu, il potere non si dissolve e neppure la sua asimmetria tra chi sta nel “mondo di sopra” e chi nel “mondo di sotto”, né le diseguaglianze: solo «si diedero nuove catene al debole e nuove forze al ricco, distruggendo la libertà naturale e stabilendo per sempre l’ineguaglianza umana». Sta tutta qui la visione profonda della dialettica tra politica pro-sistema e anti-sistema, quali siano le forme e i soggetti in cui si manifesta. E di tanto in tanto si manifesta. È la politica alle sue radici, inestirpabili, che si fatica a scorgere nel tran tran quotidiano, ma che ha prodotto mutamenti storici epocali, ora buoni ora brutti. Una “democrazia aperta” è quella che si confronta e cerca di incorporare le spinti “anti-sistema”. Ma le nostre, a dispetto della retorica popperiana e liberale, sono “democrazie chiuse”. Rousseau aiuta a capire questo. Le sue opere si trovano in edizioni tascabili nei supermercati del libro, a lui si rifanno grilli parlanti, comici e piattaforme digitali. Ma il ginevrino è morto nel 1778. Prima della Rivoluzione Francese. La storia si fa beffe di chiunque. Ma “la storia siamo noi”, dice il cantante.