(Uscito, in versione leggermente diversa e con altro titolo, su “l’Adige”, 21 Maggio 2020; “Alto Adige”, 27 maggio 2020 – Pubblicato su questo sito il 21 maggio 2020)
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Sotto la minaccia del coronavirus, per convinzione o paura, alla fine ci si è riconosciuti in una sentenza più imperativa di qualsiasi comandamento, religioso o secolare che sia: la salute prima di tutto! Ovunque, con tempistiche diverse, dagli Stati Uniti alla Cina, in Europa i “nordici” come i “mediterranei”; in tutta Italia, quale che sia la regione, lo sviluppo economico o la mentalità. Dal Brennero a Capo Passero, maggioranza e opposizioni, imprese e sindacati, occupati o mal-occupati, dal mondo della scuola a quello del calcio, passando per i bar. Al più, sembrava ci si dividesse su dettagli, sugli accenti. Solo piccole minoranze avevano da ridire sulle limitazioni alle attività lavorative o alla socialità, alle libertà personali e del divertimento. Così per un mese circa. Poi la musica è cambiata (in Italia in aprile), e le priorità pure: la diffusione del contagio è calata, i reparti di terapia intensiva alleggeriti, il penoso conteggio dei morti si è rimpicciolito e sbiadite le penose scene del loro addio alla vita (non così dappertutto, però, vedi ancora oggi Stati Uniti, Russia, l’area asiatica, Medioriente, America Latina, e si tenga d’occhio l’Africa). Sia come sia, siamo alla Fase 2. Ora i vari soggetti (politici, istituzionali, economici) e le opinioni della gente si dividono, più di quanto alcuni ipotizzavano ai tempi del “Ne usciremo migliori e più uniti”. Si dividono sui tempi e modi della “ripartenza”: cresce il nervosismo sociale e quello degli interessi economici, che arriva a fare riesplodere guerre e guerriglie centrate sul “particulare” di ciascuno e delle categorie (emblematica è quella sul campionato di calcio).
Mentre la lotta politica tra i partiti è più opaca o sabbiosa che mai, mentre il Parlamento sede istituzionale della dialettica democratica da mesi risulta “non pervenuto”, la Fase 2, quella del (progressivo) “ritorno alla normalità”, sarà per molti aspetti più delicata della Fase 1 (la clausura): sia nella definizione che nella gestione. Sappiamo ancora troppo poco sul virus, sulle dinamiche del contagio e della malattia, sugli anticorpi nelle popolazioni, sull’autocontrollo dei comportamenti delle persone che riguadagnano legittima e sacrosanta libertà nella vita, non possediamo né vaccino ne farmaci adeguati. Ma sappiamo altre cose: altri problemi si sono vieppiù resi acuti all’attenzione di tutti. Tra questi, in primo piano quello dell’economia, della “salute economica” fatta a pezzi dalla crisi provocata dal virus ma anche dalla sua cattiva gestione, in Italia come altrove. Guardiamo dritto alle cose: lo slogan “La salute prima di tutto. Punto.” è stato, e non poteva che essere, di effimera durata, spesso superficiale; non di rado un po’ ipocrita e peloso. Velocemente, ha preso il sopravvento un altro slogan: “La salute prima di tutto, ma…”. I “ma” in questi casi raramente sono innocui, sono “congiunzioni avversative”, che esprimono un contrasto con la frase che li precede. Dietro il nuovo slogan si celano buone ragioni, e tanti problemi: la complessità della situazione in cui ci troviamo mentre va messa in campo la Fase 2, i molteplici e disordinati tentativi di gestire il “passaggio di fase” da parte dei governi nazionali e locali. Nel disorientamento generale in cui galleggiamo, se le cose si complicano, serio è il rischio che emerga una polarizzazione delle opinioni su cosa e come fare. Prende profilo un “nuovo” cleavage (frattura) della politica: il Partito della Salute” (PdS) da un lato, il “Partito dell’economia” (PdE) dall’altro. Questa contrapposizione è già oggi percepibile. Nasce dal fatto che, passata la paura, è cresciuta la forza, variamente ragionata, di coloro che sostengono: “Bisogna proteggere la salute, ma anche la salute dell’economia, senza di questa non si va da nessuna parte”. Non è semplificazione indebita dire che oggi molti pensano ed esprimono più di prima, apertamente, con argomenti più o meno sofisticati: “Prima l’economia”. Si potrebbe dire: passata la festa, gabbatu lu santu. Vero, ma questo sì è troppo semplice. Il fatto è che neppure questa volta ci sono “i buoni” contro “i cattivi”.
Si stima che nel 2020 avremo una recessione economica mondiale del 3%, a gennaio (prima dello scoppio della pandemia) si parlava di una crescita di oltre il 3%. La contrazione media dell’economia nell’Unione Europea sarà del 7.1%, con Italia intorno a -9%, Spagna -8%, Francia -7.2%, Germania -7%; il Regno Unito avrà -6.5%, gli USA quasi -6%, Giappone -5%, Russia -5.5%, Brasile -5.3%; altrove si arriva a punti di recessione ancora più dirompenti (ad es.: Libano -12%, Venezuela -15%, Macao quasi -30%); il Pil pro-capite scenderà in 170 Paesi. Poche le economie in crescita nel 2020: Cina (1.2%, ma nel 2019 era al 6%) o India (1.9%, nel 2019 era al 4.2%). Per capire la portata di questi numeri pensiamo che la devastante crisi finanziaria globale nel 2009 produsse una flessione dell’economia mondiale dello 0.1%, e a distanza di oltre 10 anni si fa ancora sentire: un trentesimo di quella stimata per il 2020 pandemico. Le cifre sono del Fondo Monetario Internazionale, ma altri enti dicono cose simili. Si tratta di “stime”, certo, e la cautela è d’obbligo. Si tratta di numeri che, oltretutto, valgono quel che valgono una volta date, e prese per buone, le tecniche e gli assunti delle misurazioni correnti del PIL. Nel contesto della cultura politica, economica e scientifica dominante, ispirata al primato (o al mito) della “crescita economica” secondi i criteri in auge, questi numeri disegnano però un paesaggio che allarma il mondo, le corporations, i governi, l’opinione pubblica e quindi (e soprattutto) i lavoratori, i ceti medi e quelli più deboli.
Così il PdE avanza. E il PdS arretra sulla difensiva, arroccandosi sul buon senso, ma anche sui modelli previsionali degli esperti: rischiamo una riesplosione dell’attacco virale dopo la riapertura delle case e il venir meno dei rigori del distanziamento sociale, dopo la ripartenza dell’economia e delle attività lavorative, per tanti motivi che diventano immediati se facciamo mente alle abitudini dell’uomo, alle tendenze irriflesse della nostra vita sociale. Ma la cornice che definisce la situazione è ora cambiata, a favore del PdE. D’altra parte, poco conta che una (marginale) subcultura di estrema sinistra continui a insistere sul fatto che il PdE è tutto proteso a difesa degli interessi del mondo del grande capitale, delle grandi imprese, delle banche e del sistema finanziario. Perché? Non basterebbe un librone per rispondere. Ma in due parole: per come funziona il mondo, la crisi dei giganti dell’economia si scaricherà sui piccoli, produrrà disoccupazione e povertà soprattutto ai ceti medi e più deboli, per milioni di famiglie; travolgerà i consumi di questi, il loro benessere economico, i loro stili di vita. Marx in questo avrebbe visto “l’inizio della fine del capitalismo”. Tocqueville, invece, un’ondata di reazioni individuali e collettive, il cui punto di equilibrio sarebbe “l’impossibilità della rivoluzione”. Noi, senza dimenticare il gusto per un’antropologia del potere, osserviamo le dinamiche di società, bene o male, cugine o parenti, figlie o nipoti, di quella che per brevità chiameremo l’arte della società democratica: angelica, diabolica o perversa a seconda dei casi. E ci accontenteremmo di inseguire una società della decenza. Ma questo un’altra volta, è un’altra storia.
Dopo la seconda crisi economica mondiale nel giro di pochi anni riesce difficile da spiegare il forte sostegno che riscuote il PdE nella realizzazione del suo piano politico: far tornare tutto come prima. L’assuefazione alla crescita economica è simile a quella del tossicodipedente che nonostante i danni fisici e psicologici subiti non può fare a meno della sua dose.
Dall’altra parte, il PdS, al di là delle divisioni apparenti che nascono dai differenti dati snocciolati dagli “esperti”, è molto più compatto di quanto sembri. Se vi sono spesso disaccordi nei metodi fra medici, virologhi, tecnici e scienziati, tutti sono uniti nel credere che vi sia un unico tipo di “Salute”. Come il PdE vede la salvezza nell’aumento di indicatori come il PIL, il PdS fa fronte comune nel ritenere che dalla crisi si uscirà quando miglioreranno le statistiche di ospedalizzazione, mortalità, e tutte le altre che appaiono quotidianamente nei nostri telegiornali.
Gli osservatori più critici potrebbero insinuare che in realtà non ci troviamo davanti a due partiti, ma ad un unico schieramento: il PdC, Partito della Crescita. Che sia quella economica o quella della salute. L’importante è un aumento quantitativo. Con i conseguenti danni al pensiero alternativo, locale, qualitativo. Un unico rullo compressore che appiattisce ogni difformità, altro che fantasia al potere.
Le cause che hanno condotto il virus ad essere così letale, ad avere questi effetti devastanti, rimangono in questo modo occulte per la maggior parte della popolazione mondiale (Trump a parte: lui è così furbo da avere prove contro la Cina di cui nemmeno i suoi servizi segreti sono al corrente). La “Crescita” continuerà a spingerci ad invadere ecosistemi e a contaminarci con malattie animali (o ad inventarne di nuove come la “mucca pazza”). Continuerà a sostenere lo sviluppo di multinazionali che spostano i loro prodotti su aerei e treni ad alta velocità aumentando la velocità di contagio globale. Continuerà a togliere orti alla popolazione in modo da poter dire che, durante le crisi che creano disoccupazione, questa “muore di fame”. Continuerà a far passare in secondo piano incidenti come quello di Porto Marghera avvenuto pochi giorni fa dopo che i lavoratori avevano scioperato inutilmente per denunciare la mancanza di sicurezza della fabbrica.
Il covid-19 non è che un sintomo. La vera malattia della nostra società è un’altra.