(Uscito, in versioni leggermente diverse e con altri titoli, su “Alto Adige”, 30 maggio 2020; “L’Adige”, 4 giugno 2020 – Pubblicato su questo sito il 30 maggio 2020)
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In un’ampia intervista apparsa qualche giorno fa su un quotidiano nazionale, il premier Conte ha affrontato i temi dell’Italia del dopo lock-down. Con orgoglio, ribadisce che la salute pubblica è «valore supremo» della nostra società. Ma si sofferma soprattutto sulla necessità di fare «whatever it takes» per evitare che il Paese collassi nella crisi economica annunciata da numeri e previsioni preoccupanti. Si tratta di numeri e stime discutibili per molte buone ragioni, ma che comunque allarmano. Riguardano Pil, debito pubblico, disoccupazione, condizioni per i finanziamenti europei. Il premier rilancia misure per l’economia già annunciate e più volte ripetute ai tempi del Conte 1, quello del “contratto” politico tra M5S guidato da Di Maio e Lega di Salvini, nato all’indomani del voto del marzo del 2018 in un clima politico travagliatissimo che coinvolse direttamente anche il Quirinale: una serie di riforme del diritto societario, civile e penale, alleggerimento della pressione fiscale per agevolare le imprese; investimenti pubblici; piano europeo contro il dumping fiscale tra i Paesi dell’area Ue; qualche misura assistenziale. Invariato resta il fine: rendere l’Italia più competitiva e, in particolare, metterla in condizione di attrarre capitali stranieri.
Nell’intervista, si chiede se, nell’attuale situazione critica, il governo M5S-Pd voglia coinvolgere anche le opposizioni (Lega, Forza Italia, Fratelli d’Italia), e su quali punti di un programma tanto impegnativo, il premier non esita a rispondere: “Certo che sì”. (Ovviamente, chi avrebbe mai risposto “No, grazie”?). Ma come terreno del coinvolgimento indica scuola, ricerca, innovazione e dintorni. Questioni di primo rilievo, senza dubbio, ma risposta “Fuori tema”, annoterebbe la professoressa di italiano. Ed elusiva, aggiungerei. Al centro della scena, come Conte ben sa, c’è oggi il rapporto tra protezione della salute pubblica e rilancio dell’economia, che riguarda stili di vita e di consumo, psicologia personale e valori collettivi, dove reperire e dove investire denaro pubblico. Nel Paese serpeggia una contrapposizione tra Partito della Salute (PdS) e Partito dell’Economia (PdE): al momento è latente, esploderà non appena qualcosa dovesse andare storto nella fase di passaggio dalla clausura alla riapertura “in presenza” delle attività lavorative, formative, ricreative.
La polarizzazione sociale e politica tra PdS e PdE non va presa alla leggera, perché si nutre di una frattura in profondità, culturale e “vitale”, che tocca corde sensibili tra i ceti sia più sofisticati che popolari. Ma è un pericolo che si può e si deve governare. A una condizione, però: che la politica allarghi lo sguardo e ripensi cos’è l’economia, e il suo raccordo con la salute. Conte, lo abbiamo capito, è un politico scaltro, con buone frequentazioni nelle élite del potere (ovviamente “pro-sistema”) e in ambienti di cultura cattolica che vedono i limiti della società e dell’economia neoliberale; i suoi modi e la sua retorica godono anche di un certo appeal popolare “progressista”. Ma tutto ciò non basta a dirci che abbia anche la volontà e la forza per emergere alla statura di “statista dei nostri tempi”. Le nostre perplessità sul suo conto sono cresciute nel corso dei due anni di guida dei governi, quando pure ci è parso di intravedere, qua e là, segnali in questo senso ma che poi tracimavano in abile politichetta del tirare avanti dentro i binari dell’esistente. E allora?
Allora chiariamo. Uno statista alla guida di “un governo del cambiamento” (tanto caro a Conte), di fronte alle sfide che l’attuale emergenza rende acute, deve trovare modo di fare i conti, con occhio prospettico e un po’ di lungimiranza, con l’esigenza di una “politica anti-sistema”, dotandola di “visione” e di “forza”. E radicare in questa politica quel “nuovo umanesimo” necessario come stella polare società del “dopo emergenza”. Troppo spesso declamato dallo stesso Conte, ma mai perseguito davvero, oggi “nuovo umanesimo” significa riplasmare le ragioni dell’economia con quelle della salute. Di fronte alla frattura tra PdE e PdS, il campo va subito liberato da equivoci: l’economia non è faccenda secondaria. Dobbiamo tuttavia intenderci. L’economia è “un mezzo” per la vita dei singoli e della collettività. La sfera e la logica dell’economia riguardano il “cosa e come fare” per trovare, organizzare e distribuire le risorse (i beni) necessari per “fare stare bene” le singole persone e l’insieme della società. Questa è “la finalità” a cui guarda l’economia. In questo senso l’economia è sempre “aristotelicamente” politica (che si tratti di “economia politica” o di “politica economica” che si studiano all’università). Diversamente sarebbe ragioneria e contabilità, o “crematistica”, come la chiamava Aristotele. Non me ne vogliano gli amici economisti, confido che si capisca cosa intendo: da scienziato sociale, ritengo si debba guardare alla radice dei fenomeni, anche in materia di economia. Ma su questo punto, una distorta mentalità “pragmatico-realistica” mostra spesso disinteresse, magari liquidandolo con un sufficiente “Ma ovvio, lo si sa”, che evapora non appena pronunciato.
Nella cultura dominante colta o popolare, oggi “economia” significa guadagnare, fare profitti, risparmiare, investire, consumare. Per la politica e la società significa, in una parola, badare alla crescita (economica, appunto). E, altrettanto tipicamente, le preoccupazioni per la “grandezza della torta” sormontano di lunga quelle per la “distribuzione delle fette della torta” tra i diversi membri di una collettività. Mi dispiace, ma così non ci si cura del fatto primario che l’economia non è fine a se stessa, che il fine da perseguire è il benessere delle persone e la dignità di una società; il benessere che deriva dai beni, materiali e immateriali, considerati necessari e/o desiderabili per condurre una vita “normale”, o almeno decente, fatta di sanità e istruzione di qualità (per tutti), di attività lavorative tutelate, ma anche di socialità e svago, di cultura e divertimento, di relazioni e di cura delle persone (specie quelle più fragili).
Le risorse economiche sono importanti anche per permettere alle persone e alla società di “adattarsi” alle diverse situazioni della vita, e fare fronte alle difficoltà. Nel caso dello choc da coronavirus, le risorse economiche sono necessarie per affrontare una crisi che è “multi-sistema”, che investe una molteplicità di ambiti della vita. Muoversi in questa direzione richiede un enorme e difficile lavoro politico e culturale. Richiede un ceto politico e intellettuale capace di “rivoluzionare” progettualità e senso morale. Richiede leader politici dotati di visione, coraggio e forza: è qui la statura politica di uno statista. Ed è qui che va ricercato il nuovo umanesimo di cui c’è bisogno per “uscire dalla crisi” sani nella salute e nell’economia. La premessa è farsi carico anche delle istanze che dalla società arrivano politica anti-sistema, sia questa ora maggioranza, ora minoranza e opposizione. Ma il tanto decantato “buon cittadino”, dopo aver popolato i balconi con “Ce la faremo. Ne usciremo migliori!”, è pronto a questa revisione dei suoi schemi, e non a parole? Nell’assenza di un vero confronto tra ragioni pro-sistema e ragioni anti-sistema, e di suoi interpreti intellettuali e politici, la democrazia ingrigisce. E pure l’economia, la salute, la società. Le parole, gli equilibrismi, lo spezzettamento dei problemi in micro-risposte, talora riescono a fare sparire le grandi questioni, senza affrontarle davvero. Ma queste ritornano presto ad agitarsi, caro premier, caro Conte.