(Uscito, in versione leggermente diversa e con altro titolo, su “Alto Adige” e “Trentino”, 26 ottobre 2017 – Pubblicato su questo sito il 30 aprile 2020)
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Non lasciamoci confondere dal tono delle dichiarazioni che il premier spagnolo Mariano Rajoy e il presidente del governo catalano Carles Puigdemont si sono scambiati per giorni, dall’indomani del referendum indipendentista catalano del 1° ottobre (2017). Ossia dal fatto che entrambi, come altri esponenti del mondo politico e culturale, facciano ossessivo ricorso a parole come dialogo, negoziato, legalità, o alla parola democrazia, quasi che quest’ultima convogliasse un lessico che tutto spiega e regola in politica. Anche nel caso catalano-spagnolo, nonostante gli sforzi politici per ancorarla alla democrazia e nonostante le inerzie culturali e le analisi correnti, sfida indipendentista e risposta unionista fuoriescono dal perimetro della democrazia. O meglio dal perimetro liberaldemocratico e costituzionale, dal “perimetro costituito”. Gli sviluppi della crisi catalana di queste ultime ore lo stanno confermando. Per questo la questione indipendentista è inassimilabile a quella dell’autonomia regionale: accostarle è da miopi e produce confusione.
Quando è obiettivo da realizzare, l’indipendenza politica comporta la secessione. E la secessione rappresenta una sfida politica particolarmente critica. Ma apre anche una difficile sfida concettuale per l’analisi dei fenomeni politici. E la nostra forma mentale corrente è impreparata.
La secessione come dottrina e pratica che proclama l’indipendenza politica e territoriale di una comunità non riguarda una rivendicazione come molte altre in un quadro formale di democrazia. Con la secessione non si è di fronte alla politica “ordinaria”, comprensibile sotto principi e procedure del pluralismo e civismo, della libertà e legalità associati alla nostra idea di “democrazia data per scontata”. La secessione è una sfida “radicale”, di massima radicalità: va alla “radice” della politica, perché mette in gioco il “chi siamo” e il “chi comanda”. In ciò ha parecchio in comune con la rivoluzione e la guerra civile: l’attacco al principio di autorità (sovranità) che vincola tra loro parti di una comunità politica; un attacco che nasce dall’interno, per iniziativa di una collettività che giuridicamente e istituzionalmente ne fa parte. Proclamare e agire per la secessione implica una volontà di “rottura dell’autorità” di uno Stato.
La secessione appartiene alla grammatica politica dello “stato di eccezione”: una situazione in cui il corso “normale” della vita politica è messo in discussione. Chi reclama l’indipendenza si proietta al di fuori dell’ordinamento politico costituito. Non è casuale che Kelsen, grande costituzionalista del ‘900 e alfiere del normativismo giuridico, sul punto converga con Schmitt, suo grande rivale intellettuale, e definisca “rivoluzione” il processo tramite cui «una parte della popolazione di uno Stato si stacca e costituisce un nuovo Stato nel territorio in cui vive», o pretende di farlo. Gli atti di indipendenza sono atti rivoluzionari, non una fattispecie di atti procedurali o legali “democratici”. Ma rivoluzioni e guerre civili hanno prodotto anche democrazie. Questo è il problema duro che sollevano crisi come quella catalana.
Il quadro di valori e azioni della “rivoluzione” sfugge alla democrazia intesa nel senso liberaldemocratico usuale in Occidente, che enfatizza la democrazia come metodo, procedure, costituzione, istituzioni e legalità, il cui scopo è “normare” e “normalizzare”, istituzionalizzare, legalizzare il conflitto politico. La rivoluzione non rientra nella “democrazia costituita”, già data. Semmai rimanda alla “democrazia costituente”, a quella che si vuole costruire: nel caso dell’indipendenza a quella democrazia che si vuol costruire al di fuori dei confini politici statuali esistenti.
Quali che siano le motivazioni o giustificazioni alla sua base, la politica indipendentista ha un rapporto ambiguo ed ambivalente con la dottrina costituzionale liberaldemocratica, con le sue libertà, i suoi diritti. È quanto emerge dalla partita a scacchi tra Puigdemont e Rajoy, e che i due non vogliono riconoscere. Alla fine, la sfida indipendentista non può essere trattata semplicemente come una questione di democrazia “costituita” e con i suoi strumenti. Così accade che la Catalogna indica e svolga un referendum dichiarato illegale dalle istituzioni statali spagnole; lavori, secondo indiscrezione di El País, a un piano di infrastrutture informatiche, materiali e organizzative segrete e sganciate da quelle statali, per controllare e gestire la vita civile, economica e la sicurezza pubblica nel suo territorio; che le istituzioni catalane intendano applicare l’esito di un referendum “fuori legge”. E accade pure che lo Stato spagnolo arresti esponenti dell’indipendentismo catalano coinvolti nel referendum; usi le forze militari per impedire il referendum; metta sotto processo per sedizione il capo della polizia catalana; voglia far uso dell’articolo 155 della Costituzione per commissariare il governo autonomo catalano, arrestare il suo presidente e sospendere di fatto l’autonomia catalana sancita dalla Costituzione spagnola. La crisi catalana, tra indipendentisti e unionisti, rende però manifesto anche il fatto che la democrazia può diventare essa stessa una posta in gioco nel conflitto: governo regionale di Barcellona e governo nazionale di Madrid, infatti, chiamano entrambi in causa la difesa della democrazia, ma per ragioni opposte.
Se è vero che l’indipendenza a suo modo appartiene al regno della democrazia, di certo però non appartiene al regno delle nostre liberaldemocrazie: scompagina la sua grammatica, i suoi strumenti, la sua “regolazione politica”.
Se all’indipendenza o alla sua negazione si dovesse arrivare partendo dalle considerazioni di Puigdemont e Rajoy convergenti ma allo stesso tempo divergenti sui valori di libertà, pace, legalità e non-violenza, circoscrivendo il conflitto nei termini di volontà popolare, ricorso alle urne, procedure parlamentari e dialogo, allora Puigdemont e Rajoy, Catalogna e Spagna, avrebbero scritto una pagina miliare di storia politica, e avrebbero allargato il perimetro del nostro modo di concepire la democrazia. Con quali conseguenze è al momento difficile da dire. Ma lo svolgimento dei fatti dice che non siamo a questo. Di fronte a Puigdemont che si batte per l’indipendenza catalana come unica soluzione del conflitto storico tra Catalogna e Spagna, Rajoy risponde: «Non posso accettare in alcun modo l’esistenza di quello che lei chiama “conflitto storico tra lo Stato Spagnolo e la Catalogna”».
Quando entrano in gioco conflitti attorno all’unità o divisione dello Stato, entrano anche in gioco coercizione e violenza, e la “ragion di Stato” tende a sopraffare la “ragion democratica”. Così, come accade oggi, la difesa di una democrazia costituita (quella spagnola) e la difesa di una democrazia costituente (quella catalana) entrano in contraddizione tra loro e mostrano limiti e tensioni della grammatica democratica che normalmente non vediamo.
Il concetto di “democrazia” è scivoloso. La Repubblica Cinese si autodichiara “democratica”, anche se spesso viene catalogata come stato totalitario. Anche le nazioni europee si definiscono democratiche, e risulta tuttavia difficile essere concordi sul fatto che la sovranità appartenga al “demos”: c’è chi potrebbe sostenere che essa venga esercitata dal partito politico di maggioranza, dalle imposizioni bancarie, dal potere delle multinazionali, o dall’individualismo che è proprio l’opposto del concetto di “popolo”.
Esistono altresì diversi tipi di “democrazia”: c’è quella “diretta”, quella “rappresentativa”, quella “deliberativa”, ecc; ciò lascerebbe supporre che questo sia un concetto talmente ampio da sfuggire ad ogni definizione.
Costruire un significato comune di tale parola è la pre-condizione affinché si possa stabilire che cosa è “democratico” e cosa no. In caso contrario i conflitti che vogliono essere inscritti all’interno di tale orizzonte saranno difficilmente risolvibili e questo è il caso che è successo in Spagna: sia Madrid che Barcellona agiscono secondo la loro idea di quella che è la democrazia, pertanto dal loro punto di vista sono entrambi ferventi sostenitori di tale ideologia contro chi la vuole mettere a repentaglio e non c’è la possibilità di stabilire chi abbia “più ragione”.
Il dibattito acquisterebbe maggior significato se si spostasse il campo semantico in cui esso è inscritto e si lasciassero perdere questi appelli alla democrazia che spesso, alla fine, non fanno che far trionfare la legge del più forte.
Le vere differenze fra i due bellicosi schieramenti sono quelle che riguardano il criterio secondo il quale va costituita una società: da una parte stanno i sostenitori dello stato-nazione che rinchiude i suoi cittadini all’interno di confini frutto di passate conquiste (impostazione top-down), dall’altro quelli che propongono che i popoli si autodetermino secondo le varie bioregioni che si differenziano l’una dall’altra per lingua, cultura, tradizioni, conformazione geografica, ecc (impostazione down-top).
Solo levando la maschera democratica a questo conflitto si è liberi di scegliere per chi parteggiare