(Uscito, con altro titolo e in versione leggermente diversa, su “l’Adige”, 2 luglio 2020; “Alto Adige”, 4 luglio 2020 – Pubblicato su questo sito il 2 luglio 2020)
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«La profezia nasce quando ci si lascia provocare da Dio; non quando si gestisce la propria tranquillità e si tiene tutto sotto controllo», nasce quando si ribaltano le certezze e ci si apre alle sorprese di Dio. «Oggi abbiamo bisogno di profezia, di profezia vera: non di parolai che promettono l’impossibile». Così papa Francesco nella messa per i SS. Pietro e Paolo. Ma molti non credono in Dio, per loro “Dio è promessa impossibile”. Forse un parolaio, caro Francesco? Come la mettiamo con costoro? Da cosa possono lasciarsi provocare, se non credono in Dio, per cercare di sfuggire all’esistente “tutto sotto controllo”, fatto di routine che ingabbiano la vita e la svuotano di senso e dignità? Sono condannati all’assenza di orizzonti e di visione, senza quello stupore che tiene desta la mente e quella meraviglia che riempie il cuore? Su ciò vorrei riflettere, da laico. Non inganni il linguaggio: il tema è politico
Oggi è difficile immaginare un “mondo nuovo”, che rimedi alle storture di quello in cui viviamo, che ridia spessore e senso all’epoca di una politica incolore e di poteri sistemici che cercano di tenere a galla le nostre liberaldemocrazie. Abbiamo rinunciato ad “andare oltre”; ridotto i profeti a clown, e il joker non fa più ridere. Grandi ideologie e valori del passato che sfidavano l’esistente con nuovi orizzonti sono ora “favole terrificanti”: fan paura, “peggiorano le cose”, diciamo, non sono realizzabili. Così la politica si fa amministrazione dell’esistente, si svuota di quella tensione che è la vita e la dignità degli uomini. È la nostra ideologia o mentalità, incorpora i valori dominanti. Annebbiata è pure la vista sulla “realtà” che ci si para innanzi, figuriamoci sul resto, su un cambio di direzione di marcia. Ma la molla a esplorare non è mai del tutto scarica. Pure se caduti in una specie di pantano, più o meno respirabile a seconda dei casi, resta nell’aria una voce smarrita: “E non finisce mica il cielo”, cantava Mia Martini; e nemmeno la storia, cari epigoni di un hegelismo consunto. Autoinganno consolatorio? Dipende dalla parte che ciascuno sceglie o si trova a fare. Mettiamola così, caro Francesco.
Dice: «Chiamatemi Ismaele». E chiamiamolo Ismaele, allora. È il nome che gli ha dato il padre o se l’è dato lui? Chiamiamolo comunque con il “suo” nome. Lo faccia anche chi dissente, chi gli disconosce il nome e gliene dà un altro, un nome che vede in lui un “eroe” oppure che lo disprezza come “malerba”, o che gli suscita infinito smarrimento, sentimenti di compassionevole o colpevole perdizione. Ma chi si nasconde in Ismaele? Un “disadattato”? Un “fallito”? Il “destino” (tremendo quando ci si mette)? Scegliamogli pure il nome, se è ciò che vogliamo, ma quello sarà il “nostro” nome. Non il “suo”. Ma ascoltiamolo. Dice della terra e soprattutto del mare.
Dice: «Con in tasca poco o nulla, e niente in particolare che riuscisse a interessarmi a terra, quel giorno presi ad andarmene per mare». Dice che così gli capitava ogni volta che sorprendeva una smorfia amara sulla bocca, o un «novembre umido e stillante» a dominargli l’anima. Andarsene per mare – dice – è il suo surrogato della pillola, della pallottola, o di chi si fa pagare per ascoltare. Epperò ascoltiamolo.
Dice: «Zitto zitto, m’imbarco». Non c’è nulla di strano, aggiunge. Dice, mentre la saluta: «Eccovi l’insulare città dei Manhattenesi, tutta cinta da banchine come isole indiane dai banchi coralli»; e la risacca che l’avvolge: i suoi commerci. Ma potrebbe essere la città dei Napoletani o dei Genovesi, pure quella dei Torinesi o dei Romani, o Roseto degli Abruzzi, Pachino, Follonica, persino un paesello sul Garda. Le “onde” bagnano la città, le brezze la rinfrescano. Ci dice Ismaele: «Camminate ai margini della città in un sognante pomeriggio domenicale», camminatela in lungo e largo… «Cosa vedete? Piazzati a sentinelle silenziose intorno all’abitato stanno migliaia di mortali impietrati in sogni oceanici. Alcuni appoggiati ai pali, altri seduti sulle testate dei moli; questi spingono lo sguardo oltre le murate di navi che vengono dalla Cina, quelli aguzzano la vista verso l’alto, come cercassero di spaziare meglio l’occhio sul mare. Ma è gente di terra, uomini rinserrati nei giorni feriali tra cannicci e intonachi, legati ai banchi, inchiodati agli scanni, ribaditi alle scrivanie». S’interroga Ismaele, c’interroga: «Che cosa significa allora? I prati verdi sono scomparsi? Che fa qui questa gente?».
Ma guardate! Guardate! – dice. «Arrivano altri gruppi, marciano dritti all’acqua come volessero tuffarsi. Niente li soddisfa più del limite estremo della terra: oziare al riparo del vento, all’ombra di quei magazzini, non basta». Ciascuno si spinge, per andare all’acqua, il più vicino possibile però senza cascarci dentro: è gente dell’entroterra, vengono tutti «da traverse e vicoli, strade e viali, da est e da ovest, e qui si ritrovano». E Ismaele chiede: ma ditemi voi? quale forza di quale demone li attira qui?
Dice Ismaele: «Prendete il più distratto degli uomini quand’è sprofondato nei suoi sogni: mettetelo in piedi, mettete i piedi in movimento, e vi porterà infallibilmente all’acqua». L’acqua pare incontrarsi con la filosofia, come l’assetato con il professore di metafisica, che se s‘incontrano si chiedono: “Perché?”, e vanno a interrogarsi, questo è il punto, sul perché del bisogno di acqua; sulla vita? E prendete un artista ispirato. Dipinge per voi «il più fantastico, ombroso, quieto, incantevole tratto di paesaggio romantico di tutta la valle». Ma qual è l’elemento principale nascosto nei suoi pennelli? Il suo paesaggio è ricco, i colori si rincorrono: «Là si rizzano gli alberi, ognuno col tronco vuoto quasi ci fosse dentro un eremita; e qui dorme il prato e lì dorme il branco, e dalla casetta laggiù si alza un fumo sonnacchioso; e un cammino sinuoso s’addentra in remote selve. Ma per quanto la scena paia immersa nell’estasi, e il pino lasci cadere sospiri come foglie, tutto sarebbe inutile se l’occhio non fosse cucito alla corrente magica che ha davanti». L’acqua. O la vita?
Ismaele. L’uomo che ci chiede: «Perché voi stessi, al primo viaggio fatto da passeggeri, avete avvertito un brivido misterioso al sentire che voi e la nave avevate perso di vista la terra? Perché gli antichi Persiani consideravano sacro il mare? Perché i Greci gli assegnarono un dio a parte, e fratello dello stesso Giove? E ancora più profonda è quella storia di Narciso, che non potendo afferrare l’immagine tormentosa e gentile che vedeva nella fonte, vi si tuffò e morì annegato. Ma quell’immagine la vediamo noi stessi in tutti i fiumi e gli oceani. È l’immagine del fantasma inafferrabile della vita; e questo è la chiave di tutto».
Secondo Ismaele «il popolo guida i suoi capi in parecchie cose, proprio mentre i capi neanche lo sospettano». E qui la meditazione s’accende in discussione, e l’assetato, il filosofo e il marinaio fanno notte. E disaccordi. Che all’alba del nuovo giorno sbiadiscono, corrono via, e sono rincorsi. Afferrati, alla sera sono lì a essere rimeditati. Dice Ismaele: «Chiamatemi Ismaele». Non è il capitano Achab. Dice dell’uomo che s’imbarca da marinaio semplice, che sappia nuotare o meno, caro Francesco. E per questo dice anche della politica. O della democrazia che si ammala senza la caccia a Moby Dick.