(Uscito su “Alto Adige”, 7 aprile 2016; “Trentino”, 9 aprile 2016 – Pubblicato su questo sito il 14 maggio 2020)
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Davvero “drammatico e illuminante”, il memoriale di Salem reso pubblico quattro anni fa sui quotidiani “Trentino” e “Alto Adige”. La testimonianza di un giovane tunisino ora in carcere a Trento, e che era arrivato ad un nulla dal diventare l’ennesima tragica “bomba umana” del terrorismo jihadista. Dà conto di una vita che raddoppia la sua drammaticità nel momento in cui il protagonista ne prende coscienza e ci fa i conti: quando Salem si guarda allo specchio e con auto-riflessione si riappropria del suo vissuto. Una vita che si dimena e incespica, che cerca appigli di senso e decenza, che ruzzola giù e cerca di rialzarsi: una vita di marginalità sociale ed esistenziale che ci evoca lo “scandalo” di una vita sprecata, che inquieta e disturba per la sottile linea che ci separa da una “storia sbagliata”.
Salem è figlio del suo mondo e del nostro mondo, allo stesso tempo: uno dei suoi figli, accanto ad altri figli con profilo e situazioni inaccostabili ai suoi. Non intendo fare sconti alle sue responsabilità individuali, ma la sua testimonianza condensa e riflette un’esperienza che è drammatica per la sua tessitura sociale, oltre che esistenziale. Ci apre una finestra sui giovani jihadisti che girano il mondo facendosi esplodere e dilaniando corpi di vittime “casuali” nel nome di Allah.
Molte ricerche sul tema concludono che alla base delle motivazioni e circostanze che portano ad accrescere le fila del terrorismo jihadista e il seguito del Califfato ci sono povertà ed esclusione sociale: gli jihadisti provengono da famiglie disgregate; sono nati e cresciuti nella miseria generale e, in Europa, in quartieri-ghetto saturi di delinquenza; sono emarginati nella scuola e nel lavoro, hanno alle spalle il carcere. Insomma sarebbe la “segregazione strutturale” socioeconomica la via che porta allo jihadismo: questa sarebbe la vera “frattura” tra noi e loro che la politica non riesce a comporre, questo il terreno sul quale lavorare, per far fronte al terrorismo nelle sue radici. C’è del vero in questa analisi, e la storia di Salem vi si iscrive. Ma sappiamo anche che non pochi jihadisti provengono dal ceto medio o sono laureati.
Le letture ispirate dal politicamente e culturalmente corretto ci avvertono anche di non farci ingannare dal fatto che gli attentatori uccidono e si fanno esplodere urlando il nome di Dio: la motivazione religiosa sarebbe solo accessoria e alla fine fuorviante per comprendere i loro gesti distruttivi. La testimonianza di Salem muove solo in parte in questa direzione: è più ricca di motivi e non supporta certe semplificazioni. Leggiamo: “non era la povertà o l’indigenza che rendevano la nostra vita un inferno, anche se le difficoltà erano ingenti: noi ringraziavamo sempre Dio per il poco che avevamo e nutrivamo speranza nel futuro. Erano inaccettabili, invece, la prepotenza, l’ingiustizia e lo sfruttamento di chi usava il potere con cattiveria: per questo la nostra vita era un inferno”. Se scaviamo un po’, al fondo dei motivi che stavano per fare di Salem un “uomo bomba” troviamo l’esperienza e la percezione di un mondo che tradisce i principi di giustizia, eguaglianza, dignità umana. Questi principi derivano da un senso morale e formano una visione ideale di come le cose “dovrebbero andare”: siamo nel campo delle ideologie, della cultura politica, non solo in quello delle crude diseguaglianze economiche. Nel caso di Salem questa credenza ideale ha un fondamento religioso, riposa nella fede in Dio. E’ questa cultura e questa fede che danno forma e contenuto al senso di frustrazione e al risentimento verso l’Occidente ricco e sfruttatore, cinico e nichilista. L’Islam come cultura della fede diventa così orizzonte di consolazione o di riscatto, e talora arriva ad offrire al credente un mondo extra-mondano dentro il quale e per il quale vivere, data l’indisponibilità terrena di valori appaganti e di una vita degna di essere vissuta. Tutto ciò può portare anche al rifiuto e alla negazione del mondo: alla distruzione di sé e degli altri. Scrive Salem: “Sentivo che Dio non era contento di me e ho trovato l’occasione per pregarlo, per leggere di più il Corano, fare il digiuno e tutto quello che avrebbe accontentato di me il mio Dio… Ero diventato come una bomba umana pronta a esplodere in qualsiasi posto e momento e ho cominciato a pensare che, se la mia morte fosse avvenuta in un altro modo, sarebbe stata una morte da codardi”. Anche se nel caso di Salem non si è arrivati a tanto, qui troviamo la radice della motivazione religiosa che (pure) muove il jihadista.
La testimonianza di Salem è illuminante, non solo drammatica. Delinea una biografia costruita dentro un universo di significato religioso e ricostruita attraverso un discorso religioso: dalla fase dell’insoddisfazione rispetto alle proprie condizioni di vita (prima del carcere), a quella dell’estremizzazione della fede alle soglie della violenza armata (in carcere), fino a quella del “ritorno al Dio dell’amore e della pace” (uscita dal carcere e colloquio con lo zio imam). Salem è spinto verso la “cattiva strada” da “fratelli di fede” e con argomenti religiosi ed è ricondotto sulla “buona strada”, sempre con argomenti religiosi, dallo zio imam e dalla famiglia. Questa specie di “parabola del figliol prodigo” acquista significato, nelle parole del protagonista, dentro un codice culturale tutto religioso. La sua è la biografia (interrotta) del “musulmano radicalizzato”, e non già quella dell’”estremista islamizzato” dove il fattore religioso è ridotto a orpello esteriore della motivazione alla violenza. Salem ci aiuta a capire, proprio perché non è arrivato all’estremo, come i giovani coinvolti nel jihadismo possano trarre, e spesso traggano, anche dalla religione la loro identità politica e il senso di legittimità della loro ideologia violenta e vendicativa.
Siamo abituati a ritenere che la religione dovrebbe fornire pace, amore e serenità, non violenza e terrore. Ma non possiamo tacere ciò che la religione ha fornito in passato e fornisce tuttora alla violenza: ideologie e motivazioni, valori e universi di significato, strutture comunitarie e organizzative di supporto. Non si tratta di processare la religione, ma di riconoscere che l’immaginario religioso possiede ancora grande capacità di azione nella vita collettiva. Dovremmo prendere sul serio il fattore religioso e i meccanismi della fede, e cercare anche nell’immaginario religioso la chiave per comprendere la violenza e per porvi rimedio. Dopotutto le religioni sono intrinsecamente rivoluzionarie: forniscono risorse ideologiche per visioni dell’ordine sociale alternative o sovversive rispetto a quelle dominanti. Pensiamo a Cristo che predicava: “Vi è sempre stato detto che… Ma io vi dico che…”. Sta alla nostra cultura saper raccogliere la sfida e rendere convincenti le buone ragioni per scegliere una strada anziché un’altra. Non sempre e non per tutti c’è uno zio capace di far recedere dalla cattiva strada. In bocca al lupo, Salem.